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VI
… pazienza. Sissignori! la virtù degli uomini savi, non degli asini.
Monterúmici non chiariva a parole questa sua opinione; la manifestava con gli occhi. Nel dubbio però di non spiegarsi abbastanza, volle darne anche una prova, un giorno, a suo modo. Con fare guardingo si accostò alla signora Amalia, che stava a cucire nel giardino, e le porse una fotografia. Era di una donna giovine, belloccia.
– Bella! La vostra fidanzata? chiese la signora.
– Mia moglie!
– Oh! Voi avete moglie?
– E come! – Aggiunse serio: – Tutta fuoco!
L'altra fu costretta a ridere; e lui:
– Può credere che non me le abbia fatte, non me le faccia?
E a significar la cosa portò la destra alla fronte, col pollice, il medio e l'anulare riversi. Indi riprese il ritratto, scosse il capo e conchiuse, andandosene:
– Ci vuol pazienza!
Non solo, Monterúmici, piaceva ed esilaravaper quel contrasto manifesto fra la sua natura gioconda e il ritegno che egli si imponeva, quasi l'angelo custode fosse sempre lì a dirgli: – Abbi giudizio – , ma piaceva anche per un contrasto meno appariscente, d'ingenuità e furberia. Se era furbo! Conoscendo il punto debole in tutti – goloso il colonnello; parsimoniosa la signora Amalia; il signor Astolfo, delicatuccio, e invidiosa la domestica – traeva argomento da queste disparità di carattere per divertirsi. Esercitava una perspicacia di psicologo nel mentre che accontentava tutti con la sua valentia di cuoco.
Ai manicaretti da lui composti si accompagnavano, sempre uguali, le lodi.
– Appetitoso! – il colonnello giudicava. E la suocera: – Fatto, si può dire, con nulla! – E il signor Astolfo: – Proprio adatto al mio stomaco!
– Merito vostro che l'avete cotto – il soldato protestava rivolto alla cuciniera, tutta contenta.
E una mattina Monterúmici si presentò alla signora con l'attitudine un po' impacciata di quando aveva da chiederle le uova e lo zucchero.
– Signora: domenica al mio paese, si mangiano i ravioli. Siamo di festa!
– Ho capito. Volete che li facciamo anche noi.
Egli scosse il capo.
– Vorrei una grazia più grande.
– Cioè?
– Che lei dimandasse al signor colonnello di lasciarmi andar a casa sabato. Tornerò lunedì, coi ravioli. Sentirà!
La licenza fu data. Il sabato Monterúmici partì, tranquillo e giocondo al solito.
Ma il cavallo, la cagna e il gatto, se avessero potuto parlare, avrebbero forse detto che l'amico li aveva salutati di nascosto, in un certo modo…
VII
Il lunedì mattina i giornali recavano da Fontanelice questa notizia:
«Il soldato Pietro Monterúmici, essendo tornato a casa improvvisamente e avendo còlta la moglie in intimo colloquio con un compaesano, ha ucciso a colpi di pugnale il drudo. Poi si è costituito ai carabinieri».
… Ci vuol pazienza!
FRANCESCO MIO…
Aveva tanta sensibilità e fantasia così primitiva, tanta cedevolezza alle impressioni e ingenuità di commozioni che gli bisognava umanare tutte le cose; e se queste doti bastassero da sole a fare un poeta, sarebbe stato un poeta ammirato fors'anche dai critici e dagli editori, ricco e felice. Mancandogli quel che gli mancava era invece soprannominato Mattucco, e campava di piccole mance e di carità.
Di solito, badava ai birocci e alle birocce che si fermavano davanti alle osterie e alle botteghe del paese, e, deriso dagli uomini, si intratteneva in seri colloqui con i buoi, i cavalli e gli asini.
Delle bestie interpretava a meraviglia i moti del cuore e del cervello, per non dire l'animo e le idee; e nelle bestie trasferiva l'animo suo e il suo pensiero con semplicità adeguata: poteva così indovinarne e riferirne a sè stesso, a voce alta e chiara, domande e risposte. E chi si doleva con lui del padrone manesco, e chi dei tafani tormentosi, e chi del carico soverchio. Capitavano mamme che avevano il vitellino o il cavallino o l'asinino a casa e gli confidavano le materne ansie, ed egli ne ammirava l'affezione; le consolava. Capitavano manzoli o puledri irrequieti, ed egli ne rimproverava i capricci; li esortava ad esser bravi. Capitavano vecchie rozze, e il dialogo assumeva una simpatia fraterna.
Se per improvviso miracolo uno di quei buoi o di quei cavalli o di quegli asini avesse acquistata davvero la favella, a discorrere con lui non avrebbe potuto usar modi e toni diversi da quelli che egli gli attribuiva.
Nè avrebbe inorridito, Mattucco, al fenomeno mostruoso: gli sarebbe anzi parsa la cosa più naturale del mondo, appunto per quell'intima cordialità di rapporti fra lui e gli animali.
Rari i malintesi; e dopo, più amici di prima! Per poco non gli toccava la cornata, o il calcio, o il morso che era rivolto a una mosca proterva o a un'ombra fugace o a un'avversione istantanea? Chiarito l'equivoco, subito la pace era fatta; sancita, magari, da un bacio.
Gli uomini, invece!
Sempre in guerra: sempre accuse, provocazioni, proteste, minacce, offese, violenze. Senza tregua, mai, dalle osterie, dal mercato, dalle strade, dalle case giungevano all'orecchio dello scemo voci d'irosi dissidi, di contratti stentati, di promesse strappate a forza, di inganni scoperti a caso; di frodi; di tradimenti; d'infamie; e nel suo cervello, sì tenero alle apparenze e alle sensazioni della vita estranea, la turbolenta umanità si confondeva tutta in un litigio unico, tremendo, continuo, enorme, insopportabile. Che cattiveria! Ne soffriva sebbene non ci avesse nè arte nè parte, e con i nervi eccitati e il batticuore si rifugiava al convento, là, fuori di porta.
A mezzogiorno i frati gli davano un mestolo di zuppa, e l'ingollava seduto sul gradino, alla cella di San Francesco. Dormendo, dopo, sul gradino, chetava in sè il tumulto della vita sociale; e risvegliandosi e rialzandosi restava a conversare un po' col santo, che lo rincorava, da buon amico anche lui, nei dialoghi immaginari.
Pater, Ave e Gloria. Poi Mattucco tornava in paese, a intrattener le bestie – che bontà! – , e a paventar gli uomini – che cattiveria!
II
Sotto il portico, a un lato della chiesa francescana, era la cella del Santo e della Pietà.
La Madonna, assisa su di un masso, reggeva il capo al divin figliuolo e piangeva: giaceva, morto, il Signore; livido e sanguinante. E, separato, di contro, San Francesco con la faccia benigna volta a coloro che sopravvenivano, tendeva la destra accennando al sacrificio e con un mesto sorriso significava ai visitatori giudiziosi:
– Guardate e pregate, fratelli!
I visitatori guardavano e talvolta pregavano. E poichè le statue erano colorate al vivo, alte come persone vere e umane nel sacro aspetto, e l'ombra inclusa nel portico e l'interna penombra della stanza accrescevano il senso del dramma arcano, qualche cuore rimaneva preso e compunto. Alle preghiere seguivano le offerte.
Raccogliendo queste a intervalli, fra' Pasquale, portinaio e sagrestano, lasciava tuttavia alcuni soldi in terra a esempio e invito ad altra elemosina; e così la carità del Signor morto e di San Francesco rendeva abbastanza bene.
Or avvenne che lo scemo si destò un giorno dal solito riposo mentre due monellacci osservavano dentro la cella, e dicevano tra loro:
– A un'asta impegolata in cima, i soldi s'attaccherebbero.
– E i frati? E fra' Pasquale?
– Hai ragione. Meglio starne alla larga, da quell'accidente!
Temevano il bastone dei frati, non il sacrilegio, i gaglioffi! E se n'andarono. Lo scemo, però, aveva capito. Canaglie, che idea! Rubare a San Francesco! i soldini di San Francesco! – E stette là, immoto, come immersa l'anima in un pensiero profondo. Pensava con faticosa connessione d'idee:
– Elemosine. – A chi vanno? Chi se le gode?
– Soldini e… bicchierini: soldini e pane.
Poi Mattucco guardò alla statua del santo quasi si aspettasse di vederla turbata. Ma no: non aveva perduta l'abituale bonomia: anzi sembrava che il dolce sorriso s'effondesse vieppiù dagli occhi per le guancie.
San Francesco parve dire – e Mattucco disse infatti per lui:
– Son da compatire anche i bricconi, se i frati non fan le cose giuste! Fra' Pasquale non aiuta chi n'ha più bisogno.
– È vero – aggiunse Mattucco da parte sua. – A me non mi dà mai un soldo.
– Prendine – gli disse San Francesco. – Adesso hai imparato come si fa.
– Prenderne? E l'inferno?
San Francesco sorrideva sempre. – Non ci son io a farti perdonare; io, San Franceschino?
Ma lo scemo non era ancora persuaso. Dimandò:
– E fra' Pasquale? Se mi arriva addosso quell'accidente?
– Non c'è qui il Signore con la Madonna a proteggerti, a difenderti dalle bastonate?.. Pater Ave e Gloria.
Allora Mattucco recitò le orazioni. E si avviava, persuaso, per andar a cercare l'asta e la pece.
Ricordandosi però di quanto avveniva tra gli uomini, in paese, tornò indietro a stringere il patto, a prender garanzia.
– D'accordo? Siam d'accordo, San Franceschino mio? Sì? proprio davvero?
– D'accordo!
– Parola?
– Parola di galantuomo!
III
Fra' Pasquale non tardò ad accorgersi del furto, sebbene avvenisse a intervalli lunghi; e di quando in quando, nel tempo che aveva libero, stette in agguato dietro la porticina della cella.
Ed ecco, un pomeriggio, vide entrar l'asta per l'inferriata e contemporaneamente udì una voce che diceva:
– San Franceschino mio, son qui! Ho voglia d'un bicchier di vin buono. Voi badate a fra' Pasquale.
Chi era il ladro! Lui, Mattucco, rubava! Povero mendico! E chi gli aveva insegnato il tiro? O forse la sete del vino gli aveva aguzzato l'ingegno? A ogni modo la scoperta fe' sbollir subito l'ira al francescano; gli mise la voglia di seguitare il gioco per divertirsi. E pronto, in tono soave, senza mostrarsi, fece:
– Ah Mattucco! Mattucco! Io sonò il tuo protettore, il tuo San Franceschino, e tu mi rubi le elemosine? Credi proprio che all'inferno ci si stia bene?
A queste parole lo scemo rimase stupito. Stupito, non spaventato. Non sbigottisce al portento: San Francesco ha parlato? La cosa più naturale del mondo! Ma gli è incredibile quel che ha udito, da lui.
Come? Il Santo adesso lo rimprovera? lo minaccia? E il patto conchiuso fra loro? La parola data: parola di galantuomo?
– All'inferno! – séguita con tono cupo il frate. – Povero te!
L'altro non si muove. Cerca chiarirsi in testa questo misterioso mutamento. Mancar di parola, adesso. Perchè mai?
Ah che pur troppo la trova la spiegazione! Sì: i santi furono uomini; e mutano di parola come gli uomini litigiosi e falsi!
E lo scemo s'arrabbia; e tutte le contumelie che ha appreso per le strade, per le osterie e nel mercato a mortificazione di chi manca ai patti, le scaglia contro San Francesco. E si spiega:
– Vergogna! Rimangiarsi la parola data! E pretender fede dai galantuomini, dai poveretti! E tradire! E chiamar in aiuto il diavolo, un santo!
Ma nella sua ira c'è, più profondo, il dolore; c'è l'amarezza di una delusione crudele; c'è una disperata angoscia. Gli pare, a Mattucco, d'impazzire! Un santo! Traditore! Oh!
Che mondo! Che onore! Che infamia! Oh scappar via! via! Scappare lontano, per sempre! fuggire dove non s'inganni e si tradisca! Non vedere nè un uomo, nè un santo, mai più! Via! … Dove?
IV
Si diede alla campagna. Bello vagare qua e là lungo i sentieri ombrosi o per le strade solitarie; bello mansuefare con le buone maniere i cani infuriati e chiamar con voci infantili i vitellini e i puledri; bello intendersi con le stelle o ridere con la luna.
Alle case le donne che lo riconoscevano gli chiedevano qual disgrazia lo avesse colpito; quali dispiaceri avesse. Una volta la sua faccia era così allegra! Adesso invece era così magro!
Si schermiva; ricevuto il tozzo di pane, scappava rapido. E finchè poteva resistere, preferiva la fame a mendicar dalla gente.
Ma ahimè! Mentre egli sfuggiva alla vita degli uomini, altra vita sfuggiva a lui. Quella sua sensibilità, quella sua intimità con gli animali e con le cose, comportabile nei limiti del paese, nel mondo sconfinato diventava faticosa troppo; un continuo sforzo; un esaurimento lungo e mortale.
Ed era tanto debole!; pativa la fame. E più che per la fame, pativa perchè in quel lento mancare di sè a sè stesso pareva venirgli meno il mondo, che già viveva con lui e di lui. A poco a poco gli si estingueva l'energia animatrice, povero Mattucco!
Un giorno giacque sotto un olmo in un campo deserto. Guardava con gli occhi languidi davanti e d'intorno, e non ci si trovava più. Tutte le cose ora vivevano per sè sole, in un egoismo mostruoso, in una indifferenza spaventevole, con una incuranza spietata.
Il grano alto e giallo aspettava l'ora di compiere il suo destino E si godeva il suo ultimo sole; il trifoglio si beava di essere tutto in fiore; le viti, distese fra gli alberi, bevevano i raggi ardenti e si mostravano intente solo a produrre; gli olmi o avevano molli dedizioni delle fronde più alte alle carezze dell'aria, o restavano immobili, alcuni in una letizia pacifica e sonnolenta, alcuni in una gravità solenne, come se muovendosi temessero – egoisti anch'essi – di nuocere a ciò che loro solo premeva: il nido che nascondevano nel folto. Nel cielo, a volo rotto i cardellini passavano rapidi e giulivi non conoscendo che la loro esistenza; non altro vedendo dell'universo che la loro letizia. A due a due, le farfalle apparivano e sparivano in una felicità lieve lieve, bianca e silenziosa; e le formiche, lì, in oscura fila… Che da fare! Potevano curarsi, loro, di un povero uomo? Peggio per lui se era nato uomo!
Peggio: Mattucco non aveva mangiato e non aveva da mangiare. E fin la terra gli pareva incresciosa di sostenerlo, perchè s'assopisse, quietasse nel sonno l'inedia, lo struggimento del totale abbandono, l'affanno dell'intero esilio in cui s'era perduto.
Quand'ecco fra i rami, proprio sopra al suo capo, vivacemente:
– Francesco mio!..
Come ferito al cuore, nella rimanente vitalità, Mattucco s'alzò in piedi. Come il vinto che raccoglie le forze estreme per ributtare l'ultima viltà prepotente, l'ultimo scherno, si chinò ad afferrare un pezzo di zolla; e l'avventò con un grido osceno in alto. E al crepitìo della polvere tra il fogliame, il fringuello volò ad un altro albero. E di là:
– Sì sì sì: Francesco mio…
Allora lo scemo ricadde e si mise a piangere.
Ma Colei che soffriva per il più atroce dolore umano, china nella penombra sul figlio livido e sanguinante, gli apparve; egli la scorse che piangeva tra le sue stesse lagrime. E parlava:
– Si sì sì, Francesco mio… Questo poverino muore, per te. Chiamalo! Fa che torni a prender la zuppa al convento: se no, muore, il poverino!
Ah Madonna santa! ah Madonna buona! Comprendeva lei, aveva compreso lei il torto di San Francesco, il male che aveva fatto!
Diceva soave:
– Vieni, Mattucco. Ritorna. Francesco mio ti dirà: «Sei qui?». Francesco mio! Francesco mio!..; e fra' Pasquale t'accoglierà, buono, tra le sue braccia, e ti darà un mestolo di zuppa.
V
Arrivò estenuato al convento.
– Son qui – disse con voce fioca, con un sospiro, affacciandosi alla cella del Signor morto; e guardò.
Ma San Francesco…
Ah! troppo a lungo il misero poeta scemo era rimasto fuori dalle illusioni antiche, troppo evidentemente la realtà si era sottratta alle sue fittizie animazioni!
Guardò; e vide sol quello che tutti vedevano, quel che vedevano i savi: San Francesco, muto, accennava al Signor morto, solo per dire: – Pregate, fratelli. – Null'altro. E la Madonna era anch'essa una statua muta. E il Signore, una statua. Null'altro! Null'altro! E tutte le cose, tutte le creature che egli aveva creduto vivessero come egli viveva, con i suoi pensieri, con il suo sentire, gli si presentarono, di subito, agli occhi e alla memoria, mute, senz'anima. Era finita! Finito l'incanto, si spegneva l'universo. Finito l'incanto, Mattucco diventava savio, e moriva davvero.
Si trascinò alla porta; tirò la corda del campanello; si abbandonò esanime nelle braccia di fra' Pasquale.
SIMPATIA
Bontà e forza: con questo temperamento e carattere ce n'è ancora della gente nelle nostre campagne; temperamento e carattere dell'italiano pretto nel pensiero e nelle vene. Esempi? Eccone uno, assunto dalla più umile verità.
—
La guerra aveva fruttato insoliti guadagni anche a Leonardo Morini, l'«ovarolo», ma aveva privato anche lui della sua pace. Fino a settantadue anni era vissuto senza grossi guai; senza invidiare chi aveva famiglia; contento della salute che gli permetteva d'andar in giro a piedi per le campagne e ai mercati a guadagnar commerciando onestamente; contento d'aver messo da parte qualche risparmio; contento d'abitare solo e libero in una soffitta. Ma al mondo ci sono dei misteri. Perchè fra tante case e cascine, che visitava da anni e anni, non trovava differenza, e andando all'Olmello si sentiva un che nel sangue, come se andasse da gente del sangue suo? Perchè fra tanti ragazzi, che in quelle case e cascine s'era visti attorno in tanti anni, non aveva fatto nessuna differenza e a Celso, il figlio della non bella e piagnucolosa Assunta e d'un contadino tanghero quale Stefano dell'Olmello, aveva preso a voler così bene? E perchè Celso fin da bambino gli correva incontro con un lume negli occhi e con un sorriso che per lui nessun altro bambino aveva mai avuto; un sorriso di riconoscenza, quasi d'intimo riconoscimento? Perchè quando gli altri ragazzi erano cresciuti ai suoi occhi nella giusta misura dell'età, Celso gli era parso diventar così presto un bel giovine robusto, e più bello e più robusto e sano di tutti gli altri?
E perchè al dispiacere e al compiacimento insieme di quando Celso era andato soldato, gli era seguito in cuore un contrasto di tanta passione quando la gran guerra scoppiò? Forse perchè era stato soldato lui pure e aveva combattuto nel '59? O forse era una legge: la legge del mondo e degli affetti umani imponeva che egli, che era figlio di nessuno e non aveva voluto esser padre, cercasse nella creatura d'altri l'affezione filiale che non aveva potuto provare, sentisse per la creatura d'altri l'affezione paterna che non aveva potuto provare. O era piuttosto una condanna, un castigo. L'egoismo d'una esistenza quasi intera doveva alla fine essere scontato da affanni per amore di estranei, doveva risolversi in una espansione di affetto che comprendesse tutti i sentimenti ignorati.
In verità, allorchè il vecchio Leonardo, reggendo con un braccio il cesto da riempire di uova e poggiandosi al bastone, curvo come se avesse sulle spalle il peso della strada percorsa e volesse conquistare anche col petto la strada da percorrere, a passi piccoli e frettolosi arrivava all'Olmello, recava in cuore la tenerezza di un padre buono, la bontà di una madre tenera, un'ansia fraterna, un desiderio di amico unico, una cristiana voglia di confortare, un bisogno di consolarsi consolando.
– Che nuove avete? – chiedeva, rialzato il capo, fermo a mezzo dell'aia.
Talvolta gli davan da leggere una lettera, gli mostravano una cartolina. Non perciò egli s'allietava del tutto. Troppo l'infastidivano le lamentele della madre e l'impenetrabile aspetto del padre. L'Assunta, che donna! Non intendeva che la guerra era la guerra.
E Stefano taceva. Che uomo! Due parole in un'ora; e da ignorante. Pareva avesse il figlio in un'impresa tenebrosa e le tenebre fossero entrate nel petto a lui, dove gli altri ci hanno il cuore, o nella testa, dove gli altri ci hanno il cervello.
– No! – pensava Leonardo. – Un padre non dovrebbe essere di ghiaccio o di macigno. No! Una madre non dovrebbe essere di ricotta. Che gente!
E si proponeva di non ricomparir all'Olmello prima che fossero passate due o tre settimane e le galline avessero fatto assai ova. Vi tornava invece dopo due o tre giorni. Ma se ne pentiva sempre; ripartiva sempre con quell'uggia, quell'amarezza di un bene deluso, quel disgusto di non essere compreso e di non poter ridurre pari al suo l'animo del padre rude e della madre dolente.
***
Un brutto giorno, un giorno che la nebbia bagnava i panni addosso e stillava dai rami, e i passeri, negli alberi, rabbrividavano sotto le penne arruffate, Leonardo entrò nel campo da fuori della carraia. Co' suoi passettini rapidi e il suo bastone, discese lungo il ciglio erboso alla volta di Stefano che stava affondando il fosso. A vederlo, il contadino attese, il piede sul vangile e le mani a sommo della vanga. Perchè il vecchio non era andato in casa, prima, dalla donna? Ma il contadino non mosse voce. Guardava senza anima manifesta, e aspettava. E il vecchio col freddo nell'anima sorrise appena appena e disse:
– In paese si discorre d'una gran battaglia.
Stefano aspettava immobile.
– Si parla di molti feriti; di molti morti. Ma speriamo…
Poi Leonardo tacque.
Allora il padre chiese come non avesse udita l'ultima parola:
– E lui?
– Eh! Innanzi che si sappia che ne è stato, di Celso, se l'ha scappata, come io spero, correrà un po' di tempo.
L'altro ebbe negli occhi un'accensione d'ira; ebbe uno sguardo bieco, quasi di odio; ed esclamò forte:
– Cosa siete dunque venuto a fare?
Cos'era venuto a fare? Leonardo non dubitò che il silenzio, lo sguardo, la violenza mal repressa e la dimanda di colui significassero una tremenda angoscia costretta in sè da una timidezza o da una energia quasi selvaggia, esprimessero la pena di dover aspettare troppo a lungo una notizia atroce. Pensò:
– Che bestia!
Cosa era venuto a fare? Non lo sapeva chiaramente nemmeno lui, povero vecchio, il perchè era accorso subito dal paese: era accorso perchè il cuore l'aveva portato: ecco. Bisogna dirle, domandarle certe cose? Per dare una parola di speranza, se non per riceverla, era venuto; per prepararsi il cuore con loro, se mai…
E impermalito, Leonardo stava per rispondere: – Non verrò più a disturbarvi – quando dall'alto del poggio (Stefano si era rimesso a vangare) l'Assunta chiamò, invocò:
– Leonardo! Leonardo!
Egli le andò incontro; sorridendo, al solito, disse:
– Sì. C'è stata una battaglia. Ma – aggiunse – niente paura! Avete avuto cattive nuove? No. Dunque…
La donna lo fissò prima di piangere; per l'apprensione improvvisa ebbe negli occhi un insolito acume, e chiese:
– Ne siete sicuro, ch'è salvo?
– Sicuro del tutto… oggi com'oggi…
E lei rompendo in singhiozzi, disperata, con la voce di chi impreca:
– Ma allora, cosa siete venuto a fare?
***
Poichè dunque non s'intendevano; poichè lo rimproveravano invece di ringraziarlo, Leonardo giurò, sul serio questa volta, che all'Olmello non lo rivedrebbero più, se Celso non tornasse a casa.
E soffriva, il vecchio, a pensarci; e ci pensava sempre. Sperava. E quando sperava, si immaginava Celso così lieto d'esser scampato alla morte, così felice di riabbracciare i suoi, che non ne restava più, del suo bene, per il vecchio amico. Nè il rancore e l'uggia gli cessarono come si diffuse la voce che con parecchi morti del paese era rimasto ferito Celso dell'Olmello.
E passò quasi un mese; e Celso gli scrisse lui, a Leonardo, che ormai guarito del tutto veniva in licenza.
***
Il giorno che gli aveva scritto di tornare il vecchio andò alla stazione per tempo, al mattino; e sì che il diretto che credeva porterebbe il reduce arrivava a un'ora del pomeriggio! Essendo freddo, camminava su e giù per il marciapiedi, fin che la mano gli si gelava sul bastone e l'aria gli aveva tagliato abbastanza le orecchie.
Entrava allora nella sala d'aspetto a scaldarsi alla stufa. Ma non potendo resistere al tanfo di chiuso, usciva di nuovo.
Passò un treno merci. S'arrestò, più tardi, un treno omnibus. E, dopo, una tradotta. Da questa Leonardo vide scendere un soldato; poi non vide più nulla perchè aveva visto che era lui. Nella sua mente confusa, nel suo animo sbalordito fu come l'imminenza d'un destino che si compieva…
E a sentirsi dire: – Voi qui, Leonardo? – , a sentirsi abbracciare, a sentirsi chiedere: – E i miei? – , tornò in sè ma non per rispondere: per ridere, ridere di contentezza. Pareva ebbro.
Intanto alcuni conoscenti attorniavano il giovine, e mentre questi scambiava qualche parola il vecchio si fe' largo, lo tirò per una manica; e sollecitava:
– Andiamo, Celso! A casa! Via!
Nè volle attraversare il paese.
– Tua madre ha pianto tanto…; tuo padre… Bisogna andar subito a casa! A casa! Via! Presto!
Per i campi, volle che andassero, soli, liberi. Felice!
E quando fu sicuro che nessuno glielo rapirebbe, Leonardo si fermò un istante; alzò lo sguardo incontro allo sguardo del giovine; chiese:
– E lassù?
Celso si mise a parlare della guerra; senza esagerazioni.
Ai Casetti, s'interruppe. Disse: – Due salti, e vado a salutar la mia bionda.
– T'aspetto – fece l'altro. E l'aspettò lì, al freddo, tossendo.
***
Ma a casa, quando arrivarono finalmente a casa, Leonardo ebbe la rivelazione. Dal modo con cui il ragazzo si comportò con i suoi, capì che non s'era sbagliato ad affezionarglisi tanto, e dal modo che i suoi, del ragazzo, si comportarono, capì che li aveva mal giudicati.
Celso si stringeva la madre al petto con la forza d'un bambino e la chiamava: – la mia mamma! la mia vecchia – ; e la baciava non sazio. Indi rivolto al padre, che gli disse – gli disse solo: – Sei qui, Celso? – , contenne con un visibile sforzo la commozione e disse, disse solo:
– Come state, pa'?
Finalmente era chiarito il mistero!
Sì: il difetto della madre era la troppa tenerezza, e durezza il difetto del padre; ma il vecchio comprese che si comportavan così anche per una reazione vicendevole e involontaria, e comprese che il difetto dell'uno e dell'altra si eran temperati nell'animo di Celso a una virtù che lui, povero vecchio, aveva sentita senza rendersene ragione. Era la stessa sua virtù istintiva: bontà e forza.
***
E quel giorno Leonardo si ammalò. La notte la casigliana che abitava una stanzaccia attigua alla sua l'udì tossire e vaneggiare. Faticosamente, nei giorni dopo, egli scendeva e saliva le ripide scale: sedeva sui gradini e, sorpreso, fingeva di star là a perdere il tempo; per non parer mal ridotto, cantarellava piano piano. La tosse lo riassaliva secca, soffocante.
Celso che non dubitava fosse ammalato, non veniva in paese; preferiva far all'amore ai Casetti con la bionda. Rincasando, però, dimandava ogni volta: – E Leonardo non s'è visto?
Arrivò all'Olmello un pomeriggio. Con la tosse, sudato, affannoso, affranto.
– Il ragazzo dimanda di voi – l'Assunta gli disse. – Lui sorrideva. Chiese delle uova.
Di ritorno col cesto, l'Assunta gli disse anche, senza piangere, che il ragazzo presto ripartirebbe. Senza piangere! E Stefano quel giorno parlò di molte cose. Stefano parlò!
Ma il vecchio non aveva nemmen più la forza di meravigliarsi. E se avviandosi si fosse voltato indietro, avrebbe scorto il contadino scuotere il capo, mentre la donna mormorava: – Quello è un uomo che se ne va.
Leonardo se ne andava infatti, zampicando, col suo bastone, come verso un destino che si compieva. Quando la sera fu, per grazia di Dio, in paese, si fermò dal notaio; offerse le uova che l'Assunta gli aveva date e sorridendo pregò:
– Vorrei fare, signor dottore, testamento… adesso.
La mattina dopo Celso venne a cercarlo per salutarlo. Partiva.
Sulla porta la casigliana gli disse:
– Stanotte non l'ho sentito tossire.
E aggiunse: – È un uomo che se ne va.
Salirono insieme. Batterono. Silenzio.
Tirata la cordicella e aperto l'uscio, lo videro, nel letto; videro che se n'era già andato.
E il soldato, l'erede, gli chiuse gli occhi.