Kitabı oku: «Il diavolo nell'ampolla», sayfa 7
LA STELLA SIRIO
Alfonso Graldi entrò nella stanza del fratello e gli chiese:
– Hai sentito che cosa han detto le Raffi: dei socialisti e di Turri?
Raimondo lo guardò, e tacque. Non ricordava e ricercava nella memoria. Ma Alfonso interpretò quel silenzio e quello sguardo quali segni di apprensione per lo stesso suo dubbio e di timore per una deliberazione grave. E disse, calmo:
– Sta attento.
Poi, dominandosi e augurando la buona notte, uscì.
– Le Raffi? – Raimondo ricercava. – Vattelapesca! – Mentre discorrevano, su la terrazza, egli osservava Vega, Arturo e Antares. – Attento? A che cosa dovrei stare attento? Ai socialisti? A Turri? Perchè? Mah!
Turri non era venuto a conversazione, quella sera, e nemmeno l'arciprete; e appunto perchè non aveva avuto gli amici con cui si intratteneva volentieri egli, alle chiacchiere delle informatrici, aveva preferito ascoltare ciò che gli dicevano le stelle.
– Domattina lo domanderò a Adriana – soggiunse – ; se era presente e se ci avrà badato.
Anche Adriana infatti non dimostrava mai d'interessarsi ai pettegolezzi del paese, e, quando poteva, scampava dai fastidiosi argomenti di leghe, di soprusi municipali, di studiate rappresaglie, e battaglie minacciate, e sperate vittorie.
Raimondo si mise dunque a leggere il libro che gli giovava più del bromuro. Finchè l'occhio gli scorse su le righe senza più afferrarne il senso.
– Mio fratello – pensava – non è uno stupido; tutt'altro! Ma è vittima di una ambizione meschina. Vorrebbe prevalere a Castelronco. Che gloria!
A dir vero Alfonso Graldi non viveva solo nel paese e del paese. Arricchiva sempre più usando ingegno, energia e volontà in imprese agricole e industriali; estendendo l'opera sua in tutta la regione; acquistandosi stima invidiabile pur in città, dove si trasferiva l'inverno. Ma nel luogo nativo quasi per necessità doveva sorreggere i conservatori, e prepararli alla riscossa. – Bel gusto! – mormorava, malcontento, Raimondo. – Bel gusto consumar gioventù, forze, ingegno in simili lotte, per simili conquiste! Al solito: dispetti, ire, arrabbiature. E inganni da opporre, e insidie da evitare… Ah ecco!
Aveva trovato: credè aver trovato ciò che avevan detto quelle pettegole Raffi. Una delle solite: la storia di un appalto favorito dal sindaco e conceduto alla lega dei birocciai, per la ghiaia; di una frode nella misura delle birocce. – E io, forse, dovrei stare attento quando passano di qua, per la strada, le birocce, e accertarne la misura, io, che non ho niente da fare? Io? Povero Alfonso! Ma, e come c'entra Turri?
Per non perdere il sonno che arrivava, Raimondo si disse: – Domani sera lo domanderò a lui. – E chiuse il libro. E lo schiarimento ultimo sembrò venirgli appena spento il lume:
– Turri avrà gridato alla frode senza prove sicure, e i socialisti se la prenderanno, al solito, con lui e con noi. Anche con me? Oh io non ci penso, povero Alfonso, a queste gran cose! Sta pur sicuro! Sirio…
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– In cielo non c'è soltanto la luna per attestare, anche adesso, con la figura di Caino la nostra ignoranza, o non c'è soltanto il sole per abbarbagliare il nostro orgoglio, o Marte coi canali perchè possiamo riferire agli altri pianeti la nostra intelligenza e la nostra scienza, o Venere e Giove perchè troviamo lassù un termine di paragone al brillante e allo smeraldo che abbiamo in dito: c'è, a centro di un altro sistema planetario, una certa stella che si chiama Sirio, che in inverno e in primavera risplende mirabilmente e che col suo fulgore dovrebbe esortarci tutti a considerar più in là del nostro naso, della nostra terra e del nostro sistema planetario. Sapete con quale velocità corre la luce? Trecentomila chilometri al minuto secondo! Dico trecentomila chilometri al minuto secondo. Bene: sapete quanto tempo impiega Sirio a mandar a noi il suo fulgore? Sedici anni. Dico sedici anni! E sapete a che distanza corrispondono sedici anni di luce? A centocinquantasei bilioni di chilometri! Quando si consideri ciò, e quando si rifletta un poco che Sirio è vicinissimo in confronto alle nebulose, pare che le faccende dell'orbe terraqueo, non che gli avvenimenti della cronaca cittadina, i dibattiti del Consiglio comunale a Castelronco, gli interessi dei nostri amici o nemici, i casi e i beni e i mali delle nostre rispettabilissime persone, non possano avere una grande importanza nell'universo; non debbano avere nemmeno per noi l'importanza che crediamo noi.
Così Raimondo Graldi risolveva ogni questione, commentava ogni fatto, s'alleviava di ogni noia.
Ma non perciò era egoista e apate. Non era felice. Infermiccio sin da ragazzo, aveva trovata e protratta negli studi la sua illusione; e s'era consolato con la superiorità intellettuale che l'agiatezza gli consentiva di esercitare, in città e in villa a Castelronco, su un contorno di conoscenti e d'amici. E per un pezzo non si era accorto come in quella deferenza che gli dimostravano sottentrasse un sentimento di compassione, e doveva a Adriana – moglie di Alfonso da quattro anni – se aprendo gli occhi nella realtà del suo dominio egli aveva cominciato a disgustarsene. Non però un'intenzione maligna induceva Adriana ad essere sempre ironica con lui. La frivolezza e la mondanità (del mondo, naturalmente, fuori di Castelronco) sembravano accrescerle grazia, e la sua ironia era amabile perchè toccando solo gli studi che rendevan strano Raimondo e lo distoglievano dalla vita comune, significava insomma un riconoscimento della superiorità male riconosciuta dagli altri. E, anche, egli sentiva che il brio della cognata celava un segreto rovello. Forse perchè Adriana ormai disperava di divenir madre? Mah!
– Le donne, chi le capisce? – pensava Raimondo. – Mia cognata si direbbe leggera, eppure… Si direbbe vana, eppure… Si direbbe tal quale tutte le signore della società sciocca e falsa, eppure… Soffre: questo è solo quel che ci capisco io!
Finchè un bel giorno egli, che tra le scienze in cui aveva delibato noverava anche la psicologia, credè penetrare senza più dubbio nel mistero di lei. Certe sue mosse, certe occhiate al marito, certe attitudini sdegnose o certe ostentate espressioni d'affetto quando Alfonso tornava a casa dopo le frequenti assenze, per osservatori inesperti sarebbero state prove di stanchezza, di freddezza, magari di un'antipatia insorgente e indarno repressa.
– Ma a me non me la dà a intendere! – pensò Raimondo. – Ho visto! Adriana è innamorata pazza di Alfonso; ne è appassionata; è gelosa delle occupazioni e dell'ambizione che glielo rubano.
Tanto vero che compiangendo sè stessa compiangeva chi sfuggiva alle affannose gioie dell'amore.
A lui diceva:
– Innamoratevi, Raimondo! Amate, fin che siete in tempo!
– Amo – egli rispondeva.
– Già!, la vostra Sirio.
– Sirio è maschio.
– Vedete che sproposito? E intanto vi sfugge il meglio: la donna.
– Il meglio?
– Il meglio! Non avete ancora imparato che siamo stati creati appunto per godere e per soffrire amando; amando come si usa in terra e non fra gli astri? Non avete ancora compreso che la vita è amore e amore è la vita? Non avete ancora pensato voi, signor pensatore, perchè la fanciullezza è così bella? Perchè anche la vecchiaia può essere bella?
– No. Perchè?
– La fanciullezza – non ridete – è come l'antipasto dell'amore… E la vecchiaia può essere la tranquilla, beata, invidiabile digestione dell'amore. Non ridete, vi prego.
– Filosofia gastrica! – esclamò ridendo Raimondo. – Ma io mi pasco di luce.
– E siete cieco! Infelice!
Ebbene, sì: da qualche tempo egli si sentiva davvero infelice; ma non perchè si era lasciato rapir dalla scienza: anzi perchè alla scienza non si era dato con amore più saldo. Inoltrandosi negli anni e negli studi, a quel dilettarsi di una cultura superficiale e varia, al compiacimento di poter discorrere, con nozioni vecchie e nuove, di astronomia, di fisica e di chimica, di botanica e zoologia e mineralogia, eccetera, e di potere, con vive rimembranze, adornarsi di storia e filosofia e poesia, gli era seguìto nell'animo un senso di rammarico, come in chi s'avvede di consumare invano le sue forze.
E ora sapeva che non sapeva nulla di nulla, e sapeva tanto che immergersi nell'ignoto con l'ingenuità d'un bambino o d'un barbaro gli sarebbe parso ineffabile gaudio.
Ma anche ciò non poteva, perchè quanto aveva appreso gli suscitava dalla terra e dal cielo, in mille modi e mille forme, le tentazioni dell'ignoto e le prove della sua ignoranza particolare. E gli costava uno sforzo dire a sè stesso:
– Che importa il tuo soffrire, la tua ambizione insoddisfatta, se ti ricordi, Raimondo, che Sirio…?
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Per fortuna Sirio non gli rifiutava tutti i conforti di quaggiù.
Con sincera stima – ne era certo – lo divagavano dall'intima cura un discepolo e un collega. Discepolo gli si protestava il capitano Turri; il quale, vedovo di una ricca signora, aveva da poco lasciato l'esercito, ed essendosi comperato una villetta a Castelronco, presso a quella dei Graldi, nell'amicizia dei Graldi trovava incitamenti a passar bene i giorni e le sere d'estate. Con Alfonso, Turri combatteva, fuori, in pro del partito dell'ordine; con Raimondo si riposava, in casa, imparando senza discutere.
E l'ammirata sommissione del capitano era tale che – mentre egli ascoltava – Raimondo, il maestro, provava gusto pur a dire delle corbellerie. Quando il poeta superava in lui lo scienziato, la fantasia gli rendeva verosimili le più strane ipotesi, le spiegazioni più ardite. Dopo, se ne doleva, temeva. Se Turri consultasse qualche libro? qualche scienziato?
Ma no!, fiducioso, Turri non consultava niente e nessuno, o, tutt'al più, si rivolgeva a Adriana, allorchè assisteva alle severe lezioni, chiedendo:
– Che fenomeni, eh, signora?
La signora rompeva in una delle sue gaie risate e rispondeva:
– E questo è poco! Chi sa in Sirio!
Ma con il collega le cose procedevano diversamente. Era l'arciprete. Meditativi entrambi, don Paolo e Raimondo interrompevano di silenzi e sospiri le discussioni serali e le cognizioni che s'impartivano a vicenda: afflitto don Paolo che alla dottrina dell'amico mancasse la direzione della fede, e malcontento Raimondo perchè all'intelligenza dell'amico mancasse la travagliosa eppur feconda necessità del dubbio.
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Alcune settimane dopo la sera che Alfonso aveva mosso al fratello l'oscuro ammonimento – e Alfonso non ne aveva più tenuto parola nè Raimondo se ne era più ricordato – l'arciprete, dalla via, sorprese l'amico una mattina mentre curava i fiori prediletti.
E gli disse piano, timidamente, quasi:
– Ho da parlarle.
Andandogli incontro per il viale che metteva, un po' di lungo, all'ingresso della strada, Raimondo pensava:
– Don Paolo mi sembra stralunato. Parlarmi di che cosa?
Di che avevano discusso nei recenti colloqui? Degli elementi dell'atomo (elettroni…); delle macchie solari in rapporto alla meteorologia…; di Darwin in rapporto ai neovitalisti…; della – ah, sì! – della pluralità dei mondi abitati – sì, sì – in rapporto alla religione e al dogma. E in presenza di donne egli si era lasciato trasportar troppo dall'argomento; aveva turbato, in grazia delle scandalizzate ascoltatrici, la serena tolleranza, la coscienza del bravo prete.
– Colpa di Sirio! – si disse ancora Raimondo vedendo con la mente il sorriso ironico di Adriana. Infatti al tema pericoloso li aveva condotti, quella sera, l'accenno al pianeta che gira intorno a Sirio in cinquant'anni.
Ma don Paolo parve anche più imbarazzato quando seduto sul sedile, tra il folto, cominciò a bassa voce:
– La nostra amicizia e la mia prudenza, anzi il mio dovere… m'impongono…
Raimondo gli fu subito grato del tono dimesso, della soggezione manifesta, e pentito com'era d'avergli fatto dispiacere, affrettò:
– Ho capito, don Paolo. Lei ha ragione.
Il prete sembrò ora meravigliarsi di quella consapevolezza; ma l'altro abbassò gli occhi, quasi a significare: – Le dò ragione, sebbene l'amore della scienza mi giustifichi.
– Lei capisce – seguitò il prete, grato a un tempo che gli fossero risparmiate spiegazioni penose, e dolente di dover insistere per condurre l'amico al suo prudenziale consiglio.
– Lo scandalo… Le chiacchiere… La perfidia degli avversari…
Già: felici di dare addosso a un povero prete, che per l'amor della scienza si comprometteva in conversazione sopportando teorie irreligiose.
All'insistenza però del collega, Raimondo non volle più cedere del tutto; oppose, serio:
– Capisco; capisco. Ma non diamo troppo peso…
– Il mio timore – interruppe angustiato don Paolo – , il mio timore è che le voci, le accuse anonime pervengano all'orecchio di chi deve ignorare…
Dell'arcivescovo? Povero don Paolo!; si aspettava noie fin dalla Curia!
– Ha ragione – affrettò di nuovo Raimondo. – Le prometto…
Ma allora una bella risata squillò dietro di essi e li fe' sorgere in piedi. Adriana.
– Bravo don Paolo! – esclamò. E scendendo per l'erta, tra i lauri: – L'ora è propizia!
Il prete, pallido, stentò a sorridere.
– Di giorno – la signora soggiunse – non si vedono le stelle, e adesso le sarà più facile persuadere questo ostinato…
– A che? – Raimondo chiese.
– A non perdere di vista le cose terrene!
Don Paolo guardò la signora con ricuperato animo. Disse:
– Forse sarebbe meglio, certe volte, perderle di vista!
E la signora fissò il prete.
– Oh! Così non deve dir lei, reverendo, che con tanto zelo compie quaggiù la sua missione di carità e di amore!
Anche Raimondo sentì l'ironia e gli dispiacque.
– Mia cognata – interloquì – mi giudica egoista, apate.
– Se non foste, non avreste sempre la testa in Sirio.
Sviato, il discorso proseguì scherzoso tra i due e lasciò libero il terzo di andarsene presto. Se n'andò, don Paolo, convinto d'avere provveduto alla sua missione.
– Ora la metterà in guardia – pensava. – Mi ha capito meglio lui di lei.
—
… Ed era stata per Raimondo una notte quasi insonne, sebbene senza sospetti di nessuna sorta.
S'alzò all'alba; spalancò la finestra.
E si rimise, così vestito, sul letto. Nella quiete ancora notturna pesava l'aspettazione del giorno canicolare. Poi i suoni vi furono come gettati dentro da lungi ed estesi da onde che vibrassero basse e dense, quasi staccate dall'aria che le recava. Rari abbaiamenti e gallicini fiochi. Nè questi suoni rompevano l'immenso silenzio; e lo dilatavano, infinito, lo spesso zittìo delle locuste e il fondo e grasso gracidare dei rospi.
Solo una voce umana avrebbe rotto il silenzio immenso, avrebbe ridestata la vita; ma non si udiva una voce d'uomo. E guardando di là, da sedere sul letto, agli alberi che nereggiavano lungo il clivo, Raimondo pensava agli uomini, e gli parevano creature poco dissimili da quelli: la superiore anima degli uni non era radicata alla terra come la vitalità degli altri? Il pensiero non era forse vincolato alla materia bruta? O forse Adriana, nella sua ignoranza, scorgeva il vero? Unica realtà capace di idealità e spiritualità, unica illusione difesa e sostenuta dalla realtà sarebbe l'amore? Unica felicità addentrarci amando nella vita della materia, per illuderci godendo e soffrendo di superar la terra che ci avvinghia con radici tenaci fino alla morte?
Un galoppo veniva di lontano lontano, e Raimondo l'accompagnò con udito or più or meno sensibile. Lontano lontano… E mentre la frescura lo riassopiva, e mentre gli pareva che quel galoppo strappasse affannosamente la strada, credè ricordarsi che Alfonso aveva detto di restare assente tre giorni… Ma nell'avanzare il galoppo cadeva a trotto uguale; scemava; cessava. Alfonso? No. Non poteva esser lui che ritornasse un giorno prima, a quell'ora, dal luogo ove gli affari l'avevano intrattenuto, quantunque non di rado, per il caldo, viaggiasse anche la notte col suo buon cavallo.
Quand'ecco un rumore vicino riscosse dal dormiveglia Raimondo: un repentino, affrettato rumor di passi, nella loggia. Ascoltò. Non sognava. Qualcuno apriva le imposte della ringhiera. Balzò e corse alla finestra e… Come in un sogno volle gridare al ladro, e non potè. Giù, d'un salto, dal balcone, il fuggitivo scompariva tra le macchie: riconoscibile. Riconosciuto! Lui!
E altri passi più forti per le scale e nella loggia; e lo sbattere violento d'un uscio.
Turri! Alfonso! Con la mente vacillante, col cuore stretto da un'angoscia mortale, Raimondo percepì le due imagini nella rivelazione istantanea, e tutto gli apparve in una improvvisa orrenda luce. Ah le parole delle Raffi! Solo adesso le ricordava! E insieme, d'un tratto, vide quanto avrebbe dovuto intendere prima, a poco a poco, se avesse ricordato e riflettuto: l'ammonimento del fratello («sta attento»), le parole delle Raffi («il capitano, dicono i socialisti, consola i mariti fuori e le mogli in casa»), la prudenza di don Paolo, gli infingimenti di Adriana. Vide Adriana, e tremò per lei. Di pietà tremò. Uscì, disperato.
Scendendo dal piano superiore, scarmigliata, piangente, con le mani in croce, disperata, lo affrontò la cameriera; e lamentando – Dio! Dio! – pareva rinfacciare a lui la storditezza, la debolezza, la viltà che non aveva saputo impedire, che non sapeva impedire. Raimondo si sentì mancare. Ma… – l'uccide, l'ha uccisa! – ecco il colpo. E si precipitò verso là.
Alfonso uscendo lo respinse. Stringeva in pugno il revolver. Si guardarono nell'attimo tragico.
Fratelli?
E con voce ferma, con la stessa voce con cui aveva detto quella sera: – sta attento – Alfonso disse al fratello:
– L'ho uccisa.
L'ASINO NEL FIUME
La maggior piena era passata: ora la fiumana, contenuta nella parte più bassa, scorreva rapida, ma a piccole onde lievi lievi che s'inseguivano riscintillando. Il sole, nel sereno purificato dalla pioggia della mattina, la irradiava, vi si rifletteva quasi in liquido argento; e ove dilagava nel letto più ampio, l'acqua pareva espandersi dall'agitazione del mezzo e indugiare, di costa, in un tremolìo fulgido, frequente e incessante; come in una trepida gioia infinita.
Per passare dalla riva sinistra alla destra a caricarvi la ghiaia, i birocciai dovevano seguire la carraia che avevano praticata evitando massi e borri e seguire, sotto l'acqua, i solchi delle ruote. Discesero in fila: ritti su le birocce essi schioccavan la frusta ed incitavano con voci di iù! mentre trattenevan le redini; ed i cavalli a testa alta, scuotendo le sonagliere, entravano nella corrente e godevano a diguazzare in quella vivida intermittenza, a precedere o a tener dietro ai compagni attraverso quella confusione e quel palpito d'acqua e splendore. E l'esser passati era per gli animali e per gli uomini come un'allegra vittoria.
Venne ultimo, con la sgangherata biroccetta e l'asino, Sugnazza. Anche lui! Urlava anche lui; e bastonava. Ma l'asino non aveva baldanza: troppi digiuni e troppe bòtte. E quando non era ancor a metà del guado, si fermò. Si fermò rigido, a orecchie chine, con intenzione dubbia. L'arrestava l'ignota delizia del bagno, o lo atterrivano il luccichio e la vertigine? E non bastavan più il bastone e le grida.
– Dàlli, Sugnazza! – Arrì! – Forza! – ripetevano i birocciai sghignazzando, intanto che raccoglievano dai mucchi la ghiaia e la caricavano con fragore di badili. – Forza! Se no, l'acqua ti porta via! Dàlli!
Dava; e l'asino, duro. Finchè, fosse una randellata di tal sorta da affrettare il destino, o fosse una funesta illusione di riposo e di pace che irresistibilmente l'attirasse, la bestia si abbandonò e cadde; e Sugnazza battè il petto contro il riparo, dinanzi. Ahi! Calò, sì, subito, nell'acqua e, furioso, percosse, bestemmiò e maledisse; ma era finita. E quando fu certo…
– Gli è crepato l'asino! Gli è crepato l'asino! – esclamarono quegli altri accorrendo a vedere e a ridere.
L'asino non si mosse più. E quando fu certo, Sugnazza tacque; risalì nella biroccia prona su la bestia morta e vi si distese per il lungo, la testa poggiata su le braccia e la faccia in giù, con apparenza d'uno che cogliesse una bella occasione per schiacciare un sonnellino.
E per non disturbare nè lui nè la bestia i birocciai, al ritorno, tirarono un po' da parte. Ridevano ancora.
Quel disgraziato – che matto! – sembrava voler passarsela così la sua batosta: pacificamente, dormendo!
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Ma Sugnazza non dormiva. E non piangeva. Si vedeva, a occhi chiusi, morto di fame, là, press'a poco come il suo asino. Dal dì avanti egli non aveva ingollato cibo, e gli ultimi soldi gli erano andati, la mattina, in grappa. Un pezzo di pane a credito per qualche giorno, da qualche fornaio, lo avrebbe trovato; ma poi, cosa fare? Lavorare a opera? Chi l'avrebbe preso, ormai che il cuore gli ballava il trescone a ogni sforzo e i polmoni arsi pativan sete d'aria più che lo stomaco d'acquavite? E chi l'avrebbe voluto a servire in casa con quella tara che portava addosso da vent'anni? E chi gli avrebbe fatta volontieri l'elemosina, a un uomo che non era vecchio, e, quando poteva, si ubriacava?
O comperare un'altra bestia per la biroccia, o morir di fame. Questa la conclusione.
Ma se questa, di un altr'asino, era la sola speranza, bisognava persuaderne il mondo e dire: – O voi che potete mi aiutate, o io mi lascio morir di fame qui dove sono, con l'asino. Sissignori! E mantengo!
Veramente nell'opinione pubblica Sugnazza godeva stima di essere risoluto. Non per altro che per il modo con cui la vinceva sul suo compagno di sventura aveva suscitata sempre l'ilarità e, perchè no?, la simpatia dei compaesani.
Povera bestia!; più povera forse sotto la biroccia scarica che sotto il carico. Allorchè il padrone, dalla biroccia, s'ergeva a sostener la corsa per la maggior via del paese, l'asino dava uno spettacolo di pazienza e di sofferenza così sproporzionate da divertire anche la gente seria. Al grido annunziatore della tempesta incurvava il dorso quasi per offrir più alto il campo al randello e uscir tosto di pena; teneva stretta stretta la coda quasi per sottrarre sol esso, il suo unico inutile schermo; e finchè i colpi erano sopportabili interrompeva un istante l'andare abbassando la testa e rialzando un po' insieme le gambe di dietro quasi per accusar ricevuta. Ma se le legnate piombavano senza misericordia, allora col torace vuoto e risonante l'infelice aderiva a una delle stanghe, in un vano tentativo di allontanarsi, e pareva piangesse con le orecchie.
– Dàlli, Sugnazza!
Dava; e quell'uomo lungo lungo, squallido, barbuto, brutto, sporco, assomigliava al destino che non lascia tregua all'umanità. Tutti riconoscevano un po' sè stessi in quell'asino (siamo al mondo per soffrire); ma la virtù del saper soffrire è così rara negli uomini che diveniva amena a vederla in un animale di quella sorta.
Se però la bestia era sempre una bestia, l'uomo era sempre un uomo; e poichè pativa il tormento della fame, Sugnazza ora s'imaginava che ognuno – anche chi rideva dell'asino sotto le sue bòtte – si commoverebbe della sua disgrazia, della sua disperata decisione. Certo: il sindaco, l'arciprete, la Congregazione di carità, gli avventori, e, quantunque non fosse in lega, i fratelli della Camera del Lavoro, subito raccoglierebbero sussidi e offerte affinchè il disgraziato non si lasciasse morire là nel fiume, con l'asino. Certo: bastava informarli di questo proposito che aveva in mente, e tutti si darebbero d'attorno per aiutarlo. Nè a informarli mancherebbero messaggeri. Quanti, fra poco, correrebbero a vederlo e a compiangerlo, povero diavolo, da venti anni perseguitato dalla sfortuna; e adesso gli era spirato l'asino là in mezzo!
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Non appena infatti i birocciai della ghiaia ebbero data la nuova all'osteria del borgo, qualche ozioso e parecchi monelli si affrettarono gaiamente allo spettacolo inatteso. Gli uomini ristettero sul ponte o sulla sponda sinistra; e chiamavano Sugnazza, e lo canzonavano con le grida e le apostrofi che egli usava con il suo asino: i monelli preferirono passare di là dalla strada e dalla sponda destra calar nel greto già asciutto; indi metter mano ai ciottoli. Della bestia non si scorgeva che la pancia gonfia, a fior d'acqua; dell'uomo si scorgeva solo quel che del dorso superava i ripari della biroccia; e la difficoltà di colpir giusto suscitava legittima emulazione. La sassaiola cadeva nell'acqua, sollevava spruzzi brillanti.
Ma – bene! – un sassolino toccò Sugnazza proprio dove più sporgeva a bersaglio.
Si alzò in piedi. Con quanta ira potè elevò il bastone, e sembrò sfidar l'aria; e tendendo l'altro braccio, per allargare la minaccia alla vastità della scena, urlò con quanta voce potè: – Lasciatemi stare! Il fiume è di tutti! Qui sono e qui sto; qui voglio morire, se chi può non mi aiuta! Diteglielo! – urlava. – Diteglielo! – urlò di nuovo rivolto a quelli che eran sul ponte. – Se non mi aiutano a comperare un'altra bestia, mi lascio morir qui, com'è vero Dio!
Ma a una nuova sassata, la lunga, grama, oscura persona di lui, che nella luce meridiana e nello splendore dell'acqua si sarebbe detto un fantasma non più pauroso rimasto là fuor d'ora, sopra una biroccia, per un caso buffo, si rovesciò a rigiacere e non die' più segno di vita.
Frattanto, di bocca in bocca, la notizia andava per tutto il paese.
Al Caffè grande la portò un assessore, e il sindaco, che giocava l'ultima partita a biliardo prima di desinare, disse:
– L'asino deve essere seppellito dentro oggi; se no, si applica la multa a termini del nuovo regolamento d'igiene.
– Avviseremo Sugnazza – disse l'assessore.
– Ma lascerà di certo l'asino ad appestar l'aria e l'acqua, perchè, tanto, la multa non la pagherà mai!
– Gli si sequestra la biroccia – ribattè il sindaco. – Non varrà qualche lira?
E in canonica l'arciprete già desinava, quando il campanaro venne a raccontare che Sugnazza aveva accoppato l'asino attraversando la fiumana.
– Povera bestia! Ha finito di soffrire – l'arciprete commentò. – Speriamo che non ne capiti mai più nessun'altra sotto quelle mani!
Al pomeriggio il presidente della Congregazione entrava dal tabaccaio.
– Sa? Nel fiume, questa mattina, è crepato l'asino di Sugnazza.
Il presidente fece un comico atto di disperazione, e chiese:
– Aveva famiglia?
– Chi?
– L'asino?
Rispose uno:
– Aveva dei parenti, ma son tutti benestanti, e non dimanderanno sussidi; stia pur tranquillo!
E alla Camera del Lavoro il segretario esilarò i compagni, che vi riposavano e conversavano, esclamando:
– Poco male se a Sugnazza gli è morto l'asino. Con i quattrini che ha risparmiato a far il crumiro si comprerà un camion!
Quanto al cliente che fin dal mattino aspettava la sabbia da Sugnazza, non vedendolo arrivare e imparando il perchè, fece quel che avrebbero fatto tutti nel suo caso: andò in cerca d'un altro birocciaio che, come quello, non stesse alla tariffa della Lega. Nè il divertimento, dal ponte e dalla riva, cessò prima di sera. Verso sera venne anche una guardia municipale recando seco il nuovo regolamento d'igiene.
– Sissignore: seppellire i morti – borbottò Sugnazza. – Aspettate ancora un poco.
—
Ancora un poco… Allo spasimo della fame gli era seguito un senso di ondeggiamento in cui gli pareva di sentirsi trasportar dall'anima. Ma la pena era adesso nelle visioni dell'inedia: torbide, tristi; di pianto. Bieca e cattiva più che ogni altra l'affannava l'imagine dell'uomo che era stato causa della sua rovina: a quando a quando il Biondino entrava evidente in quel turbine e gli diceva con un ghigno: – Muori?
Sì: moriva dopo venti anni di miseria, spossato nel cuore e nel petto, bruciato dall'acquavite; moriva d'inedia. E per lui!
Un breve amore; l'invidia che la donna sposasse l'altro; la gelosia e la provocazione dell'altro; la lite e la ferita – da niente – una scalfittura seguita dall'infezione per cui all'altro – il Biondino – s'era dovuto amputare il braccio; e il processo; e la condanna; ecco ciò che era avvenuto in gioventù ad Andrea Porta non ancora detto Sugnazza; ecco come l'odio aveva per venti anni avvelenato due esistenze; ecco perchè il vinto or vagellava in una torbida, turbinosa tristezza, in un'insania spaventosa, mentre l'imagine dell'odio, del Biondino poi detto il Monco, gli diceva ghignando: – Muori?
Ed egli, il vinto, ora per la prima volta si sentiva l'anima. Ondeggiava così leggera, così desiderosa di luce e di quiete! Per vedere se fuori di lui, nel mondo silenzioso, fosse già buio, Sugnazza si voltò supino, con fatica estrema. Quante stelle! E chiuse gli occhi senza più rivoltarsi, come alla rivelazione di una cosa orribile. Tanto bello era il cielo! e il mondo…
Nessuno aveva avuto compassione di lui che moriva. Nessuno! Nessuno!
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– Ohe! Andrea!
Sugnazza trasalì. Da vent'anni non aveva mai più udito chiamarsi col suo nome. Piegò a pena il viso; e diresse lo sguardo verso dove veniva la voce; lontana lontana o lì presso?
– Ascolta, Andrea – seguitava. – T'ho sentito oggi quando hai detto quello che hai detto. Ma non son ragioni. Chi vuoi che ti regali un altr'asino?
Sugnazza udiva; e scampava, con lo sguardo, all'orrore di quella voce. Quante lucciole sulla costa! Nel silenzio, palpitavano di luce quasi in una gara instancabile; ed erano così fitte che elevandosi e ricadendo e volteggiando, ciascuna sembrava immobile.
– Credi d'esser disgraziato sol tu? – seguitava l'intollerabile voce. – A te ti è morto l'asino; io ho la donna all'ospedale, e non c'è speranza che si rimetta; e sai che lavorava lei per me, e guadagnava molto; da sarta. Io vado a ranocchi; ma adesso tutti son signori, e non ne vogliono.
Maledetto! Era proprio il Biondino!
– Mi ascolti, Andrea?
Sugnazza non avrebbe voluto vederlo, eppure era costretto a cercarlo con lo sguardo estremo. E una luce rossa, gettatagli contro, gli raccolse lo sguardo.
Allora lo vide, il suo nemico, illuminato in faccia dalla lanterna che aveva aperta per osservar lui – la lanterna con la quale affascinava i ranocchi – ; e la luce rossa si diffuse nell'acqua intorno all'asino morto.
– Dunque – soggiunse il Biondino d'un tempo, ora il Monco – ; dunque senti che pensiero ho fatto. Noi siamo stati disgraziati tutti e due, uno per causa dell'altro. Destino! tu hai rovinato me, io te. Ma io ho qualche risparmio, della donna, e ti posso aiutare; e tu, me. Ti compero io la bestia; e conduciamo il lavoro insieme. Io ti guido la bestia e tu mi dai biroccia e braccia: entriamo nella Lega per guadagnar di più; e il guadagno a mezzo. Ci stai?