Kitabı oku: «Venezia. Ciminiere Ammainate», sayfa 2

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Il tentativo di procedere con un progetto territoriale non riuscì appieno ma fu utile per orientare le lotte dei lavoratori veneziani ed evitare di marciare su una logica volta alla difesa dell’esistente. Il progetto servì da bussola non solo per i sindacati veneziani, nelle discussioni e nella formulazione di proposte che, dopo la metà degli anni Ottanta, si realizzarono a livello nazionale.

Fu proprio De Michelis, nella veste di vicepresidente del Consigli dei Ministri, alla fine degli anni Ottanta, a ricordare le motivazioni che impedirono la costruzione di un tavolo negoziale nazionale incentrato su Porto Marghera:

“Le cose avvenute sono state realizzate conseguentemente a un disegno unitario, sia per le trasformazioni dei singoli settori, sia per Porto Marghera nel suo complesso. Un disegno unitario che però ha avuto, per ragioni inevitabili, il suo cuore a Roma. Non per espropriare Venezia delle sue competenze, ma perché gli interventi da realizzare erano collegati a più generali processi di ristrutturazione – della chimica, dell’alluminio, della cantieristica, della siderurgia e quant’altro – che non potevano che essere governati a scala nazionale. Era evidente che necessitava un approccio di tipo verticale, a monte; altrimenti sarebbe stato impossibile sapere cosa fare qui, a Venezia, nelle singole attività presenti nella zona industriale a fine anni Settanta. Ma bisogna ricordare che il piano di trasformazione ha avuto anche un suo collante e un suo coordinamento di tipo orizzontale, in sede locale. E il merito è stato della classe dirigente di questa città”. (12. Coses e Comune di Venezia (a cura di), Porto Marghera. Proposte per un futuro possibile, cit., p. 438).

Porto Marghera e centro storico: industria e salvaguardia

Uno dei principali aspetti della complessità di Porto Marghera è l’essere adiacente a una città storica come Venezia. Due mondi distinti e lontanissimi su più piani. Dal punto di vista economico il centro storico è sempre più concentrato nelle attività legate a un turismo in forte espansione, mentre la terraferma vive in buona parte sul reddito creato dalle attività industriali e commerciali. Dal punto di vista “ecologista” addirittura due mondi contrapposti: un’area industriale con possibili rischi ambientali a poche centinaia di metri da un museo a cielo aperto, di storia millenaria, unico e irripetibile. Entrambi i luoghi vivono processi di trasformazione non sempre positivi. In un convegno della Fiom veneziana dell’aprile del 1991 ci si chiedeva, guardando l’esodo dal centro storico di Venezia, se il calo continuo e costante dei residenti non era oramai un processo inarrestabile e, conseguentemente, il ripopolamento di Venezia un obiettivo auspicato ma sempre più distante. Era una visione “catastrofista” dei processi allora in atto a Venezia? A Venezia tutto ciò che non era legato allo sfruttamento della città in funzione turistica già allora scompariva, e il nuovo, necessario per impedire l’affermarsi di una nociva e controproducente monocultura economica, non emergeva. Anzi appariva esplicita, già allora, la tendenza di importanti attività produttive artigianali a riconvertirsi in funzione del turismo. E la tendenza era ancora più evidente se si osservavano direttamente le attività produttive che nel centro storico chiudevano e davano il senso più vero di un processo di vera e propria decadenza. (13. Aiello A., Articoli, interviste, interventi, 1975-2004, Relazione introduttiva al convegno “Quale sviluppo delle attività produttive a Venezia? Ruolo della navalmeccanica e delle tecnologie marine” , Venezia, Ateneo Veneto, 5 aprile 1991, dattiloscritto). Ha ragione Dorigo, quando sostiene che tale condizione è frutto di una scelta consapevole – soggettiva – di una voluta trasformazione genetica? La filiera turistica per prevalere aveva la necessità di spostare dal centro storico verso la terraferma il porto commerciale. L’effetto non poteva che essere l’avanzata della monocultura. È venuta così a mancare nell’economia del centro storico quella logica della “buona miscela” data da attività economiche diversificate, comprese le attività produttive specie se legate al mare. L’inserimento all’Arsenale di Venezia di Thetis, un’attività nata dall’impegno di alcune società (tra cui Tecnomare e Fincantieri) ha rappresentato all’inizio degli anni Novanta uno dei tentativi più riusciti di contrastare la monocultura turistica veneziana. Venezia, è inutile nasconderlo, ha vissuto e ancora vive su alcune “rendite” che finiscono per indebolire gli stimoli imprenditoriali: turismo, porto, università, Casinò municipale, grandi aziende industriali pubbliche, aeroporto, grandi opere infrastrutturali avviate. Ma non va dimenticato che, dal 1973, una legislazione speciale mira a salvaguardare la città storica dal pericolo delle acque alte, dopo le maree eccezionali del novembre del 1966. Svariati miliardi di euro sono stati spesi per la salvaguardia e il recupero di pezzi della città; almeno quattro miliardi di euro saranno investiti nelle grandi opere di difesa. Non manca, però, il dibattito con posizioni contrastanti e l’intervista a Pravatà ne è una testimonianza.

Porto Marghera e Veneto: inconciliabili?

Nell’intervista a Gianni De Michelis sulla inconciliabilità tra l’apparato industriale di Porto Marghera e quello del Veneto, sono affrontate tre grandi questioni.

Primo: vi è stato un “effetto innesco” di Porto Marghera che ha consentito, favorito l’“esplosione” produttiva del Veneto?

Secondo: Porto Marghera, vista come “l’ultima versione della Serenissima”, ha influenzato le scelte degli imprenditori veneti disincentivando una loro “naturale” espansione a Porto Marghera che si riorganizzava? Terzo: Porto Marghera ha davvero nel futuro una funzione così vitale per il Veneto, addirittura per l’economia del Nordest, al fine di evitare che questa «si spiaccichi contro un muro prima ancora di diventare matura»?

Già alla fine degli anni Settanta importanti ricerche rilevavano che era «in corso nella regione una forte trasformazione delle strutture economiche e sociali... sotto forme inedite e sperimentali» (14. Rullani E., C apitalismo periferico e formazione sociale regionale: l’economia del “modello” veneto, gennaio 1979, dattiloscritto). Non si trattava, a detta dei ricercatori, di un’ipotesi di microformazione sociale, compatta al proprio interno e in frizione con altre realtà regionali, ma semmai di un adattamento dell’assetto regionale a prepotenti spinte recepite dall’esterno, a cominciare dai condizionamenti della divisione internazionale del lavoro. Si venivano così delineando concetti come quelli di “formazione sociale territoriale” ed “economia periferica”. Quest’ultimo richiamava quello di “residualità”, inteso come ibrido non analizzabile di sviluppo e non-sviluppo. Ma di quale sviluppo si parlava? Massimo Cacciari, trent’anni fa, così lo evidenziava:

Rifacciamoci brevemente alle strutture che hanno determinato lo sviluppo industriale regionale. I dati di cui disponiamo... ci rivelano una struttura industriale complessivamente assai arretrata, senza vistosi segni interni di squilibrio. Il “dualismo” non passa, cioè, tra piccola industria e industrie a dimensioni medio-grandi (200-1500 addetti). Anzi, il capitale investito per addetto decresce con il crescere delle dimensioni di impresa (ciò che indica un basso livello di capitalizzazione nella media industria e non, relativamente alle altre regioni settentrionali, un alto livello nella piccola); la produttività del lavoro è pressoché equivalente nelle diverse categorie di imprese... È evidente che la relativa “tenuta” dell’occupazione industriale nel Veneto è strettamente correlata a questa struttura diffusamente “arretrata”, a bassa intensità di capitale. (15. Cacciari M., Struttura e crisi del “modello” economico-sociale veneto, in «Classe», 11, 1975).

Successivamente l’evoluzione della struttura produttiva del Veneto ha portato alla diffusione dei distretti industriali «... medium di conoscenza e di relazioni che permette la comunicazione e il coordinamento operativo tra soggetti situati nel medesimo contesto di esperienza (locale)» (16 Rullani E., Distretti industriali ed economia globale, in «Oltre il Ponte», 50, p. 32) e a una straordinaria articolazione dei sistemi produttivi locali, che hanno interessato anche le aree vicine a Porto Marghera. Non esistono, però, ricerche empiriche che documentino, per la provincia di Venezia come per il Veneto, un sicuro effetto “innesco” prodotto da Porto Marghera. Se De Michelis ha ragione, si tratta di una ragione ancora da dimostrare. Si può, a tale proposito, rimanere su un piano intuitivo come fa il direttore dell’Associazione degli industriali di Venezia, Italo Turdò, quando sostiene che avere vicino l’alluminio e le altre materie prime ha permesso a molti nel Veneto di svilupparsi. Più netto è, invece, il parere di Gianni Pellicani, che considera alla base delle condizioni di sviluppo del Veneto non solo l’indiscussa creatività e laboriosità dei veneti ma anche le note condizioni di vantaggio come la manodopera a basso costo, la politica inflazionistica e il deprezzamento della moneta, oltre agli effetti della legislazione degli anni Cinquanta e Sessanta sulle aree depresse. Alle incertezze sull’effetto “innesco” si contrappone la certezza sulla seconda questione: l’imprenditoria veneta non ha finora partecipato, tranne qualche rarissimo caso (come quello dell’imprenditore siderurgico di Vicenza Beltrame che ha rilevato l’ex Italsider di Porto Marghera), al processo di reindustrializzazione del polo industriale veneziano. Infine, sul punto che attiene alle prospettive del Veneto e sul ruolo che in ciò può giocare Porto Marghera, appare verosimile, come vedremo più avanti, ritenere che la riorganizzazione del sistema dei trasporti e della logistica porrà Porto Marghera in una posizione di eccellenza, grazie, innanzitutto, alle sue infrastrutture. Con benefici che possono coinvolgere un territorio più vasto.

2. I processi politici e i soggetti

La vertenza delle imprese di appalto e della Sava

La fase di sviluppo industriale che investe Porto Marghera a partire dagli anni Settanta è “fisicamente” visibile, con investimenti produttivi per la costruzione di nuovi impianti chimici, al cantiere navale Breda, all’Alumix di Fusina, che determinano una crescita velocissima di nuovi posti di lavoro i quali, solo nelle imprese specializzate e dedicate prima alla costruzione e poi alla manutenzione degli impianti, portano dall’entroterra veneziano e veneto, ma anche e soprattuto dal Sud Italia e finanche dall’estero, migliaia di lavoratori. La vertenza che il sindacato veneziano apre nei confronti delle controparti padronali nell’aprile del 1970, per la difesa dei diritti dei lavoratori delle imprese di appalto, si colloca all’interno di quel processo di sviluppo. Due mesi dopo l’apertura della vertenza delle imprese esplode la crisi produttiva della Sava di Porto Marghera. A questo proposito riporto brani di un’intervista di Chiara Puppini a Giuliano Ghisini, segretario della Fiom negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta e poi segretario della Cgil veneziana fino alla metà degli anni Ottanta. L’intervista, del 3 ottobre 1994, è stata voluta da Chiara, moglie di Germano Antonini, dirigente sindacale della Cgil veneziana, deceduto il 5 febbraio dello stesso anno, a soli cinquantadue anni, in vista di un suo progetto di biografia del marito.

PUPPINI. La giornata di lotta del 2 agosto... c’ero anch’io quella volta. Sono scappata con la motoretta di un amico. Ricordo che c’erano i Boato... poi c’è stato quell’episodio della camionetta della polizia rovesciata e incendiata, con i poliziotti che sono scappati. Allora Germano mi ricordava che era stato lui con Gianmaria e un’altra persona... Tu sai qualcosa? Tu Giuliano la sai bene la vicenda, raccontala.

GHISINI. Sì... c’era anche Manente delle Leghe leggere. Come hai detto c’erano questi poliziotti con la camionetta, erano “celerini” di Padova. Erano in quattro o forse cinque, con la camionetta e nella ressa puntano la pistola... davanti c’erano Germano e Gianmaria, che gli dicono: «Ma che razza di roba, perché fate questo atto, via la rivoltella!». Intanto Manente arriva con una bottiglia Molotov e la butta sulla camionetta. A quel punto i poliziotti chiedono a Gianmaria e Germano di tenere le mani alzate. Si può immaginare a che livello fosse la tensione. Germano e Gianmaria a quel punto, rivolti ai poliziotti armati, dicono: «Noi non c’entriamo» e scappano. La camionetta viene rivoltata, subito dopo, in via Fratelli Bandiera.

PUPPINI. Ma ci furono anche scontri fisici?

GHISINI. R icordo Cesco Chinello, che mentre era malmenato dalla polizia urlava: «Io sono un senatore, io sono un parlamentare...»; «E noi siamo deputati» risposero i poliziotti mentre lo bastonavano. Fu una vicenda politicamente molto grossa. Ci fu poi, negli anni del terrorismo, una colonna delle Brigate Rosse che assunse il nome di “Brigate Rosse colonna 2 agosto.

PUPPINI. La cosa clamorosa fu che la polizia scappò e Marghera ritornò nelle mani dei manifestanti.

GHISINI. Avvenne così. Andammo, come sindacato, dal prefetto e gli dicemmo: «Se entro 24 ore la polizia non va via, se non li rimandate a Padova, noi non garantiamo più niente e dei fatti che accadranno saranno tutte vostre le responsabilità». Al prefetto io stesso dissi: «Adesso faccia quello che vuole». Questo era il clima. Ci furono feriti, mi pare otto, di cui uno molto grave. Ecco, Germano in quelle situazioni era a suo agio... si sentiva bene... Ricordo che poi la sera siamo scesi dalla Prefettura e c’erano i lavoratori che ci attendevano. Un clima di eccitazione la faceva da padrone.

PUPPINI. Quali erano i motivi di quella lotta sindacale?

GHISINI. Era la lotta dei lavoratori delle imprese di appalto, che operavano all’interno del Petrolchimico di Marghera. Lo scontro con la polizia fu una storia nata male. Si stava discutendo con il prefetto per trovare una soluzione alla vertenza. Ricordo che proprio io trattavo con la polizia per evitare che si arrivasse a scontri, stavo per questo discutendo con il dottor Pensato della Questura di Venezia, quando venendo fuori dal bar – la trattoria da Pesce, che era proprio lì davanti al Petrolchimico – un getto d’acqua, per opera di poliziotti con idranti, ci investe e finiamo di colpo per terra. Proprio ci sbattono per terra! Con gli idranti i poliziotti erano circa a 5 metri. È stato un colpo violento. Allora ho tirato su Pensato, che, poveretto, aveva perso anche gli occhiali, poi là in mezzo ho gridato: «Assassini, delinquenti» ma mi tenevo sempre legato a Pensato («per protezione» dice Giuliano ridendo)... Pensato era il capo della Squadra Mobile di Venezia e vicequestore.... (17. Puppini C., Intervista a Giuliano Ghisini e Alfredo Aiello, Mestre 3 ottobre 1994, dattiloscritto).

Anche dall’intervista a Giosuè Orlando, sulla parte riguardante le imprese di appalto, emerge il ruolo centrale di Ghisini. Del tutto diversa la genesi della vertenza Sava. Al centro della vertenza stava la difesa dell’attività produttiva e dell’occupazione. Gli svizzeri dell’Alusuisse tentarono un blitz, come mi confidò un loro autorevole e altissimo dirigente italiano a metà anni Ottanta. Sapevano almeno dalla metà degli anni Sessanta che non avrebbero più prodotto alluminio primario in Italia. Ritennero, però, di mettere tutti, lavoratori, sindacati, istituzioni, davanti al fatto compiuto. Ma la lotta dei lavoratori della Sava, la capacità di tenuta con oltre 800 ore di sciopero, la sapienza nel costruire un vasto schieramento alleato, che realizzò una possente pressione soprattutto verso il Governo nazionale, impose all’Aulisse, come contropartita alla chiusura, di partecipare alla creazione di due nuove aziende costruite sullo stesso suolo della vecchia Sava di Marghera: la Metallotecnica e la Elemes. Le vicende delle imprese di manutenzione e della Sava, due realtà fisicamente adiacenti, delineano due scenari per molti versi opposti. Da un lato le imprese di appalto con grandi commesse da realizzare e un basso tasso di sindacalizzazione dei lavoratori e l’assenza di una contrattazione sindacale collettiva. Dall’altro lato la Sava, minacciata dalla chiusura contro la quale lottano uniti lavoratori sindacalizzati. Nelle interviste di Brazzolotto e di Coin si delinea lo scenario di una delle vertenze sindacali più intense nella storia delle relazioni industriali a Porto Marghera. Dall’intervista di Coin si coglie, però, la volontà della multinazionale svizzera, maturata dopo quella vertenza, di operare per un rilancio degli stabilimenti del gruppo a Porto Marghera. Ma prima fu indispensabile una lunga e intensa lotta che coinvolse tutta la città, con un presidio in piazza Ferretto a Mestre, attorno a una grande tenda da campeggio, che resterà famosa come la “tenda rossa”, un luogo di riferimento per tutti coloro che vollero solidarizzare con i lavoratori. Alla vertenza delle imprese di appalto metalmeccaniche di Porto Marghera calza perfettamente la riflessione proposta da Ferruccio Gambino guardando a fenomeni similari in altre parti del mondo: «... Il ritornello è noto: si richiede manodopera e arrivano persone. Se la società accumulativa, secondo Adam Smith, esige le mani, essa deve pur sempre lasciar fluire corpi e menti, con le loro storie, i loro costumi, le loro lingue, le loro aspirazioni...» (18 Gambino F., Alcune aporie delle migrazioni internazionali, «Aut Aut», p. 275, 1996).

Obiettivi della vertenza sono: la costruzione di un sindacato aziendale all’interno delle attività produttive, l’acquisizione di diritti per uniformare le condizioni normative a quelle dei dipendenti delle grandi aziende committenti e, infine, la contrattazione e il controllo dell’organizzazione del lavoro, del salario e delle condizioni di vita nei luoghi di lavoro. Da aprile fino al 2 agosto del 1970 la vertenza porta a un progressivo inasprimento nelle relazioni industriali. I circa 10.000 addetti del settore rappresentano una particolarissima realtà nel panorama sindacale veneziano. Si tratta, infatti, di forza lavoro per buona parte molto professionalizzata ma portata, per le condizioni di mobilità, a un rapporto poco disciplinato con l’organizzazione sindacale. Ma le condizioni di relativa stabilità del ruolo degli appalti nell’area chimica – grandi manutenzioni e costruzioni determinano fra questi lavoratori una condizione “unitaria” che li avvicina alla classe operaia della fabbrica tradiziona le, con in più un regime di divisioni e discriminazioni insopportabili. Sono elementi sufficienti a produrre una brusca e conflittuale sindacalizzazione (19 Resini D. (a cura di), Cent’anni a Venezia. La Camera del Lavoro 1892-1992, Il Cardo, Venezia 1992, p. 478).

La vertenza delle imprese di appalto si concluderà dopo oltre 200 ore di sciopero e dopo quella giornata del 2 agosto ricordata nell’intervista di Ghisini, quando i picchetti operai bloccheranno le portinerie della Montedison e le strade, producendo l’isolamento del polo industriale dal territorio circostante, e la polizia, presente massicciamente, “caricherà” gli operai. Gli scontri sono aspri e vedono accorrere anche la popolazione di quella zona estrema di Marghera: Ca’ Emiliani. Subito arrivano anche gli operai della Sava a dare man forte, mentre quelli dell’Italsider, della Chatillon e degli Azotati entrano in sciopero più tardi.

Gli scontri, questa volta, sono durissimi. Chinello e Golinelli, parlamentari, vengono picchiati dagli agenti e uno di questi viene fatto “prigioniero” dopo aver investito un dimostrante e condotto, semisvenuto, dai suoi colleghi. Per tutta risposta un graduato e alcuni agenti estraggono le pistole e sparano numerosi colpi. Due operai saranno feriti, ma poi la polizia viene travolta. A mezzogiorno la “battaglia” è finita. Il giorno dopo interviene l’accordo che non soddisfa le richieste di garanzie occupazionali, ma sancisce il riconoscimento, di fatto, di un’unica condizione contrattuale per questi lavoratori, poi rafforzata anche a livello sindacale con il “Coordinamento imprese”, una sorta di consiglio di fabbrica interaziendale. (20. Resini D. (a cura di), Cent’anni a Venezia. La Camera del Lavoro 1892-1992, Il Cardo, Venezia 1992, p. 479).

La prima vertenza delle imprese si concluderà acquisendo anche miglioramenti salariali. La vertenza Sava ha tutt’altri contenuti: vuole affermare un diritto fondamentale, quello che la Costituzione repubblicana assume programmaticamente, cioè il diritto al lavoro. Nel gennaio del 1971 la direzione aziendale della Sava annuncia la chiusura dello stabilimento di Allumina. A giugno i lavoratori della Sava sono in lotta contro i 270 licenziamenti annunciati dall’azienda, e il giorno 22 dello stesso mese, assieme ai lavoratori della Sava contro i licenziamenti, sciopereranno i metalmeccanici veneziani. Gli scioperi dei lavoratori della Sava continueranno anche dopo l’accordo del mese successivo al Ministero del Lavoro a Roma, che tramuta i licenziamenti in cassa integrazione e consente la chiusura dei primi forni all’Allumina.

La lotta dei lavoratori continuerà ancora a lungo. Si rivendica la continuità produttiva per la fabbrica di Allumina, ma si accentua anche la pressione verso un livello di contrattazione che dovrebbe essere istituito per gli investimenti e la gestione degli assetti produttivi dell’intero territorio. Si cerca, in sostanza, di contrattare “lo sviluppo”, con una logica che di lì a poco sarà codificata nelle piattaforme territoriali (21 Resini D. (a cura di), Cent’anni a Venezia. La Camera del Lavoro 1892-1992, Il Cardo, Venezia 1992, p. 482). L’accordo arriverà nel gennaio del 1972, con la mediazione del Governo nazionale, che “offre” un centinaio di licenziamenti, il blocco del turnover per due anni, la cassa integrazione per 600 lavoratori e un’attività sostitutiva delle Partecipazioni Statali per riassorbirli (22. Resini D. (a cura di), Cent’anni a Venezia. La Camera del Lavoro 1892-1992, Il Cardo, Venezia 1992, p. 483).

La dialettica sindacato-partito

Ancora Giuliano Ghisini dall’intervista di Chiara Puppini:

AIELLO. Poi nel ’70, dopo le imprese inizia la lotta della Sava.

GHISINI. Si era a cavallo tra il ’69 e il ’70. L’Alusuisse, la multinazionale svizzera proprietaria degli stabilimenti Sava, voleva chiudere tutto, sbaraccare e andare via...

AIELLO. Com’era Germano in quella fase?

GHISINI. Allora vediamo Germano. Nel ’70 sono iniziati i lavori di costruzione del Petrolchimico 2. A Marghera gli addetti erano già più di 35.000. Poi avviene questa storia della Sava. L’Alusuisse voleva chiudere la sua attività e qui inizia un ruolo importante di Germano, insieme a Mattiussi, a Vianello... Lui si inserisce nel gruppo del sindacato che apparteneva alla componente comunista. Affermava che noi eravamo allergici al Pci...

PUPPINI. Come mai?

GHISINI. Perché eravamo “allergici” ai dirigenti del Pci? Perché loro volevano comandare. Non c’interessava molto questo loro comandare. Volevano dare ordini e noi dovevamo “fare”. Il Pci, però, tra noi non aveva molto spazio. Noi non eravamo contro il Pci, ma non ci piaceva la concezione del suo gruppo dirigente. E Germano condivideva questo pensiero... assolutamente... loro volevano gestire, ma non capivano un tubo di com e gestir e. (23. Puppini C., Intervista a Giuliano Ghisini e Alfredo Aiello, cit.).

Anche Giosuè Orlando, nella sua intervista, sottolinea come il Pci fosse ancora rimasto alle “commissioni interne” ed era scettico sul nuovo ruolo del sindacato – non più vincolato al rapporto con il partito – che rispondeva direttamente e prima di tutto all’insieme dei lavoratori. Piero Ignazi fa risalire tutto ciò all’idea stessa della costruzione di un grande partito di massa nel periodo post-bellico. Il Pci «adotta una strategia di penetrazione ed egemonizzazione negli organismi di massa unitari – dai sindacati alle cooperative, dal movimento per la pace agli organismi studenteschi... L’organizzazione del Pci è sempre stata fonte di orgoglio all’interno, e di ammirazione mista a timore reverenziale per i partiti concorrenti. Il Pci è stato giustamente definito un sistema organizzativo complesso... con vari livelli organizzativi gerarchicamente ordinati; con strutture di base territoriali e funzionali... Il Pci dispone anche di un’ideologia organizzativa, il “centralismo democratico” di derivazione leniniana. Questa concezione prevede che il processo decisionale proceda dall’alto in basso e che ogni iscritto, dopo aver eventualmente manifestato critiche e proposte solo all’interno degli organi del partito, debba adeguarsi ai deliberati ufficiali» (24 Ignazi P., I partiti italiani, Il Mulino, Bologna 1997, pp. 84-85). Il Pci aspira – per definizione e legittimamente – al potere politico e cioè ad avere la capacità di «controllare in maniera privilegiata i processi della decisione politica; di prendere decisioni normative in nome della società globale; di far applicare queste decisioni, anche con strumenti coercitivi» (25. Melucci A., Sistema politico, partiti e movimenti sociali, Feltrinelli, Milano 1977, p. 73). Legittimamente in quanto un sistema politico è obbligato a selezionare tra molteplici domande che provengono dalla società, addirittura escludendo quelle che «metterebbero in questione il vantaggio strutturale (l’egemonia) degli interessi dominanti» (26. Melucci A., Sistema politico, partiti e movimenti sociali, Feltrinelli, Milano 1977, p. 73). Il modello organizzativo che Ignazi ha richiamato è indispensabile per un’organizzazione come il Pci? Si può rispondere che è stato un modello organizzativo utile ed efficace durante il periodo del fascismo per gestire la condizione di clandestinità innanzitutto del suo gruppo dirigente. Chiedersi, però, quali effetti provochi in una società che vede lo sviluppo e l’estensione della democrazia e con essa la democrazia politica, è lecito e utile. «Il compito degli attori politici, e principalmente dei partiti, è proprio quello di intervenire nel processo decisionale rendendo “trattabili” le domande che essi rappresentano, cioè proponendo soluzioni... di una domanda che si forma al di fuori del sistema, e di cui i partiti devono tener conto» (27. Melucci A., Sistema politico, partiti e movimenti sociali, Feltrinelli, Milano 1977, p. 78). Questa competizione tra domande si sviluppa tra i partiti e nei singoli partiti. Con quali “armi”? Trattare questo argomento richiede uno spazio non disponibile in questa sede. Citerò comunque, a questo riguardo e a titolo di esempio, un’esperienza diretta nel Pci.

Anno 1982. Giuliano Ghisini era il segretario della Cgil veneziana, nei fatti il sindacalista comunista nella posizione gerarchica più elevata. Erano cambiati da qualche anno i dirigenti dei sindacati di categoria e anche il segretario della Federazione del Pci veneziano: Cesare De Piccoli aveva sostituito Enrico Marrucci. Fui convocato, come altri, dalla Commissione Federale di Controllo, una sorta di tribunale interno al partito. Non ne conoscevo i motivi. Mi fu chiesto se avessi mai sentito a proposito di Ghisini e di De Piccoli di loro presunti rapporti non leciti con qualche padrone. Mi si chiedeva, insomma, se Ghisini e De Piccoli avessero preso dei soldi e per quale motivo. (Ricordo che si parlava di dentisti dell’allora Iugoslavia che avrebbero fatto interventi odontoiatrici sui due imputati e che la parcella sarebbe stata pagata da qualcun altro). Non conoscevo molto De Piccoli, ma conoscevo Ghisini dal 1975, un compagno formatosi nel sindacato nell’immediato dopoguerra, che proveniva dalla provincia di Ferrara, autorevole e molto stimato dagli attivisti sindacali anche di Cisl e Uil. Devo dire che avevo già sentito chiacchiere di questo tipo, ma mai su Ghisini e sul segretario del partito. Soprattutto non avevo mai saputo di un intervento diretto della Commissione Federale di Controllo del Pci in una vicenda simile. Risposi che mi sembrava una grande sciocchezza e, ingenuamente, chiesi chi diceva queste cose e se era in grado di dimostrarle. Non ebbi risposta. Capivo che era in corso un’azione calunniosa ma non riuscivo a comprenderne la finalità. Mi fu tutto più chiaro qualche mese dopo, quando Ghisini mi chiamò per mostrarmi una lettera sottoscritta da un cospicuo gruppo di segretari generali dei sindacati veneziani di categoria nella quale si chiedeva, alla componente comunista e al Pci, di «aprire una fase di rinnovamento nella segreteria della Cgil veneziana». Si chiedeva un intervento diretto del Pci. Allora era normale e da tutti accettato che le nomine dei comunisti sia nel sindacato che nel partito, come nelle cariche istituzionali, fossero discusse da tutti coloro che avevano una funzione dirigente fino a quando Bruno Trentin non sciolse, negli anni Novanta, la componente comunista ( 28. Trentin B., Convegno dei dirigenti Cgil della componente “Unità sindacale, Ariccia, 18-19 ottobre 1990). Quella iniziativa della Commissione Federale di Controllo, in cui non si capiva chi aveva accusato, di cosa e con quali prove, che si era rivelata poi una bolla di sapone, aveva finito per aprire una fase di delegittimazione di una figura spesso additata come troppo favorevole a un sindacato autonomo e unitario e capace di iniziative di rilievo (vedi la costruzione della Vertenza Venezia e soprattutto la battaglia della Sava). Ghisini fu sostituito e mandato per dodici mesi in Cgil regionale e poi in pensione. De Piccoli restò al suo posto. Fu, per quello che ricordo, l’inizio della conclusione di una fase di dialettica politica molto forte tra sindacato e partito.