Kitabı oku: «Viaggi di Ali Bey el-Abbassi in Africa ed in Asia, v. 2», sayfa 4
CAPITOLO XVIII
Descrizione d'Ouschda. – Difficoltà per proseguire il viaggio. – Detenzione per ordine del Sultano. – Partenza da Ouschda. – Avventure del deserto. – Arrivo a Laraïsck e sua descrizione. – Partenza dall'impero di Marocco.
Ouschda, villaggio che contiene cinquecento abitanti all'incirca, è come gli altri luoghi popolati che trovai al di qua dell'Alcassaba di Temessouin, nel deserto d'Angad.
Le case fatte di terra, sono piccole, e così basse che a pena vi si può stare in piedi. Sono inoltre così succide, e piene d'insetti, ch'io preferj di rimanere sotto la tenda nell'Alcassaba che è assai grande e posto a canto del villaggio: passeggiai alcun tempo entro un piccolo ma grazioso orto di sua pertinenza.
Un'abbondantissima fonte che scaturisce mezza lega al di là d'Ouschda somministra un'eccellente acqua, ed inaffia gli orti del villaggio. Offrono questi una bella verdura e varie specie d'alberi fruttiferi, tra i quali il fico, l'ulivo, la vite, la palma, tengono il primo rango. Il paese produce pure deliziosi popponi, e carni d'una squisita qualità; nè può immaginarsi quanto sia delicato il montone del deserto. Questi animali sono lunghi, magri, hanno poca lana, e vivono in un paese ove trovano appena di che vivere; ma la loro carne è forse la migliore del mondo.
Sia nel villaggio, sia ne' contorni trovansi pochi polli, e nessun selvaggiume; ma abbondano le carni, il riso, la farina, i legumi.
L'esatte osservazioni astronomiche da me fatte collocano Ouschda nella longitudine orientale dall'osservatorio di Parigi di 4° 8′ 0″; e nella latitudine settentrionale di 34° 40′ 54″. In una latitudine così elevata il clima dovrebb'essere poco diverso da quello d'Europa, ma il deserto che la circonda ne riscalda l'aria a dismisura. Vi ebbimo non pertanto alcuni giorni abbastanza freschi nel mese di giugno, totalmente coperti, ed anche piovosi.
Osservai ad Ouschda un'eclissi della luna. Avrei dovuto fare alcune altre osservazioni, ma sgraziatamente non mi furono dalle circostanze permesse, perchè io doveva tutto sagrificare all'oggetto principale del mio viaggio.
Quando arrivai, il capo ed i principali del villaggio mi avevano dichiarato ch'io non potrei proseguire il viaggio, perchè in questo stesso giorno avevano avuto avviso della rivoluzione manifestatasi nel regno d'Algeri, e che a Tlèmsen, o Tremecèn dov'ero io diretto scorreva il sangue Turco ed Arabo.
Dopo molti discorsi, e dopo avere maturamente riflettuto, mi determinai di spedire un corriere, che al suo ritorno mi portò la notizia, che i torbidi nati in Tlèmsen erano sedati, ma che la strada era infestata dai ribelli che rubbavano ed assassinavano. Chiesi all'istante una scorta al capo del villaggio, il quale mi rispose non aver forze bastanti, ma che cercherebbe ad ogni modo di assecondare il mio desiderio.
Avanti che passassero due giorni il capo ed i principali d'Ouschda fecero venire il Schèk el Boanani che è il capo di una vicina tribù, e gli proposero di scortarmi a Tlèmsen. In sulle prime il Schek non vi acconsentì, e dopo avere lungamente discusso l'affare, partì senza nulla decidere.
Erano già scorsi più giorni in trattative inutili; ed intanto i rivoltosi erano venuti fino sotto le mura d'Ouschda, tirando alcuni colpi di fucile che uccisero due uomini. La mia situazione diventava sempre più difficile, perchè da una parte si esaurivano tutti i miei mezzi di sussistenza, e dall'altra io non ignoravo che i miei nemici di Marocco, che avevano saputo rendere sospetto al Sultano il mio lungo soggiorno di Fez, non ommetterebbero di approfittare di questa circostanza per calunniarmi: risolsi quindi di montar solo a cavallo per andare in traccia di Boanani, che aveva il suo dovar alla foce delle montagne, due leghe distante da Ouschda.
A tale notizia le mie genti si sbigottirono, fuorchè due rinnegati Spagnuoli, che mi seguirono da Fez, e che in questa difficile circostanza mi si presentarono, dicendomi; «Signore se voi ce lo permettete noi vi seguiremo, e divideremo la vostra sorte». Fissai loro gli occhi in volto, e conoscendoli coraggiosi, gli ordinai di prendere le armi affinchè uno mi tenesse compagnia, e l'altro rimanesse coi miei equipaggi.
M'incamminai per sortire accompagnato da uno schiavo fedele detto Salem, e dal mio rinnegato, ma trovai chiusa la porta delle mura, e circa quaranta o cinquanta de' principali abitanti determinati di vietarmene l'uscita.
Io li scongiurai di lasciarmi sortire; ma mi risposero tutti ad un tratto, alcuni colle ragioni, altri colle grida. Io instai, essi resistettero. Finalmente rivolgendomi al capo, presi una delle pistole appese all'arcione della mia sella, e con un tuono tra l'amichevole, ed il minaccioso, gli dissi: «Schek Solimano, noi abbiamo cominciato bene, ma credo che la voglia finir male. Aprite la porta.» Allora Schek Solimano aprì la porta, dicendo agli altri: «poichè egli vuol perire, lasciatelo andare.»
Sortj seguito dal mio schiavo e dal rinnegato, e presi la strada delle montagne di Boanani. Poco dopo la mia partenza vidi avanzarsi a briglia sciolta gli stessi abitanti, che venivano per scortarmi: mi s'avvicinarono scusandosi della loro opposizione, che non aveva avuto altro scopo, dicevan essi, che il loro attaccamento alla mia persona, ed il timore di qualche sventura.
Fummo assai ben accolti da Boanani. Si diede premura d'invitarci a pranzo, e ci trattò lautamente, ma trovava sempre mille ostacoli per condurmi solo a Tlemsen. Finalmente vinto dalle mie persuasioni e da quelle di Schek Solimano che in quest'occasione mi servì assai bene, convenne di accordarsi con il Schek d'un'altra tribù chiamata Benisnouz. Quest'ultimo doveva aspettarmi colla sua gente a mezza strada per scortarmi fino a Tlemsen, ed il Boanani incaricavasi di condurmi fino a lui.
Due giorni dopo Boanani venne a dirmi di star pronto per partire all'indomani. Giunse infatti con circa cento uomini, e sortimmo subito da Ouschda. Quando eravamo solamente distanti una mezza lega ci vennero dietro a briglia sciolta due soldati del Sultano, gridando di fermarmi. Erano seguiti da un corpo di truppa comandato da un ufficiale superiore della guardia chiamato El Kaïd Dlaïmì. Egli mi disse che il Sultano avendo saputo ch'io era ritenuto ad Ouschda l'aveva spedito per proteggermi, e per difendermi in caso di bisogno.
Gli risposi che la rivoluzione d'Algeri e di Tlèmsen, ed il brigandaggio de' rivoltosi essendo le sole cagioni della mia dimora ad Ouschda, io potevo proseguire senza pericolo il viaggio, perchè il pericolo era passato, tanto più che mi trovavo scortato dalle tribù dei boananis e dei benisnouz.
Malgrado le mie rappresentanze Dlaïmi mi disse, che in vista dell'attuale stato di cose, egli non poteva accondiscendere alla mia partenza finchè non ricevesse nuovi ordini dal Sultano. Fui perciò costretto di tornare ad Ouschda, e di scrivere al Sultano. Questi appena ricevuta la mia lettera, mi spedì due altri ufficiali di scorta con ordine di condurmi, dicevano essi, a Tanger, ove potermi imbarcare per il Levante. Tale disposizione Sovrana mi forzò a sortire d'Ouschda con tutta la mia gente ed i miei equipaggi il giorno 3 agosto alle nove ore della sera. Ero accompagnato dai due ufficiali, e da trenta oudaïas, o guardie del corpo del Sultano. Io lasciai ad Ouschda il Kaïd Dlaïnci, ed il rimanente della sua truppa.
Partj così tardi a cagione che Dlaïnci aveva ricevuto avviso che quattrocento Arabi armati aspettavanmi sulla strada. Fui però obbligato di lasciare la città segretamente, e senza sapere quale direzione dovessi tenere fino all'istante della partenza, in cui Dlaïnci l'indicò ai miei conduttori. Lasciando da banda il cammino frequentato, attraversammo i campi verso il S. entrando assai avanti nel deserto. La notte era assai tenebrosa, ed il cielo tutto coperto.
Domenica 4 agosto
Dopo aver camminato celeremente tutta la notte, e sormontate delle montagne, arrivai alle sei del mattino presso le rovine d'un grande Alcassaba, a' piedi del quale trovammo una sorgente d'acqua ed un grande dovar.
Si continuò a camminare senza prendere riposo, a seconda dell'andamento di molte tortuose vallate, in fondo alle quali scorreva un fiume che quantunque piccolo, non riusciva meno utile per l'inaffiamento de' loro poderi ai laboriosi abitanti di molti dovar.
In conseguenza di un ordine che avevano i due ufficiali che mi accompagnavano, da ogni dovar sortivano uno o due Arabi montati ed equipaggiati, che s'incorporavano alle persone del mio seguito. Arrivato verso le nove del mattino al luogo in cui terminava il piccolo fiume i trenta oudaïas si congedarono da me, lasciandomi la scorta degli Arabi armati sotto il comando dei due ufficiali.
Nell'istante che le guardie del Sultano si ritiravano, diedi alcune monete d'oro ad uno degli ufficiali per gratificare i soldati, e continuai il cammino; ma ben tosto avendo udito qualche rumore in sul di dietro, volsi il capo, e vidi gli oudaïas rivoltati contro i loro capi, minacciare di massacrarli. Contemporaneamente giunsero due di loro a briglia sciolta per riclamare, supponendo che gli ufficiali avessero ricevuto parte del danaro loro destinato. Accorsi verso questa truppa, cui mi affrettai di far abbassare le armi. Ottenni di rimandarli tranquilli, e di persuaderli. Durante questa rissa che ci tenne alquanto inquieti per le tristi conseguenze che poteva avere, niuno pensò a provvedersi d'acqua; pure incominciavamo ad averne bisogno, e sgraziatamente io non sapevo che questo era l'ultimo luogo in cui poteva trovarsene.
Si camminava sempre con celerità temendo l'incontro dei quattrocento Arabi, dai quali procuravamo di allontanarsi. Per tale cagione si avanzava a traverso al deserto, invece di tenere la strada. Questo paese è affatto privo di acqua, non vi si trova un albero, non una rupe isolata che possa offrire la più piccola difesa contro i raggi d'un sole infuocato. Una atmosfera perfettamente trasparente, un sole immenso che ferisce il capo, un terreno bianchiccio, e d'ordinario di forma concava come uno specchio ardente, un legger vento che abbrucia come la fiamma; tale è il fedele ritratto dei deserti che noi attraversammo.
Ogni uomo incontrato in questa solitudine viene risguardato come un nemico. Perciò avendo i miei tredici Beduini veduto, verso il mezzogiorno, un uomo armato a cavallo, che tenevasi ad una considerabile distanza, riunironsi all'istante, e partirono come un lampo per sorprenderlo, mettendo acute grida, interrotte soltanto da motti di disprezzo e d'irrisione: Che vai tu cercando fratel mio? Ove ten vai mio figliuolo? ec., ed in pari tempo facevansi scherzando passare il fucile sopra la testa. Il Bedovino trovandosi scoperto approfittò del suo vantaggio, e fuggì nelle montagne, ove non lo raggiunsero. Fu questo il solo uomo da noi incontrato.
Intanto e gli uomini e gli animali non avevano quasi nulla mangiato nè bevuto questo giorno, e dalle nove di jeri sera avevano sempre camminato senza prendere riposo. All'un'ora dopo mezzogiorno non avevamo più una gocciola d'acqua, e le mie genti, e le loro cavalcature, incominciavano a mostrarsi abbattute dalla fatica. Ad ogni passo i muli cadevano col loro carico; e bisognava rilevarli, e sostenere il carico che portavano. Questo penoso esercizio consumò le poche forze che ci rimanevano.
Alle due ore dopo mezzogiorno un uomo cadde irrigidito come un morto spossato dalla fatica e dalla sete. Io mi fermai con tre o quattro de' miei domestici per soccorrerlo. Si spremette il poco umido che rimaneva in un otre, e si ottenne d'introdurre poche gocciole d'acqua nella sua bocca, ma così debole soccorso non produsse verun effetto. Io stesso incominciavo a provare certa quale debolezza, che accrescendosi a dismisura mi presagiva la prossima perdita delle mie forze. Abbandonai quello sventurato, e rimontai a cavallo.
Intanto andavano successivamente cadendo altre persone del mio seguito, e rimanevano sul terreno abbandonate alla sventurata loro sorte, perchè la carovana si era già dispersa, salvisi chi può salvarsi. Furono pure abbandonati i muli col loro carico, e vidi due grandi miei bauli in terra, senza che potessi sapere cosa fosse accaduto alle bestie che li portavano, giacchè non eravi più alcuno che si prendesse cura de' miei effetti. Ma io vedevo queste perdite coll'indifferenza medesima che avrei veduto cose di niuno valore, e passai oltre. Sentivo tremarmi sotto il cavallo, comecchè fosse il più robusto della carovana. Tutti camminavamo abbattuti e senza parlare, nè guardarsi in volto: e quando io mi provavo d'incoraggiare qualcuno ad affrettare il passo, in luogo di rispondermi mi guardava fissamente, e portava l'indice verso la bocca, per indicarmi la sete che lo struggeva. Volli rimproverare agli ufficiali condottieri la poca cura che avevano avuto di provvederci d'acqua; ed essi ne incolpavano l'ammutinamento degli oudaïas; e soggiungevano, forse non soffriamo noi pure come gli altri? La nostra sorte era tanto più spaventosa in quanto che nessuno di noi credeva mai di poter sostenersi fino al luogo in cui troverebbesi dell'acqua. Finalmente verso le quattro ore della sera caddi ancor io spossato dalla fatica e dalla sete.
Steso al suolo, senza sentimenti, in mezzo ad un deserto, circondato da quattro o cinque uomini solamente, uno de' quali era caduto quando caddi ancor io, e gli altri tutti incapaci di soccorrermi perchè non sapevano ove trovare acqua, e perchè altronde non avrebbero avuto forza bastante per andarne in traccia, sarei indubitatamente perito in quello stesso luogo coi miei domestici, se un miracolo della Provvidenza non ci salvava.
Era già passata mezz'ora da che mi trovavo in quello stato, secondo mi venne dopo riferito, quando si scoperse a molta distanza una grossa carovana di più di due mille persone che s'avvanzava verso di noi. Era questa diretta da un marabotto, o santo, chiamato Sidi Alarbi, che recavasi a Tlésmen, ossia Tremegen, per ordine del Sultano. Vedendoci in così disperata situazione, s'affrettò di far versare sopra ciascuno di noi alcuni otri d'acqua.
Poichè me n'ebbero gettato a varie riprese sul volto e sulle mani, incominciai a rinvenire; aprj gli occhi, e guardando da ogni lato non potevo conoscere alcuno. Finalmente vidi sette od otto Scheriffi, e Fakihs, che standomi intorno, mi parlavano amichevolmente. Volevo rispondere, ma un nodo insuperabile nella gola non permettevami di articolare una parola, e dovetti supplirvi coi segni, indicando la mia bocca colle dita.
Si continuò a spruzzarmi d'acqua il viso, le braccia, le mani, e finalmente potei inghiottirne a diverse riprese alcuni sorsi. Allora potei pronunciare: chi siete voi? Tosto che mi udirono parlare, mi risposero con allegrezza. Non temete nulla; lungi dall'essere ladri o briganti, siamo anzi vostri amici: io sono un tale ec. Allora mi risovenni della loro fisonomia senza potermi però ricordare i loro nomi. Mi fu nuovamente gettata addosso dell'acqua, ed in maggiore quantità che le altre volte; bevetti ancora: e quando videro che incominciavo a rimettermi, riempirono una parte de' miei otri d'acqua, e mi lasciarono all'istante, perchè preziosi erano tutti i momenti che perdevano in questo luogo, ed irreparabile la perdita.
Quest'attacco della sete si manifesta su tutta la superficie del corpo con una somma aridità della pelle; gli occhi pajono sanguigni, la lingua e la bocca, sì internamente che al di fuori si ricuoprono d'un tartaro della densità di una linea: questa crosta è d'un giallo fosco, insipida al palato, e d'una consistenza perfettamente uguale alla cera molle d'un favo di miele. Una spossatezza, un certo languore impediscono il movimento; e l'angoscia, ed una specie di nodo nel diafragma e nella gola impediscono la respirazione; cadono dagli occhi alcune grosse lagrime isolale; si cade a terra, ed in pochi istanti si perdono i sensi. Tali sono i sintomi ch'io notai sugli sventurati compagni del mio viaggio, e che poco dopo provai in me stesso.
Montai a cavallo con molta difficoltà, e si riprese l'interrotto cammino. I miei Bedovini, ed il mio fedele Salem erano ognuno dal suo lato in traccia d'acqua, due ore dopo tornarono l'un dopo l'altro con un poco d'acqua buona o cattiva. Siccome ognuno arrivava frettoloso per porgermi ciò che aveva ritrovato, dovetti beverne, e bevetti più di venti volte: ma sì tosto ch'io avevo inghiottito un poco d'acqua, la mia bocca tornava ad essere arsa come avanti di bagnarla; di modo che io non potevo nè sputare nè parlare.
Alle sette ore della sera facemmo alto presso ad un dovar e ad un ruscello dopo una marcia sforzata di ventidue ore consecutive, senza un momento di riposo.
Le mie genti ed i miei equipaggi arrivarono la notte a diverse riprese. Io non perdei quasi nulla perchè la carovana di Sidi Alarbi avendo successivamente incontrati i miei equipaggi ed i miei domestici, soccorse e salvò colla sua acqua gli uomini e gli animali.
Se non giugneva questa carovana noi tutti perivamo infallibilmente, perchè l'acqua portata dai Bedovini e da Salem sarebbe giunta troppo tardi: la respirazione e le funzioni vitali andavano già mancando, ed io credo che non sarebbesi durato altre due ore in così violento stato senza perire. Allorchè io penso che questa grande carovana erasi allontanata dalla strada ordinaria dietro la falsa notizia che vi erano due o tre mille uomini disposti ad attaccarla, (non erano poi che i quattrocento Arabi che mi aspettavano) che quest'errore fu la cagione della mia salute, io, confesso il vero, non posso stancarmi d'ammirare e benedire la Provvidenza.
Adesso comprendo facilmente come lo sgraziato maggiore Houghtton può essere perito nel deserto in conseguenza di una circostanza simile alla mia, senza che vi abbia avuto parte la perfidia di coloro, che lo accompagnavano.
La maggior parte del suolo del deserto è di pura argilla, ad eccezione d'un breve tratto di terreno calcareo, la superficie è coperta da uno strato di ciottoli calcarei bianchi, rotolati, liberi, grossi come il pugno, quasi tutti eguali, aventi la superficie bucherata come fossero pezzi di vecchio calcinaccio, lo che mi persuade a ritenerli come un prodotto vulcanico. Questo strato è steso con sì perfetta eguaglianza, che non lascia assolutamente verun punto discoperto, e rende il cammino assai faticoso.
Non vedesi in questo deserto veruna specie d'animali, quadrupedi, od uccelli, rettili od insetti; l'occhio vi cerca invano una pianta, e l'uomo non si vede altro d'intorno che il silenzio e la morte. Soltanto verso le quattr'ore della sera si poterono distinguere a qualche distanza alcune piccole piante abbrucciate, ed un albero spinoso senza fiori e senza frutti. Io avevo raccolte nel deserto due pietre, un pezzo d'argilla, e due pezzi di minerale: ma tutto andò perduto.
In questa orribile calamità i miei muli ed i miei cavalli non solamente perdettero i ferri, ma rimasero quasi tutti storpiati.
Lunedì 5
Erano le sette del mattino quando si riprese la strada a traverso lo stesso deserto, e facendo un giro al S., ed al S. O.
Il terreno è lo stesso di quello di jeri. Alle undici ore del mattino si scese una lunga costiera, dopo di che ci trovammo nella provincia di Schaonia, e sulla sponda diritta del fiume Enzà. Sull'opposta riva vedevasi una sola casa ove abitava Schek Schaoui, o capo della provincia. Poi che si ebbe tre volte attraversato il fiume, ci accampammo a mezzogiorno sulla riva sinistra presso ad un dovar, e ad un mercato. Le mie genti avevano l'immaginazione ancora così calda del passato pericolo, e gli animali risentivansi in modo delle fatiche dell'antecedente giorno, che gli uni e gli altri appena veduto il fiume, corsero a gettarvisi dentro all'istante, gli uomini vestiti com'erano, e gli animali coi loro carichi; onde vi abbisognò molto tempo, pena e travaglio per farneli sortire.
Io fui tormentato dalla febbre tutto il giorno, effetto, non v'ha dubbio del sofferto disastro.
Assai ben coltivate erano le sponde dell'Enzà; e vi trovammo in abbondanza pastinache, popponi, uve, che furono da noi risguardate come un dono del cielo nello stato d'irritamento in cui trovavasi il nostro sangue.
Schek Schaoui, la di cui provincia parvemi assai ricca, era assente, ma suo fratello venne a trovarmi, e mi mandò a regalare molte provvisioni.
Martedì 6
Alle sei ore del mattino si levò il campo dirigendoci all'O. nelle montagne, e dopo mezzogiorno soltanto scendemmo nella grande pianura, ove camminando a N.O. si passò verso le quattr'ore della sera il gran fiume Moulouia: al di là del quale feci far alto presso ad un dovar.
Le montagne attraversate questo giorno non sono sterili come le precedenti; vi si trovano di quando in quando piccoli fiumi e terreni coltivati. La pianura è quel medesimo deserto, ch'io avevo attraversato precedentemente andando verso Ouschda.
Io continuavo ad essere assai indisposto, e temevo di qualche più serio attacco.
Mercoledì 7
La mia carovana prese il già descritto cammino, che ci condusse all'alcassaba di Temessouinn.
Giovedì 8
Proseguendo la stessa strada giunsimo presso alla città di Tezza.
Venerdì 9
Questo giorno non si levò il campo; ed io entrai in città per assistere alla pubblica preghiera del venerdì.
Tezza è la più gentile città che io vedessi nell'impero di Marocco; la sola ove l'occhio non è rattristato dalla vista delle ruine: le strade sono belle, le case dipinte. La principale moschea è grande assai, ben fatta, ed ornata d'un vago vestibolo. Sonovi varj mercati ben provveduti, molte botteghe, orti assai fertili, acque eccellenti, l'aria purissima: vi si trovano buoni cibi, ed a prezzi assai moderati, ed in grande abbondanza; e gli abitanti mi sembrarono assai risvegliati. Questi vantaggi riuniti mi fanno preferire Tezza a tutte le città dell'impero, non escluse Fez e Marocco.
Trovavasi accampato presso alle nostre tende un corpo di truppe comandate da un pascià, che mi fece rendere gli onori dovuti al mio rango, e mi mandò alcune provvisioni. Eravi con lui Muley Moussa fratello dell'imperatore di Marocco; cui la mia indisposizione non mi permise di visitare.
Più accurate osservazioni delle prime mi diedero la latitudine di Tezza a 34° 9′ 32″; lo che dimostra l'errore in cui ero caduto la prima volta. Soltanto la longitudine fu esatta.
Deviando dalla nostra pratica si riprese il viaggio alle nove della sera, dirigendoci al S. O. Dopo aver passato il fiume Tezza, e fatte molte sinuosità in mezzo alle montagne, si passarono altri fiumi.
Sabbato 10
Dopo avere camminato tutta la notte passammo in sul far del giorno un altro fiume che va verso l'E. Attraversando un paese sempre montuoso, mi volsi all'O., ed alle otto del mattino feci far alto presso ad un dovar. Ero allora nella provincia di Hiàïna.
Si riponemmo in via ad un'ora dopo mezzogiorno volgendoci all'O., ed al S. O. fino alle cinque della sera; ed allora feci piantare le tende presso ad un dovar, patria di uno degli ufficiali che mi accompagnavano.
Domenica 11
I buoni abitanti di questo dovar mi pregarono di così buona grazia a rimanere un giorno con loro, che non mi vi potei rifiutare. Nulla essi ommisero di tutto ciò che poteva riuscirmi dilettevole, onde testificarmi la loro gratitudine e rendermi meno nojosa la dimora. Io non mi dolevo di questa circostanza, che mi diede agio di riposarmi dopo tante fatiche sofferte.
Lunedì 12
Dato ch'ebbi un addio a questi buoni Arabi, mi posi in cammino alle sei ore, facendo molti giri entro le montagne. Erano le nove ore quando scendemmo per passare il Levèn fiume assai vasto che va al S. O. Si costeggiò la sua sponda destra per lo spazio di due ore in un luogo piano, dopo il quale si tornò a salire sulle montagne. Ad un'ora dopo mezzogiorno si fece alto presso ad un dovar.
A poca distanza dal mio campo trovansi alcune ricche saline; di là scoprivansi una serie di sei o sette montagne isolate in forma di pani di zuccaro; il di cui colore rosso mi fece sospettare che siano interamente metalliche.
Martedì 13
Alle sei ore del mattino si proseguì il viaggio tra le montagne fino alle due dopo mezzogiorno, che si pose il campo presso ad un grosso dovar.
Tutto il paese ch'io avevo attraversato apparteneva alla provincia di Hiaïna.
Il suolo è composto di montagne rotonde di argilla glutinosa come quelle di Tetovan. Sono esse naturalmente sterili; ma gli abitanti sono laboriosi, e vedonsi quasi tutte le colline coperte di panicum ossia di quel miglio; che s'avvicina al mais, e costituisce la base della loro sussistenza. Era allora maturo, e tutti i poderi venivano custoditi da alcuni uomini che avevano cura d'allontanarne gli uccelli con continue grida.
Tranne i fiumi di cui si è parlato, gli abitanti della provincia di Hiaïna non hanno che acqua dei piccoli pozzi che scavano sul pendio delle montagne: le acque di quasi tutti questi pozzi hanno un cattivo gusto sono salate, sulfuree, o minerali. Vedonsi alcuni burroni, e letti di torrenti coperti di uno strato bianco di sale. È probabile che questo paese abbondi di minerali; senza che gli abitanti abbiano il più leggero sospetto dei tesori su cui passeggiano. In molti luoghi gli strati metallici si manifestano di sotto all'argilla che li ricopre; ed alcune roccie perpendicolari, quasi affatto composte di sostanze metalliche, s'alzano qua e là in mezzo alla pianura come torri isolate.
Gli abitanti dediti all'agricoltura abbondano di granaglie, ma non hanno alberi, e non coltivano che pochissimi erbaggi, o frutta. Le loro case fatte di terra, e coperte di tralci sono assai piccole, ed abitate soltanto nell'inverno; perchè durante la bella stagione stanno sotto le tende come gli altri Arabi.
Mercoledì 14
Alle sei ore del mattino ci ponemmo in viaggio facendo mille ravvolgimenti tra montagne assai alte e sparse di dovar. Era ormai mezzogiorno allorchè scendemmo in sul piano. Dopo avere traversata la Wérga fiume assai largo che scorre all'O., costeggiammo la sua sponda destra nella stessa direzione fino alle tre della sera; ed in allora piantaronsi le tende presso a due dovar.
La tribù che abita questi e molti altri dovar vicini chiamasi Vlèd-Aaïza, o figlia di Gesù; ed è assai numerosa.
Giovedì 15
Alle sei ore tutti eravamo pronti a porsi in cammino prendendo la direzione di N. O. Entrammo alle otto nel distretto di Wazéin, e poc'appresso vidi al N. la montagna su cui è posta la città; che si lasciò alla dritta, continuando la strada fino alle tre ore della sera, che si alzarono le tende presso a molti dovar.
Il distretto di Wazéin è composto di vaste pianure chiuse all'E. da alte montagne. In mezzo alle pianure alzasi una grande montagna vasta affatto isolata, a metà del di cui declivio è posta la città di Wazéin; che chiamasi la forte, ma che non è cinta di mura come le altre città dell'impero. Colà dimora il celebre Santo Sidi Ali Benhamet di cui si parlò poco sopra. Padrone della città e del distretto, egli vive quasi affatto indipendente.
Io non vidi mai altrove un paese più bello, più popoloso, e meglio alimentato, nè più belle messi. Onde convien credere che la Divina grazia protegga in particolar modo questi abitanti. Il paese è tutto sparso di grandi dovar disposti affatto diversamente da tutti gli altri: qui le tende sono poste in linea retta, e negli altri luoghi in cerchio.
In tutta l'estensione del piano non vedesi un albero; e non vi si trova che l'acqua di alcune piccole sorgenti.
Il mio campo trovavasi distante dalla montagna di Wazéin all'O. Dalle osservazioni astronomiche ebbi il risultato di 6° 55′ 0″ di longitudine orientale, e di 34° 42′ 29″ di latitudine.
Notai ne' due ufficiali condottieri una cert'aria misteriosa, e segni di connivenza; pure continuavano a trattarmi con profondo rispetto; ed io non potevo dir loro alcuna cosa, nè manco concepire verun dubbio sui loro segreti abboccamenti. Le tribù stazionate sul mio passaggio venivano a rendermi tutti gli onori, ed a offrirmi i doni di viveri e di foraggi; ed io continuavo a far uso del parasole; ero in somma sempre trattato come un figlio o fratello del Sultano. Questo stato di cose potev'egli durare? Ecco ciò che vedremo tra poco.
Venerdì 16
Si riprese in cammino verso le sei del mattino dirigendoci all'O. in mezzo a piccole montagne, ed un'ora dopo la nostra partenza essendo arrivati sulla strada da Fez a Tanger, ci volgemmo direttamente al N. fino alle tre ore della sera, ed allora ordinai di spiegare le tende tra i giardini situati al N. della città d'Alcassar.
Feci una cattiva osservazione intorno alla longitudine; ma non mi riuscì d'afferrare il passaggio d'alcuna stella, nè meno quello della luna in su lo spontar del giorno, per causa di alcune grosse nubi che ingombravano l'emisfero.
Sabbato 17 Agosto
In questo giorno finalmente cadde il velo che copriva il misterioso contegno de' miei ufficiali; allorchè mi annunciarono che dovevasi andare a Laraïsch, o Larache, e non già a Tanger, ov'essi avevano prima detto di andare. Questo procedere spiacquemi assaissimo, ma dopo avervi riflettuto, mi lasciai condurre, essendomi affatto indifferente l'andare in uno, o in altro luogo.
In conseguenza di ciò alle sei ore del mattino si riprese la strada all'O.; ed un'ora dopo si piegò al N. o al N. O. Entrammo in un bosco di lecci assai alti abbondante di felci, del quale non uscimmo che a mezzogiorno dopo aver fatti molti giri. Finalmente si passò un fiume, ed un'ora dopo mezzogiorno giungemmo a Larache.
Laroïsch che i Cristiani dimandano Larache è una piccola città di circa quattrocento case, poste sul pendio settentrionale d'una ripida collina, di dove le case si prolungano fino sulla riva del fiume, la di cui imboccatura serve di baja alle grandi navi. I bastimenti che non oltrepassano la portata di duecento tonnellate possono entrare nel fiume, ma sono costretti di scaricarsi onde passare la barra.
Larache abbonda di moschee, la principale delle quali è pregevole per la sua architettura. Vi si trova un grande mercato, circondato da portici sostenuti da piccole colonne di sasso; ed è il più bel mercato ch'io vedessi nell'impero di Marocco. Fu fabbricato dai Cristiani, ugualmente che le principali fortificazioni. La città appartenne agli Spagnuoli, ai quali fu tolta da Muley Ismaïl.