Sadece LitRes`te okuyun

Kitap dosya olarak indirilemez ancak uygulamamız üzerinden veya online olarak web sitemizden okunabilir.

Kitabı oku: «Top», sayfa 2

Yazı tipi:

VII

E rimise il collare a Top. Ma chiuse per sempre il camerone delle memorie e delle glorie sue e familiari.

Alla Valletta – ove dimorava in una piccola stanza simile a una cella – consumava molta parte del giorno leggendo o tentando di leggere. Aveva dato la libertà ai richiami e alla civetta; e a caccia non andava più che con Top, senza sparare un colpo. Nel dissidio che era in lui fra l'energia della razza e l'affievolimento dell'amore – l'amore per tanti anni respinto – l'amore troppo tardi conosciuto – ora si meraviglierà di aver potuto incrudelir con le creature innocenti e liete eppur godere, nel tempo stesso, della comunione di sè con la vita naturale; ed ora si rammaricava d'esser così mutato, d'esser così fiaccato nel suo soffrire.

Elena! Avrebbe voluto udir parlare sempre di lei, solo di lei.

Spesso gliene discorreva il vecchio; ogni volta che tornava dal paese. Quante chiacchiere intorno al matrimonio Marzioli Tarelli! Che cotta s'era buscata quel giovine! Che fortuna, quella ragazza! Ma la meritava. La più bella ragazza del paese! Una bella romagnola!

Già si sapeva che, il dì di San Martino, le nozze sarebbero celebrate con gran pompa; e dopo, gli sposi partirebbero per Roma.

– Col diretto delle undici – notò, per dire qualche cosa, per nascondere sè a sè stesso quasi con una prova d'indifferenza, il signor Prospero. Poi dimandò aggrottando le ciglia:

– E di me cosa si pensa?

– Qualcuno pensa che lei ha giudizio.

– Perchè?

– Perchè lei non approva questo matrimonio. I Tarelli han troppi soldi, e i troppi soldi non han mai fatto contento nessuno.

VIII

Alla proda del fosso, davanti all'acaciaia, Prospero Marzioli sedeva tenendo lo schioppo appoggiato al ginocchio sinistro e poggiando sul destro il gomito si reggeva col braccio e con la mano il capo. Aspettava passasse il treno che portava gli sposi al viaggio di nozze. Finalmente – ecco – sobbalzò. Laggiù tra gli alberi, sotto il fumo che livido stentava a sollevarsi e a diffondersi nell'aria umida, egli osservava scorrere il convoglio, rotear via rombando.

Elena! Elena! Senza voce la chiamò con tutta l'anima; invisibile agli occhi, la vide; la perdè: con tale angoscia che non si morse più le labbra per trattenere i singhiozzi. Nè allora ebbe vergogna di sè stesso. Gli parve allora che la derisione, lo scherno di tutti gli uomini non l'avrebbe offeso. E mentre le lagrime gli colavano per le guance e volgeva lo sguardo, a scorgersi, a sentirsi solo in quella campagna deserta e squallida capì che di contro il dolore umano c'è qualche cosa di peggio che l'umana cattiveria, l'irrisione, lo scherno: c'è l'indifferenza di tutta la vita estranea alla nostra vita, c'è la separazione da noi delle infinite esistenze inconsapevoli di noi.

A lui che cosa restava? chi gli restava? Un cane! L'ira lo scosse; gli diè l'impeto di chi cerca divincolarsi. E gridò, fremente:

– Top!

Top impazzava a levar passeri dal seminato, a inseguirli abbaiando; e non attese alla voce del padrone.

Ma questa volta il padrone non ripetè l'ordine prima di punir la disubbidienza.

Sparò.

Un guaito; e il bracco cadde.

Prospero Marzioli corse a lui; e vide gli occhi spaventosamente affettuosi, ebbe da quegli occhi che si spegnevano una tremenda invocazione di pietà. E quasi per trovar ristoro al male atroce o fine all'agonia, la povera bestia piegò il collo.

Dal collare usciva, arrotolato e tenuto da un filo, un bigliettino.

E lo zio, premendosi con la sinistra il cuore, lo prese. Lesse:

Diglielo tu, Top, allo zio che gli vorrò sempre bene; tanto, tanto bene!

Ma Top era morto.

LE PENNE DEL PAVONE

Andar a bruscolare anche allora significava in pratica, più che la parola non dica, raccogliere, per bruciaglia, stipa grossa e bacchetti lunghi, e se nel luogo della ricerca si trovavan begli alberi frondosi la coscienza non escludeva qualche strappo o taglio di materia non secca. La massima antica che «la roba dei campi è di Dio e dei Santi» pareva dar diritto, allora, a portar via qualche cosa appartenente ad altri; e poichè oggi il diritto nuovo pare conceda di portarla via tutta, o quasi tutta, evidentemente la roba dei campi sarà oggi passata in padronanza superiore a quella dei Santi e di Domineddio: il mondo non cammina per nulla.

– Non date danno – raccomandava la donna del casellante ferroviario ai suoi ragazzi; e aggiungeva come argomento positivo alla moralità ideale: – Potreste buscarvi delle bòtte – . Quando però i figliuoli rincasavano carichi di legna o, magari, stringendo al seno un mellone o un cocomero, e dicevano: – Ce l'han donato – , lei fingeva di crederlo: li vedeva incolumi, e «la roba dei campi…».

Ma la buona donna raccomandava con maggior premura: – State lontani dai borroni!

Perchè a bruscolare andavan di solito lungo il Rio Rosso dove scorre più fondo tra più folto e più pioppi, verso monte; e non vi mancavano le tentazioni e i pericoli.

Il divertimento alla chiusa!: togliere i travi che servivan da paratoia per veder la piena precipitare riscintillante, e mandar con essa – a rischio di tenergli dietro – il primo trave per sollevare dal baratro una fragorosa colonna di spume e di faville! E i pesci? Non si godeva a sorprenderli e quasi afferrarli mentre galleggiavano nell'acqua limpida e tremula?

***

Quel giorno, dunque, i figliuoli del casellante, Mario e Aldo Sartori… Bei ragazzi tutt'e due, ma più il piccolo – Aldo – , che esprimeva dagli occhi la letizia del sangue sano e la bontà dell'indole… Quel giorno, a fin di luglio, appena furono discesi dal ponte s'avviarono di corsa alla chiusa. Ahimè, non aveva raccolta. E il caldo era così grande che i pesci non comparivano, e fin i ranocchi, all'approssimar dei passi, tardavano a balzar giù con un tonfo e a penetrar nella melma dimenando le gambe e intorbidando, come d'un fumo, il breve specchio. Soltanto le idrometre mostravano d'esser contente a sfiorar l'acqua coi fili delle loro zampine, insensibili a tutto fuorchè al correre miracolosamente così su l'acqua, nel sole; emanazione di vita indifferente a tutto fuorchè al molle contatto e al moto alacre e incessante.

– Raduna tu i bacchetti – comandò Mario al fratello, e si adagiò a un'ombra. – Io farò il fascio.

Sapeva già compor le fascine a modo degli uomini. Con un vinco. Ne attorcigliava la vetta a cappio, sottoponeva il legame alla stipa, la calcava col piede, e introducendo nel cappio l'altra estremità del vinco la tirava e torceva in groppo sì che tenesse la presa. Poi si addossava il fastelletto e portandolo a dorso curvato si credeva che chi lo guardava lo stimasse un uomo. Perciò comandava al fratello e gli lasciava il vanto della fatica più umile.

– Cogli tu! Presto!

No e no. Aldo ne aveva meno voglia di lui. E liticarono. E si acciuffarono. Dei due, Mario, che percuoteva più sodo, era più facile a lamentarsi. Aldo resisteva finchè poteva, indi scappava con rivincita di boccacce e sberleffi che ne rideva lui stesso. E ridendo tornavano in pace.

***

Da quanti secoli si ripete nei fanciulli la smaniosa gioia che dovevan provare gli uomini primitivi allorchè riuscivano a impossessarsi di qualcuna delle più liete creature del mondo? Era una vittoria su la natura, la quale ai volatili volle dar mezzo di sfuggire alla cupidigia umana, ed è tuttavia la soddisfazione di un'istintiva, atavica invidia per quelle creature così liete a credersi inafferrabili: tanta soddisfazione, tal gioia da rendere ingenua e inconsapevole la crudeltà.

– Con un archetto – diceva Mario – si prendon le buferle.

Ora i fratelli sedevano all'ombra insieme, pacificati e invogliati di caccia da un branco di cardellini che calando dalle fronde di sopra a loro eran venuti a bere e a bagnarsi.

– Sono men furbe dei cardellini le buferle – diceva Aldo.

– E se ci restan, nella corda, non scappan più. Vedrai!

Ma costruire un archetto non era agevole come legare un fascio di stipa.

Mario piegò ad arco un ramoscello e lo tese per bene con uno spago doppio a scorsoio. Se non che non sapeva ancora la giusta distanza dei nodi, nè trattener l'uno col piòlo, che, quando la vittima capiterebbe su la corda, cadrebbe, e l'arco scatterebbe serrando e stringendo le povere gambe fra l'altro nodo e la cocca. Uno spasimo atroce.

– Fa presto! – Aldo sollecitava, ansioso del giuoco. – Dove ce n'è, delle buferle, adesso?

– Nell'acaciaia del Palazzaccio.

E prova e riprova, finalmente la macchina sembrò in ordine.

Mentre avanzavano per il sentiero tra le macchie il piccolo si accorse che il giorno mutava luce.

– Vien tempo da piovere.

– Lascia! In caso che piova andiamo a ricovero nella capanna del vignarolo, lassù. Io non ho paura di niente.

***

Ecco. Sfogliata la cima a un'acacia, posato l'archetto fra una rama e l'altra, non c'era più che da attendere con pazienza, zitti e queti. Passeri ne giungevano, d'intorno, ma parevano avvisarsi a vicenda dell'insidia: buferle, nessuna. E Aldo non poteva star fermo e tacere. Deluso, cominciò a insistere per tornar a casa.

– Non senti che tuona?

Il temporale rombava da lungi e già ne pesava, nell'afa bassa, la minaccia. Quando uno strano grido, come d'una voce troppo alta emessa da una gola troppo stretta, come d'un richiamo doloroso e selvaggio, sorse lì, da loro.

– Un pavone!

– Un pavone di quelli del Palazzaccio. Cercherà la pavona e i pavoncini, per ammazzarli – disse Mario.

E lo videro. Nonostante l'impedimento della coda oltrepassava svelto fra tronchi e sterpi. Addosso! Forandosi le mani e le guance nell'inseguirlo, lo spinsero contro un cespuglio.

– Càvagli le penne! – incitava il piccolo. – Ne voglio una!

Infatti come la bestia ebbe nascosto il capo nel cespuglio e pensandosi non più vista non si mosse più, Mario potè strapparle una, due, tre penne delle più belle.

E nel cielo ottenebrato proruppero i lampi.

Allora i ragazzi fuggirono a ricoverarsi nella capanna.

***

Il capannotto del vignarolo era a sommo della riva, appoggiato a una quercia e contesto di frasche.

Vi entrarono felici. Essere al coperto, al sicuro, là sotto, come fossero sol lor due al mondo, mentre la bufera si scatenava! Il tuono ora scuoteva cielo e terra.

– È il diavolo che va in carrozza con sua moglie. – Mario rideva; non aveva paura.

Ma Aldo non rideva più. In fondo, dove il riparo era più saldo, sedè accosto al pedale della quercia e si coperse il viso con le braccia. E a un tratto, dal cielo squarciato piombò la grandine col fracasso della ghiaia scaricata dalle birocce; con un guizzo di luce abbacinante una folgore cadde da presso. I chicchi grossi quanto le nocciole fendevano il fogliame e il frascame dell'albero; alcuni penetravano di colpo nel rifugio.

– Mamma! – invocò il piccolo.

– Non aver paura! – ammonì il fratello. – Ci son io; e ti copro con la paglia. Tieni tu le penne.

Gli porse, gli mise nella mano le penne del pavone, e tornò verso l'entrata dov'era un po' di paglia, in mucchio. E si chinava per raccoglierla, per difendere con essa, dalla tempesta, il fratellino che chiamava la madre e piangeva; e in quell'istante si sentì investir tutto, rapire da una fiammata. E non capì più nulla.

***

Quando rinvenne, Mario vide che il sole splendeva. Ma aveva l'impressione di non poter più muoversi. Con un terrore folle si sforzò ad alzarsi in piedi, e alzatosi gli parve di sentir il sangue rifluire per ogni vena e d'essere leggero leggero.

– Andiamo via! corriamo a casa! – gridò volto ad Aldo.

Aldo non si mosse. Teneva il capo a terra, contro il braccio sinistro; tendeva l'altro braccio stringendo in mano le penne del pavone.

E Mario gli si avvicinò, lo chiamò più forte.

Non rispose.

Tendeva il braccio destro, irrigidito, quasi volesse rendere al fratello le penne del pavone che il fulmine gli aveva lasciate intatte nella mano.

LA FIUMANA

Che gli asini camminando più o meno piano per la strada maestra si provino a prendere ogni viottola che scorgono di qua e di là, si capisce. La strada larga e bianca, precorrente senza limite visibile, suscita in loro l'idea e il panico dell'infinito; e poichè sanno per esperienza come da colui che trasportano e che li guida e bastona ci sia da aspettarsele tutte – e non sarebbe da meravigliare neppur il proposito, in lui, d'andare all'infinito – essi dalle viottole laterali han l'illusione o la conoscenza o la speranza di un termine prossimo, e tentano rivolgersi a quello.

Più difficile è spiegare perchè anche l'asino bennato oppugni a voltar indietro pur nella più larga e più piana strada. Ecco. Il prudente auriga tira dalla parte destra fin quasi al limite del fosso, indi tira a sinistra con tanta energia che la bestia è costretta a piegar contro la stanga il collo, la testa, la bocca aperta dallo spostamento del morso, e, per esprimer meglio il suo volere, il padrone rialza e riabbassa in fretta il randello, sì che la battuta groppa si addossa, rintronando e dolorando all'altra stanga – e, nossignori, non cede; piuttosto che cedere l'asino va inesorabilmente nel fosso di sinistra col biroccino e chi c'è sopra. Perchè? Forse per amor proprio? punto di onore? dignità personale? In tal caso bisognerebbe supporre a questa ostinazione, a cocciutaggine così pericolosa, un ragionamento degno d'un uomo di carattere quale ce n'è pochi, specie al giorno d'oggi. – Ah tu che mi sfrutti mi hai dunque attaccato al biroccino non per bisogno, ma – poichè vuoi tornar indietro – solo con l'intenzione di farmi faticare e di bussarmi? Ebbene, no! neanche se io debba tornare alla dolce stalla, io non volto! Preferisco pungermi alla siepe, rompermi una gamba, fiaccarmi l'osso del collo nel baratro. Non volto: no, no e no!

E che tale o simile ragionamento non fosse da escludere lo dimostrerebbe un fatto: che laggiù, quando sia rimasto in piedi o risorga, l'asino si mette subito a brucar l'erba della sponda. L'ostinazione cieca non gli permetterebbe di vederla, l'erba: la stizza invece, che nelle persone intelligenti non toglie il lume degli occhi e passa presto – appena hanno avuto sodisfazione – , gli lascia dire tra sè: – Adesso che l'ho vinta io, sono contento. Mangiamo!

Ma quand'anche questa presunzione intellettiva nei ciuchi fosse esagerata, l'ostinazione loro sarebbe sempre più agevole da intendere, psicologicamente, che l'ostinazione dei cavalli.

***

Qualche anno fa venne di moda il negar l'intelligenza al cavallo, o – nella reazione ad ogni ammirazione del passato – per contrasto al Buffon e all'Alfieri, o per consenso al grande – allora – e nuovo Mirbeau, o per incredulità delle esperienze di Elberfeld, ove dicevano che un certo cavallino eseguiva esercizi d'aritmetica coi piedi, i quali oggi nemmeno usan più i poeti agli esercizi della prosodia. E si chiamava stupido il «più nobile compagno dell'uomo» perchè è ombroso e perchè ha lo sguardo velato: come se l'adombrare non potesse indicar il prevalere della facoltà fantastica su la fredda ragione, che è indizio di genialità, e come se non ci fossero stati grandi uomini, scienziati o poeti, non solo con velato sguardo, ma con occhi morti del tutto.

Un fenomeno però della razza equina varrebbe meglio a giustificarne i detrattori: il restio. Quale maggiore stolidezza, se volontaria? Fermarsi a un tratto senza perchè manifesto; resistere a ogni stimolo, a ogni esortazione più carezzevole, a ogni più duro castigo: lì, immoto con la testa china, proprio a mo' degli asini malnati, e talvolta con il di dietro alzato a springar calci in ricambio delle frustate, dei pugni su la testa e dei calci nella pancia che l'uomo, per diritto di ragione e di padronanza, elargisce all'animale, indarno.

Tale pervicacia, a udir il contadino o il birocciaio alle prese con essa, a udirne, tra le bestemmie e gli oh! e gli uh! e i va là! gli epiteti che tempestando e infuriando rivolge all'animale suo (carogna! – vigliacco! o vigliacca! – ignorante! etc), non sarebbe da giudicare appunto che uno stolido capriccio. Ma la scienza, dopo parecchi secoli da che si han cavalli restii, scoperse che il fenomeno non andava e non va chiarito moralmente, e ne accertò la causa fisiologica e patologica.

Si tratta di un disturbo funzionale, nervoso, psicopatico; di un morboso potere inibitorio che improvvisamente impedisce l'atto volitivo del correre. E se è così, nè vi ha dubbio che non sia così, quale passione, mio Dio!, quale martirio! Altro che pungersi alla siepe per l'ostinazione d'andar nel fosso! Pensateci. Pur ammettendo che gli manchi affatto l'intelligenza, non negherete che il cavallo ebbe dalla natura l'esser generoso. Quanto può, dà. Ora, l'accesso del male a che drammatico doloroso intimo conflitto lo condanna! Pensate! pensate!.. L'istinto lo porterebbe alla corsa senza freno, al galoppo fin che gli basti il respiro, e il misero non può più muoversi!; la natura l'ha creato sensibile ai richiami della voce, al tocco delle redini, al dolore delle frustate, e deve star lì immoto, inchiodato, a udir il padrone gridar come una bestia terribile, a ricever le percosse, a tremar a nervo a nervo, a bagnarsi di sudor freddo, senza voce, senza maniera di svelar il suo martirio, di chiedere pietà – non posso più correre! non posso più andare! – ; veder davanti a sè aperta, libera, la strada in cui gli è pur così grato superar i fratelli o seguirli, e aver addosso, intanto, l'apprensione orrenda di non poter più dar un balzo e avviarsi: mai più! Un cavallo! Non sarebbe – dite – una pena atroce quand'anche gli mancasse affatto l'intelligenza? E gli mancasse davvero! Soffrirebbe meno.

Invece…

***

Cenzo Dimondi è ancor vivo e sano, e narra volentieri la storia del suo Baio.

Se capitate alla bottega – tre chilometri oltre Pedriolo, su la destra del Sillaro – ove con Sali tabacchi maiale e altri generi egli vende, fra gli altri generi, vin buono, bevete un bicchiere con lui e fatevi ripetere il racconto: non mi accuserete dopo d'averci introdotto aggiunte sentimentali per renderlo più vero.

– Un cavallo, che i miei ragazzi chiamavan Baio, era la mia delizia – narra Cenzo Dimondi. – Sano, fido e di tanto sentimento che non sopportava nemmeno lo schiocco della frusta. In due mesi da che l'avevo comprato, non mi aveva recato un torto, mai. Quando, un giorno di settembre, venivo da Bologna. Vicino a casa vidi che doveva esser piovuto da poco e che in montagna il cielo s'abbuiava. Tornare indietro, al ponte, e allungare il viaggio per non attraversare il fiume a guado, al solito? No: il fiume non dava segno di cresciuta, nè io potevo immaginarmi che in montagna alta ci fosse stata intemperie. Senza sospetto di quel che stava per succedere calai dunque dalla riva, per la carraia che lei vede là dirimpetto. E il cavallo, tranquillissimo, taglia il primo raggio d'acqua; passa la secca; rimette le gambe nella corrente più larga; tranquillo tranquillo avanza fino a metà e… si ferma.

Lei dice: – un capogiro. Ma col capogiro i cavalli, nel fiume, mi si eran sempre mostrati diversi. Dubitano un poco e basta eccitarli un poco. E lui. Baio, eccitato con la voce, non si mosse.

Non giovando nè le parole nè lo scuotergli addosso le redini, lo tentai con la frusta. Niente. Nessun dubbio più: era restio! Io sapevo anche allora che il restio è quasi una paralisi che dura dieci minuti, un quarto, fin mezzora. Bisognava pazientare, attendere. Ma la mia donna di qui, dalla bottega, mi vide col biroccino fermo in mezzo all'acqua e cominciò a gridare: – Presto, Cenzo, che non arrivi la fiumana! – E i ragazzi: – La fiumana, babbo! – Mi diedi a frustare, prima senz'ira, poi senza misericordia: sopra, sotto, nelle gambe, nel collo, nella testa; la pelle s'enfiava a cordoni. E niente, come se battessi lei, che non c'era. E gli urli della donna e dei ragazzi diventarono più acuti. – Si sente la romba! Scappa, Cenzo, per amor di Dio! – La fiumana, babbo! la fiumana!

Già, avrei dovuto scendere; abbandonar cavallo e biroccino; perderli, chè la piena qui, sboccando dal letto stretto e fondo, rovescierebbe e si porterebbe via un paio di buoi con il carro. Ma mi ero impuntato anch'io. Se il restio è un male – pensavo – , un male più grande lo scaccerà. E mi misi a picchiare il cavallo col manico della frusta tenendolo a due mani. Botte da accopparlo. E niente; come niente!

Disperati, mia moglie e i miei figliuoli, che mi vedevan me là in mezzo e vedevan la piena che arrivava arrivava, ora chiamavano aiuto. – Aiuto! aiuto! – Aiutarmi chi? Non c'eravam che noi, in questa parte, a quel tempo. Aiutarmi in che modo?

Mentre bastonavo e bastonavo, da matto, voltai l'occhio… Mi si drizzan i capelli in testa anche adesso a ricordarmene; mi si gela il sangue nelle vene. L'acqua torba raggiungeva la chiara, dilagava furibonda; le onde…

Stavo per diventar matto davvero; per saltar giù dal biroccino. Se salto giù, mi annego. Le onde tra pochi momenti erano alle ruote, le dico!

Gridai: – I miei figliuoli! – E… Dio! Dio! Il cavallo si slancia; in due, tre balzi trascina il biroccino fuori dell'acqua, si avventa attraverso la secca e su, di galoppo, per la riva: su! su! siamo nella strada. Ah!.. Salvo! Come dentro a un sogno vedo le facce bianche della mia donna e dei miei figliuoli che mi guardavano senza più voce; E qui, davanti alla bottega il cavallo, Baio, mi stramazza. Morto.

A questo punto Cenzo Dimondi non si vergogna a raccogliere due lacrimoni nel fazzoletto. Indi seguita:

– Baio, un cavallo di tanto sentimento, attaccato dal male non sentiva più nè parole, nè frustate, nè bastonate. Ma aveva capito il pericolo: non dico il pericolo di me o di lui: un pericolo spaventoso, quasi di tutti, di tutto il mondo!, e l'aveva capito dalle grida dei miei, dalla romba lontana, dallo squasso vicino, dall'urlo mio. E volle vincere il male che l'inchiodava, a ogni costo. Lo vinse. Ma gli crepò il cuore.

Dopo un'altra pausa Cenzo Dimondi conclude con una dimanda:

– È così o non è così?

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
28 mayıs 2017
Hacim:
190 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre
Metin
Ortalama puan 0, 0 oylamaya göre