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Kitabı oku: «Novelle umoristiche», sayfa 14

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In Arcadia

Rioronco, su l'Appennino, è lontano quasi trenta miglia da Bologna e dieci dal men grosso paese, Castello. La strada che vi menava una volta era per lungo tratto il greto del fiume Idice, e poi una carraia, stretta fra balzi e rotta spesso da lavine, della quale non avrebbe potuto rendersi comparativa idea neppure chi avesse vista una via di Milano scomposta per prova di un nuovo pavimento. Ma, or è qualche anno, fu condotta dalla costa dell'Idice una strada comunale che passando di lassù doveva contribuire anch'essa ai fatti di questo racconto. E lassù, dal sagrato della chiesa, il luogo è delizioso: aperto davanti e al di sopra di colline o più basse montagne, di cui una ha nome dall'antica Pieve, e chiuso, dietro, da monti più alti, su cui sorgono evidenti i tozzi campanili di San Martino, di San Giorgio e di Cignano. Fra i castagneti appaiono le case bianche; tra balze, fratte e pioppi il rio va a cadere nell'Idice, che ai dì sereni si distende in nitido e obliquo letto per la plaga occidentale, alla pianura.

Di forestieri a Rioronco non capitano che i carabinieri, a quando a quando, o, pur troppo, il cursore del comune. La scuola è distante e fuori della strada nuova. Un giornale vecchio d'un anno, se pervenga a chi sa leggere, è un foglio pieno di meravigliose novità.

Anche, a pochi passi dalla chiesa, un'osteria serve da spaccio d'ogni genere; fin di sigari toscani, i quali, stagionati come sono, mitigherebbero il più fiero nemico della «Regia Privativa.»

Ma oltre questi benefizi, e oltre i bei castagneti che, se non ci si metta la malattia della foglia, producono assai, e le belle vigne, che, se non le guastano malanni delle foglie e del grappolo, producono assai; oltre la terra fertile di formentone e di meliga, il rio Rosso ha per i più poveri qualche pesce e molti gamberi; qualche anguilla e tanti ranocchi!

I ranocchi si prendono la notte con la «facella»; ciò e un pugno di canne le quali, accese, bruciano adagio e alla cui fiamma quelle curiose bestiole si destano, espongono a fior d'acqua e di fra le alighe il capo stupefatto, e restano immote, fisse, incredule ai loro stessi occhi, non si sa bene di che cosa. Forse scambiano quella luce con l'aurora, o credono a qualche scientifica scoperta degli uomini; il fatto sta, che nell'estasi sono raccolti e gettati in un sacco, dove, al ruvido contatto della tela con le loro membra tenerelle, imparano giù prima d'esser fritte che vantaggio ci sia in questo mondo a farsi delle illusioni.

Quanto agli altri animali del rio Rosso – detto Rosso per le sue sabbie bionde, ma senza traccia d'oro – , si prendono trattenendo con una chiusa la corrente e con le pale gettando l'acqua fuori del borrone finchè questo rimanga asciutto. Che piacere allora! Gli uomini afferrano anguille che si appiattano nella melma e pesci che si raccomandano a bocca aperta e muta; e i ragazzi aggrappano i gamberi, e poi godono a vederli arrossare, retrocedendo su le bracie come eroi che tentino uno scampo senza voltarsi indietro.

Di pernici e starne, a dir vero, non abbondano oggigiorno neanche i boschi di Rioronco; tuttavia la cacciagione vi è meno scarsa che in pianura; e d'inverno i ragazzi dissimulano lacci e trappole e in primavera fan posta ai nidi con la poetica speranza d'allevarsi in gabbia o un cardellino, o un fringuello, o un merlo. Il quale di solito – ingozza che t'ingozzo – basisce per il troppo pane biascicato che gli s'impartisce con troppo buon cuore.

Tutti buoni, o quasi, lassù! Non si ricorda a Rioronco un solo omicidio: una baruffa vi è un avvenimento come un furto di pollaio; intorno al quale di casa in casa si discorre per un mese, e del quale non si fa denuncia poichè quasi sempre si sa da tutti in che pentole quelle due o tre galline andarono a finire. Nè i costumi vi sono corrotti come nei paesi dove le mamme fan la guardia alle figliole fidanzate. Notevole soltanto, a questo proposito, è l'innocente manìa per cui dopo sette, o otto, o talvolta nove mesi di matrimonio, i padri cercano nel lunario e propongono alla moglie puerpera i nomi più strambi e difficili, da storpiare barbaramente sul neonato o sulla neonata che vanno a battezzare.

I

Nella felice terra di Rioronco viveva ancora, pochi anni sono, un patriarca: un alto e forte vecchio dai capelli bianchi, dalla faccia tutta sbarbata, dall'occhio vivo, dal naso aguzzo. Senza far ridere alcuno portava le brache corte, con le calze al ginocchio d'estate e con le ghette d'inverno; e in famiglia poteva contare con la moglie, vecchia meno di lui ma già imbecillita, tre figli, tre nuore, un genero, una quindicina di nipoti, il più grande dei quali, per riparare in qualche modo all'assenza di due cugini soldati, aveva preso moglie anche lui, rendendo bisnonno il vecchio Carlone.

Carlon dei Carli alla Cà scura, la casa de' suoi avi, governava tranquillamente e assolutamente come quello nella cui volontà e nelle cui tasche trovavano regola ed equilibrio le spese della casa e le rendite della terra coltivata da tutta la famiglia. Egli vigilava ai lavori; parlava poco con i figlioli; era aspro con le donne, complimentoso col curato, loquace con gli amici, terribile con i ragazzi e buono con i bambini che, seduto nella panca sotto il moro, elevava qualche volta a cavallo d'un ginocchio per cantarellare trotta trotta, cavallon, e farli ridere.

Saldo nelle antiche costumanze, fra le altre usava sedere a capo di tavola con gli uomini attorno e in fondo i ragazzi già pervenuti alla prima comunione: i minori mangiavano dopo con le donne. E per la rigida osservanza al vivere antico, e per la sua religione e per l'esperienza dei consigli, il vecchio godeva nella parrocchia d'una supremazia che gli aveva meritata rinomanza pure nei dintorni.

Quand'egli si assentava – ma di rado e solo per la fiera al paese o per qualche grossa vendita in città – la Cà scura si commoveva in un avvenimento quasi di liberazione; e degli uomini, chi scappava all'osteria, chi dall'amorosa; mentre i ragazzi correvano a vuotar borri nel rio Rosso, liticavano e si picchiavano; e le nuore sfogavano le ire e le gelosie per lungo tempo contenute; sicchè il tiranno, che partendo era stato salutato da sospiri di sollievo, tornava non solo temuto come giudice, ma desiderato spesso come salvatore. All'annunzio: – c'è il nonno! c'è il nonno! – la Cà scura cadeva di subito in una quiete conventuale.

Tornava Carlone dalla città tutt'intronato, stanco, con l'oscura e quasi atterrita coscienza della sua prossima morte, perchè in quelle ore laggiù egli si era sentito fuori del suo tempo; e col pensiero avvinto alle cose vedute pativa un fastidio da cui stentava a liberarsi. Se gli affari gli erano andati a modo, si consolava alla vista dei nipotini e borbottava: «Loro, laggiù, hanno il vapore che ha avvelenata l'aria, ed hanno perduto il timor di Dio: dunque stiamo meglio noi altri!» Se poi gli affari gli erano andati male, allora lamentava: – Noi diciamo che si stava meglio una volta; e a Bologna dicono lo stesso: che si stava meglio una volta. Dunque la gente a questo mondo non la trovo mai piana, in nessun sito. – Ma egli era un povero ignorante; e per più giorni faceva il cattivo in casa, quasi temesse d'aver perduta o temesse di perdere l'autorità famigliare.

Ed ecco che a turbarlo in simile modo risparmiandogli la fatica di viaggi alla città, ecco che ad amareggiare gli ultimi giorni del patriarca venne lassù l'ingegner Stoia, erede d'un conte pontificio, ch'era morto a Roma e a Rioronco non si era visto quasi mai. La strada nuova divideva il possesso di Carlone dal possesso dell'erede: alla massiccia Cà scura s'opponeva, nell'estimazione pubblica, il nobile Palazzetto, di recente restaurato; alla supremazia del vecchione minacciava di succedere la supremazia di quel signore patito e guardingo, che i contadini dicevano cattivo come il loglio.

Invano il curato studiavasi a difendere l'intruso che gli si era dato a conoscere per uno dei capi clericali in Bologna; invano ne esagerava i meriti. Carlone protestava: – Oh che ha preso Rioronco per un covo di ladri?

Infatti aveva messo le stanghe all'entrata delle carraie; tese reti metalliche lungo la strada; piantati pali con su la scritta «bandita». E il curato: – La moglie del signor ingegnere veste cinque bambine per la cresima… Il signor ingegnere ha mandata la panca per la chiesa… Il signor ingegnere fa questo; la signora fa quest'altro. – Dopo il ristauro della villa, ristauravano anche il piccolo oratorio di Sant'Anna, di fronte alla villa… – Oh che bravo signore! che brava signora!..

Carlone scoteva la testa: – Chi mal pensa, mal fa; chi non guarda in faccia, non è sincero; non mi fido io di colui!

Nè tardò ad aver ragione. Al principio d'agosto, il cursore del Comune venne alla Cà scura con tanto di carta stampata e scritta, e firmata dal sindaco.

A norma della legge sui lavori pubblici e dell'articolo num. 12 del Regolamento… etc… s'intima al signor Carlo Carli il taglio, nel suo predio denominato la Zucca, di tutti i rami di quella quercia che impediscono la viabilità della strada comunale in Ronco…, con minaccia di dar corso immediato agli atti di contravvenzione… etc…

Parve a Carlone di ricevere un pugno su la testa. Rosso d'ira fe' portare da bere all'uomo; poi chiese:

– Oh perchè non han mai detto niente prima d'oggi?

– Cosa volete sappia io? – il cursore rispose.

E bevuto ch'ebbe ripetè la sentenza con cui, indifferentemente, si difendeva dalle lagnanze, dalle minacce e dalle proteste:

– Carta canta e villan dorme. Bisogna ubbidire!

Diceva Carlone: – Ma qui su dei carri non ne passano, e la quercia non arriva alle birocce.

– Cosa volete che vi dica io? La quercia farà ombra a qualcuno. – Poscia, con la stima d'ogni servo per chi lo paga, il cursore aggiunse: – Le leggi, caro voi, ci sono per tutti; ma in Comune non se ne ricorderebbero se un qualche furbo di tanto in tanto non ci avesse tornaconto a metterle in memoria al Sindaco e alla Giunta.

– È così! Ho capito… Vedremo!.. – brontolava il vecchio.

Il quale, appena se ne fu andato il messo, chiamò i figlioli e il cane, li mandò a provvedere in fretta un «arrostino», quantunque fosse ancora tempo di caccia vietata, ed egli recò la biada alla sua mula.

A cavallo, discendendo poco dopo, preparava il discorso per convincere che la quercia non faceva danno a nessuno; e sperava evitarsi una prepotenza e un'ingiustizia. Così sospirando brontolando e rammentando che al tempo del Papa le strade passavano tutte in mezzo a quercie folte, che era una delizia, giunse la sera al paese. Naturalmente, in vista dell'arrosto, il segretario promise di interporre la sua autorità perchè l'ordine fosse sospeso; tornasse fiducioso due o tre giorni dopo.

E naturalmente quando Carlone de' Carli venne per la risposta, apprese che l'arrosto era stato squisito e il sindaco irremovibile.

II

Dunque il vecchio doveva sfrondare e diramare la bella quercia, che rivedeva uguale nei ricordi della sua puerizia; la maestosa quercia, alla cui ombra ristava il mendicante a mangiare il frusto di pane, riposavano nei caldi meriggi il cacciatore e il viandante, giocavano i ragazzi a guardia delle pecore. Per un pretesto, perchè un intruso lassù non ne aveva una simile, bisognava lacerarla, squarciarla, mutilarla nelle braccia la feconda, la buona quercia che dava tante staia di ghiande ogni anno!

Col dispiacere d'imaginare le membra recise, Carlone pensava le parole di coloro che nel transitare per la strada osserverebbero quello strazio. Direbbero i buoni: – Che peccato! Così bella quercia! – ; e i cattivi: – Ah, ah! gliel'han fatta a Carlone della Ca' scura! – E in lui era il rancore d'un sopruso patito; il cordoglio come d'un'offesa atroce, d'uno sfregio ignominioso contro non solo a lui ma a tutta la sua famiglia, ai suoi figlioli, ai suoi nipoti, ai suoi pronipoti.

L'albero resistente e poderoso, per cento e cento anni ancora dopo la sua morte attesterebbe, così deturpato ad ogni primavera, l'antica sconfitta del nonno; significherebbe la rassegnazione, di tanto in tanto rinnovata, a una lontana ingiustizia e a una remota provocazione dell'invidia e dell'orgoglio.

Ah come sarebbe stato meglio che l'avesse buttata giù, troncata di colpo, il fulmine!

Sempre in quei tristi giorni che, solo, scampando allo sguardo altrui, andava alla quercia a contemplarla, Carlone si ripeteva: – Meglio il fulmine! meglio una saetta!

E se l'uno o l'altro dei figlioli gli ricordava l'intimazione del sindaco e diceva: – Bisogna rassegnarsi e potarla – il vecchio ergeva il capo quasi minaccioso rispondendo:

– No!

– Andremo incontro a dei guai…

– No!

Ma alla mattina dell'ottavo giorno Carlone disse ai tre figli e al nipote maggiore:

– Prendete le zappe, il piccone e la mannaia. – E quelli compresero che a tagliarla preferiva abbatterla, e tacquero.

Come i ragazzi volevano seguirli, il nonno, che precedeva per il sentiero, si rivolse:

– Via! voi altri!.. Non voglio nessuno!

Soli loro cinque andarono. Cominciarono ad aprire la buca, ampia, intorno al pedale che tre uomini non abbracciavano; mentre il vecchio assisteva immobile con le mani in tasca. Apparvero lombrichi; apparvero fra la terra gialliccia le prime barbe, molli e scure, che allo scavar delle vanghe restavano recise con netto taglio, o, tócche, si spelavano bianche come serpi. Finchè serpeggiando si delineò la prima radice di un rosso terrigno, grossa quanto un braccio. Scalzata che fu con i picconi, Carlone recise lui la prima radice in due colpi. E alcuni passeri che s'inseguivano dalla siepe, non impauriti da quel battere della scure, volarono su la cima e garrirono tra le frondi più alte e lontane.

Taciti i figli ripresero ad approfondire la buca: scoprirono a destra, più giù, un'altra radice più grossa, che il primogenito tagliò. E poi un'altra. E poi un'altra; e sempre intorno al pedale restavano di quelle radichette bianche, lisce, umide come serpi, con qualcuna delle vecchie nera e marcita… E poi un'altra, rubesta.

Quindi il vecchio, che assisteva tuttavia in piedi, immobile, all'apparenza impassibile, ordinò al nipote di poggiare la scala e di salire a legar la corda da ramo a ramo, in giro, nell'alto. La faccenda fu lunga. Dopo di che, tornarono all'opera.

Uno chiese se venderebbero anche il ceppo; ma il padre non rispose. E di quelli che frattanto passarono per la strada, fu uno che attese e, ricambiato un saluto, disse:

– Farete di bei quattrini! Chi ne avesse un bosco!

Esclamò un altro:

– È campata abbastanza, eh, Carlone?

– Abbastanza! – rispose.

Ma a un terzo, ch'era un contadino dell'ingegnere, il vecchio disse:

– Potete andar di lungo, voi. Io non vengo a disturbarvi nei vostri interessi!

Quegli rispose:

– Avete ragione, avete; – e proseguì.

Dopo un'altra ora la buca era già così profonda che a ogni nuova radice recisa, tre degli uomini s'attaccavano alla corda e il quarto faceva forza contro il fusto per tentare se non rimaneva che il fittone. Indarno: non ancora il fusto sentiva la scossa. Finchè – e fu verso mezzodì – ebbero certezza che sola la radice maestra rimaneva.

E il vecchio disse:

– La mannaia a me!

Discese lui nella fossa: cominciò a colpire; mentre i figli ai capi della corda, lontano, tiravano, squassavano.

Cupi, ritmici, precisi e fondi su l'estrema radice di quella vita gigantesca cadevano i colpi del fiero vecchio. Quando il taglio fu innanzi, Carlone risalì, venne lui pure alla corda. Ma l'albero non voleva cedere; invano s'incitavano l'un l'altro.

– D'un colpo! – comandò il vecchio, dando un grido per avviso allo sforzo concorde…

Cedeva… S'udì uno schianto di legno che sia troncato: poi, subito dopo, uno schianto molteplice, diverso, confuso e pieno di tutte le vette, di tutti i rami, di tutte le fronde che toccarono la terra madre; e parve che l'immensa pianta si sfasciasse tutta quanta, cadendo.

Allora Carlone senza dir nulla, col grande fazzoletto rosso s'asciugò, tra il sudore, due lagrime.

III

Il dispiacere di Carlone amareggiò anche il curato. Era questi un buon prete, superstizioso e religioso a un tempo; un po' asprigno e cocciuto anche lui, un po' interessato, un po' gobbo, un po' sporco, perchè tabaccando non spazzava il tabacco rimasto dalla presa sul panciotto più rosso che nero; ma abbastanza affezionato al suo gregge e al suo ovile e amico a Carlone de' Carli, col quale da anni e in ogni stagione faceva la partita quotidiana a casa di lui, all'ombra del moro o sotto il portico del forno o nella stalla. Veramente nei primi anni di cura la prevalenza del vecchio aveva urtato il parroco e quasi inanimito a un conflitto di poteri; presto però egli si era convinto che disgustarsi Carlone sarebbe stato come disgustarsi tutta la parrocchia e che non potendo contrastare a un avversario, conveniva preferirne l'amicizia. Carlone inoltre era liberale verso la chiesa; e il figlio maggiore di lui serviva da collettore nella «compagnia di San Vincenzo», che s'era estesa per le parrocchie vicine; e tra le donne della Ca' scura si sceglievano quasi sempre o la «priora» o la «rettora».

Ma venuto che fu al Palazzetto il nuovo proprietario, súbito il curato dubitò d'una rivalità fra il vecchio capoccia e l'ingegner Stoia, che da paladino clericale s'intrometteva nelle faccende ecclesiastiche pur in campagna, nè dubitò che tra i due litiganti resterebbe lui con la testa rotta quando non riuscisse a barcamenare. A ciò non era molto abile, e piuttosto che giovare, nuoceva alla sua intenzione onesta con far a Carlone troppi elogi del forestiero e a questo troppi elogi di Carlone: nondimeno volse il mese da che le radici della quercia eran state messe al sole senza che il conflitto avvenisse. Per poco il curato non imbaldanziva; non gli pareva più tanto difficile navigare in buone acque fino ai Santi, il tempo in cui il bravo ingegnere e la sua ottima signora se n'andrebbero, grazie a Dio, di villa in città.

Ma egli non pensava a San Michele, che viene ai 29 di settembre; o meglio, non prevedeva che dovesse recargli noie proprio la maggior festa della parrocchia. Quell'anno non era stata scelta alla Ca' scura che la priora; e rettora sarebbe la moglie d'un fittavolo. La signora Stoia non avrebbe perciò ragione di gelosia.

Quando, una mattina, l'ingegnere così bravo ma così petulante, venne in canonica, ed entrato nel discorso della prossima festa, espose chiaro e tondo il desiderio che la processione si recasse all'oratorio da lui fatto restaurare; come a dire che San Michele facesse una visita a Sant'Anna.

A che il parroco, tendendo la testa e gli occhi quale un cavallo che adombri, esclamò in quella sua maniera un po' rude:

– Impossibile! Questo, signore, è impossibile!

Di consuetudine, la processione calando dalla chiesa prendeva una viottola a bivio con la strada comunale (con la strada appunto che conduceva al Palazzetto) e saliva fino a un olmo, le cui fronde composte in cupola facevan da tempio a una Madonnina in voce di miracolosa. E l'olmo apparteneva al figlioccio di Carlone. Imaginarsi dunque se si poteva mutare itinerario!

Ma l'ingegnere a scorgere la bocca storta del curato, invece di arrendersi, insistette. Il desiderio pietoso era della sua signora: a lui pareva che l'Oratorio valesse più d'un olmo. Lasciò comprendere quanto gli dispiacerebbe dover abbandonare con malanimo quei luoghi dove si era proposto far del bene; e alle giuste osservazioni che la gente di lassù era ostinata; che la novità troverebbe oppositori; che la Madonnina dell'olmo si credeva miracolosa, disse:

– Le imagini davvero miracolose non si tengono sotto un albero! Io sarei ben lieto, ben fortunato, di sottoscrivere la prima offerta per una nuova cappella, se lei mi accertasse che questi miracoli sono di grande importanza… Quanto agli ostinati, lei li avverta. In caso, se non basterà, m'incarico io di ricorrere a Sua Eminenza o, magari, alle autorità civili.

«Misericordia!» pensò atterrito il parroco. «Piuttosto tentare…» Forse Carlone si persuaderebbe…

Insomma, il curato finì con ritenere e dire possibile quello che prima gli era parso e aveva detto impossibile.

Per una settimana il poveromo anticipò la visita al vecchio; lo prevenne più volte nell'offrirgli il tabacco; perdè più d'una partita senza prendersela con le carte; ma quelle benedette parole: – Dite su, Carlone: vi dispiacerebbe a voi se invece d'andare alla Madonnina…; – quelle parole non riusciva a pronunciarle: gli si annodavano in gola per la certezza di non riuscire a bene; per il timore di far peggio, e per il dispetto di dover pregare invano quell'ostinato vecchio e riconoscerne senza profitto l'autorità.

Finalmente il lunedì precedente alla festa il prete andò alla Ca' scura zoppicando; disse per un gran male ai piedi. Scherzò anche, sebbene addolorato ai piedi: lui già vecchio e Carlone un giovinotto!

– Basta – concluse con un sospiro mentre raccoglieva le carte dal desco – ; domenica, se Dio vuole, non avremo da passare su tutti quei sassi come gli altri anni…

Carlone levò gli occhi dalle carte e glieli piantò in faccia a mo' di chi stando su l'avvertita discopra il tiro.

Pallido, il curato seguitò senza guardarlo:

– Andremo all'oratorio…

Ma aveva appena compiuta la parola che Carlone lasciò cader forte il pugno sul deschetto, gridando:

– Ah questa volta il suo ingegnere non se la cava! Finchè campo io, glielo dica a mio nome, non se la cava!

– E c'è da stizzirsi? – ribattè dolcemente il curato, rosso d'ira.

Tacquero. Poi zitti e cheti ripresero le carte e giocarono.

… Ogni giorno, dopo la partita, Carlone accompagnava il prete fino alla siepe; quel dì l'accompagnò oltre la siepe, per il sentiero. Intanto che andavano, l'uno aspettava che l'altro parlasse; e pensavano entrambi: «Tocca a lui a tornare nel discorso.» E finalmente Carlone si fermò.

– Ci rivedremo, signor curato. – La sua voce pareva di pentimento.

– Addio – rispose duro il prete.

– E si ricordi – il vecchio aggiunse più forte: – si ricordi di quel che ho detto.

Ma il prete si rivolse:

– Oh quanto a quello, voi ubbidirete al vostro curato; si sa…

Allora il vecchio venendo a lui e tenendolo per un braccio, eppoi ponendosi la mano al petto:

– Il mio dovere, sissignore, son qui a riconoscerlo! Nelle cose giuste io a lei mi caverò sempre il cappello! – e se lo levava. – Ma se lei si mette a gloriare i birboni, signor curato, mi creda, non c'intenderemo più!

– I birboni? – il curato esclamò. – Già: chi non fa a vostro modo è un birbone! Ma, in fin dei conti, chi siete voi che vorreste stare di sopra alle leggi? di sopra ai superiori? di sopra a tutti? fare sempre a vostro modo? e chi non fa a vostro modo è un birbone? Chi siete, voi?

Ribattè, umile, il vecchio:

– Io? niente! Sissignore, io non sono niente! Ma la processione non è solo lei che la fa! e la processione andrà dov'è sempre andata; glielo garantisce a lei e a tutti gli ingegneri della madre terra, Carlone della Ca' scura!

Fu in queste parole una semplicità così dignitosa, una tal fermezza quasi solenne, che il curato ebbe nell'animo un consiglio di prudenza; e si sarebbe contenuto in modi remissivi, se già prima non avesse meditate e predisposte le minacce che dovevan servirgli a mezzo estremo. Come contro sua voglia, queste gli scapparon fuori in fretta.

– Ah sì? Bene, bene! Tutti abbiamo da morire…; voi non siete più un ragazzo. La morte non guarda in faccia neanche ai giovani; da un momento all'altro… Ricordatevi che mettere la disunione in una parrocchia è come metterla in una famiglia; ricordatevi che al curato si deve ubbidire come a un padre di famiglia; ricordatevi che le prepotenze si scontano, presto o tardi, e che un'offesa fatta alla madre della Santissima Vergine, a Sant'Anna…

– Io non so neanche chi sia Sant'Anna! – proruppe Carlone, di subito arrossato in volto, preso da un oscuro timore che quei ricordatevi gl'incutevano; e tratto anche lui, contro sua voglia, dai gangheri.

Il prete per contro, a coglierlo in fallo, prese coraggio.

– Bestemmiate! bestemmiate pure, per giunta! All'anima vostra ci penserete voi…

– Io penso che ho la Madonna per me! che è lei che offende la Madonna! che nostro Signore castigherà lei, perchè è lei che porta le novità e la disunione in parrocchia! Ci fu mai niente da dire, tra noi due, prima d'ora? Prima che lei, per il suo interesse…

– Interesse, voi dite? – interruppe il prete in cui l'altro aveva toccato il tasto debole e la cui coscienza non era abbastanza tranquilla. – Vi sbagliate di molto, credetemi! È l'amore dei parrocchiani; è il timore di far nascere una guerra; è la voglia che ho di sopire un odio nato da una sciocchezza…: per una quercia!.. Negate che la questione è tutta qui? Negate che se non ci fosse la quercia di mezzo, non vi parrebbe vero anche a voi di andare all'oratorio e di fare onore alla vostra famiglia?.. Ah, ah, Carlone! Ci conosciamo da un pezzo noi due!

Carlone fece, incrollabile: – Son sincero. Non la nego io la verità! Ma torno a dirle che se il signor ingegnere ha avuta vinta la prima, non vincerà la seconda… E schiavo suo!

Ora il curato andò lui verso il vecchio; lo trattenne senza sforzo, per un braccio; gli disse umilmente in tono di preghiera:

– Sentite… – E mentre l'altro lo guardava con l'occhio di un cagnotto che non si fidi a chi gli mostra il pane dopo avergli mostrato il bastone, proseguì: – Vogliamo aggiustarci? A voi! Io vi prometto che otterrò dal signor ingegnere che si vada prima alla Madonnina e dopo all'oratorio… Siete contento?

Il vecchio scosse il capo ripetendo: – Nessuna novità! nessuna novità!

– Bene! – allora il curato gli gridò dietro. – La vedremo, signor prepotente! oh, se la vedremo!

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
28 mayıs 2017
Hacim:
230 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain

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