Kitabı oku: «Storia dei musulmani di Sicilia, vol. I», sayfa 27
Dal quale scritto ognun vede che l'autore non isfuggì ai difetti letterarii del tempo; le troppe fronde, le declamazioni su luoghi comuni, lo sforzo a simular di fuori il calor d'affetti che mancava nell'animo. Pietro, detto Siculo dalla patria, fuggito come tanti altri nella guerra musulmana, andò a cercare fortuna nei monasteri di Costantinopoli. Basilio Macedone, verso l'ottocento settanta, il mandò a trattare il riscatto dei prigioni a Tefrica, città tra Cesarea e Trebisonda, tra l'Eufrate e il Mar Nero, la quale oggi s'appella corrottamente Divriki; allor era sede principale dei Pauliciani. Questo nome avea preso una setta che stranamente innestava alla semplicità della primitiva Chiesa cristiana, il dualismo dei Manichei: setta allignata in Armenia e altre province dell'Asia Minore; la quale, dopo varie vicende di persecuzione, poco mancò che non fosse sterminata alla ristorazione delle Immagini. Le soldatesche mandate allor da Teodora contro i Pauliciani, vantaronsi di centomila vittime uccise tra col ferro, il fuoco e gli annegamenti; ma gli avanzi del popolo proscritto disperatamente presero le armi; elessero condottieri; collegaronsi coi Musulmani: e in trent'anni di guerre si vendicarono con usura; sì infesti e ridottati nelle finitime provincie dell'impero, che Basilio Macedone esitò ad assalirli. Indi l'ambasceria di Pietro Siculo; il quale non piegò alla pace que' fieri ribelli, ma riebbe da loro i prigioni; scoprì una pratica loro coi Bulgari; ed or disputando coi dottori eretici, or confabulando con gli ortodossi che trovava qua e là, in nove mesi che soggiornò a Tefrica, raccolse i materiali di una storia di quella eresia; e la scrisse tantosto, e la dedicò al novello arcivescovo dei Bulgari. Lucidamente spiegovvi i sei punti principali di quella eresia; la origine, la trasformazione delle credenze; ritrasse con critica, ordinò, espose non senz'arte i fatti materiali nati da quegli errori di metafisica: la persecuzione, la ribellione, le guerre. Potrebbe dirsi storia superiore a que' tempi, se non vi si notassero i vizii di forma accennati di sopra, e quel ch'è peggio mille volte, la corruzione del senso morale; la compiacenza teologica con che si narrano i supplizii dei Pauliciani; la irrisione delle vittime.934 Pietro, fatto vescovo dopo questa missione, morì, com'e' pare, verso l'ottocento novanta.
Una leggenda tratta dai menologi greci, ma non favolosa al certo, riferisce alla stessa epoca il martirio di quattro Siciliani per nome Giovanni, Andrea Pietro e Antonio; dei quali Andrea e i due ultimi eran padre e figliuoli. Fatti schiavi alla espugnazione di Siracusa; condotti in Affrica al feroce Ibrahîm-ibn-Ahmed, questi educava i due giovanetti nelle discipline musulmane; e, vedendoli capaci e costumati, li adoperava in oficii pubblici: Antonio collettor di tasse;935 Pietro tesoriere; il che non è inverosimile. Ma poichè essi serbavano in cuore la fede dei padri loro, il caso o qualche nemico li scoprì. Ibrahim li dannò a morte come apostati: onde furono imprigionati; lacerati a battiture; spezzate loro le ossa; sconciamente mutilati con tanaglie roventi. Il tiranno, tra cotesti supplizii, fa condurre il padre e gli tronca il capo egli stesso. Tratto poi Andrea dal carcere ov'era invecchiato, gli pianta una lancia in petto; e come quegli levava gli occhi al cielo rendendo grazie del martirio, lo finì con un altro colpo e gli spiccò anche il capo. Così fatti particolari, che in altro caso renderebbero assai sospetta la narrazione, la confermano trattandosi d'Ibrahîm. Il suo nome, quel di Basilio principe contemporaneo, la espugnazione di Siracusa, che son citati nella leggenda, tutti le aggiungon fede.936
Di assai maggior momento nella storia i casi di Giovanni Rachetta, detto Sant'Elia il giovane, del quale già abbiam fatto menzione. Nacque di nobil gente a Castrogiovanni, l'anno ottocento ventotto o ventinove;937 essendo fanciullo di otto anni, i Cartaginesi, dice la leggenda, irruppero nella città: il qual tempo risponde in vero alla occupazione dei sobborghi di Castrogiovanni (837). I genitori, col fanciullo e l'avanzo di loro facoltà, si rifuggirono in un Castel di Santa Maria; e vissero tranquilli, finchè una notte parve a Giovanni udir voce del Cielo che gli annunziasse cattività e missione di confortare nella fede cristiana i conservi suoi. A dodici anni, segnalandosi già nello studio delle sacre lettere, ed esercitandosi assiduamente nella preghiera, gli si cominciò a squarciare dinanzi agli occhi il velo del futuro: predisse come i nemici farebbero impeto nel castello; come il tale e il tal altro sarebbero uccisi. Ciò sembra raccontato dal Santo, provetto negli anni e professante ormai apertamente la profezia. Forse non era bugia del tutto: forse egli stesso avea creduto, e in parte credea, vedere con altri sensi che i mortali. La immaginativa sua nudrita di spavento dei Musulmani, di terrori religiosi, di calamità sovrastanti e continua intervenzione del Cielo, creò un fantasma, e le parve mandato da Dio; presentì, e le parve ispirazione; e avveratosi talvolta il presentimento, ciò parve irrefragabil prova dell'intuizione profetica. Avventuratosi ai vaticinii, il giovine non potea smettere; fatto uomo maturo li vedea tornare utili a sè medesimo e ad altrui; alle anime e ai corpi; alla Chiesa e allo impero: e mille esempii gli permetteano d'inorpellare la verità a buon fine, senza interesse; poichè agli uomini non pare interesse privato la vanagloria.
Ciò detto, potrò seguire fil filo la leggenda. Gli abitatori del Castel di Santa Maria, sbigottiti alle parole del fanciullo, traevano a lui; ed egli a riprendere i vizii, a raccomandare penitenza e carità, e che secondo il vangelo si gettasse al foco il tristo legno. Ond'altri meravigliava di tanta saviezza; ma gli stolti e la feccia della plebe voltavan le spalle, dice amaramente il biografo: e parmi naturale che i poveri non abbiano mostrato punto di zelo a difendere un ordine sociale sì iniquo. Il virtuoso giovanetto incontrò tra i primi le calamità che presagiva. Uscito a diporto dal castello, imbattevasi in una torma di cavalli musulmani; era preso; venduto a un cristiano, forse trafficante di tal merce; e imbarcato sopra un legno musulmano, con altri dugento venti schiavi. Navigando alla volta d'Affrica, liberolli un dromone greco uscito di Siracusa; e Giovanni, che avea predetto anche ciò, fu reso ai parenti. Perdè il padre dopo tre anni. Mentre lo agitavano sentimenti contrarii, la pietà della madre e la brama di peregrinare ad esaltazione della fede, il decreto divino si compì. Fatto prigione in più fiera scorreria dei nemici, fu comperato anco da un cristiano; menato in Affrica; e venduto ad un altro cristiano, ricco mercatante di cuoia; il quale, preso del bello aspetto, modestia e integrità del giovane, gli affidò il maneggio della casa sua.
Lasceremo indietro un episodio tolto di peso dalla storia di Giuseppe il Giusto; non sapendo se pur vi sia di vero, vera usanza, dico, delle cittadine cristiane d'Affrica, Sicilia o Calabria in quel tempo, il rosso e il bianco938 di che si liscia il volto, il ferro939 con che s'arriccia i capelli la moglie del mercatante, ostinata a sedurre Giovanni. Chiaritosi innocente, ei si ricomperò coi frutti del proprio lavoro, ch'è tra i modi di emancipazione già notati secondo legge musulmana; i quali necessariamente veniano in uso tra i vassalli cristiani. Poscia salì in fama appo Cristiani e Musulmani al paro, per miracolose guarigioni di ferite e morbi: il che da molti secoli a questa parte è intervenuto e interviene tuttavia in Oriente a chiunque abbia una tintura di medicina, o almeno astuzia e baldanza. Dell'arte sua, qual che si fosse, il santo usò a far proseliti, credo io, in Egitto. Donde accusato dai barbassori musulmani o piuttosto dal clero giacobita,940 corse pericoli: ma il governatore della provincia lo fe' uscir di prigione; ed egli non guari dopo se n'andò a Gerusalemme. Quivi il patriarca lo onorava; gli dava l'abito monastico e con quello il nome di Elia. Soggiornò tre anni in Gerusalemme; visitò il Giordano, il Taborre, il Sinai; venne ad Alessandria, o forse Alessandretta; e accingeasi a passare in Persia; ma le turbolenze nate in quel paese lo costrinsero a sostare ad Antiochia.
La voce divina che gli solea parlare ne' sogni, al dir della leggenda, lo visitò di nuovo in Antiochia, confortandolo a tornare in patria. Fu voce di coscienza in un animo generoso che sapea voltata la fortuna contro i Musulmani in Occidente; ovvero consiglio di qualche agente bizantino; o dello stesso patriarca di Gerusalemme che solea parteggiare per la corte di Roma, intesa allora a riconciliarsi con Basilio Macedone. Elia, vissuto mezzo in Sicilia e mezzo in paesi musulmani, ardente di zelo per la religione, ricordevole dei parenti, e, perchè no? anco della patria, era proprio il caso, nell'apostolato politico che dovea accompagnare le armi di Basilio in Sicilia. Narrammo già941 com'Elia tornasse nell'isola l'ottocento ottanta a riveder la madre; osservare le forze dei Musulmani; incoraggiare il popolo; ed esortare alla battaglia i capitani bizantini. Cammin facendo, avea con breve e dotto parlare942 convertito parecchi Infedeli. Dopo lo sbarco di Nasar presso Palermo, il frate siciliano passava da Reggio o da Palermo a Taormina,943 dove dimorato pochi giorni prese seco un giovane di onesta famiglia, cui diè l'abito monastico e il nome di Daniele; e presagita la sconfitta del capitano Barsamio, navigava alla volta del Peloponneso. Il biografo ci narra tuttavia frequentissimi prodigii operati da Elia, e che, ciò non ostante, egli e Daniele, verso l'ottocento ottantuno944 erano tenuti spie a Botranto; imprigionati da un Epinio governatore; e che, liberati per la morte del ribaldo, si proponeano di andare a Roma; ma vietato loro quel viaggio, sostavano a Corfù, albergati e onorati dal vescovo; e infine veniano a fondare un romitaggio nella valle delle Saline, tra il Capo dell'Armi e Pentidattolo in Calabria, a rimpetto di Taormina. Coteste vicende, come altrove il notai, non s'adattano al mero apostolato religioso; e par che Elia da una mano conducesse pratiche contro i Musulmani di Sicilia; dall'altra parteggiasse coi frati che non si acquetavano alla ristorazione di Fozio sul seggio patriarcale, sopratutto dopo la morte di Giovanni Ottavo (882). Elia mandò ad effetto il viaggio di Roma al tempo di Stefano Quinto (885-891), dopo alquanti anni passati in Calabria spargendo odore di santità con guarigioni; vaticinii di scorrerie dei Musulmani; comandare ai venti e alla pioggia; far miracoli anche per ischerzo; e sempre cattar favore nel popolo; costringere a riverenza i grandi. Ritornato ch'ei fu da Roma, predisse ai Reggini il prossimo saccheggio della città (888); e ritrattosi opportunamente a Patrasso, si mostrò di nuovo a Reggio, quando seppe partiti i nemici; e indi tornò al suo romitaggio: ma per fuggire l'aura popolare, come dice il biografo, o piuttosto il pericoloso soggiorno in su lo Stretto di Messina, andò a fondare un monastero in altro luogo, credo io, in un monte tra Seminara e Palmi, detto di Sant'Elia, ov'è tuttavia una chiesa. Viaggiando spesso nella estrema Calabria, esortava per ogni luogo i fedeli a lasciare il vino, le lascivie, le risse, se voleano preservarsi dalle calamità di quella guerra. Gli esempii d'Epaminonda e di Scipione ch'ei talvolta frammetteva ai suoi ammonimenti, mostrano che tenesse la riforma dei costumi non solo come rimedio teologico, ma sì diretto e temporale. Aggiugne la biografia, nè stentiamo a crederlo, che un Michele capitano d'armata in Calabria, ristorata la disciplina tra i suoi per consiglio di Elia, riportasse vittoria in uno scontro; lieve combattimento, non ricordato nelle cronache.
Io ho voluto sì minutamente raccontare i casi d'Elia da Castrogiovanni, perchè parmi modello dello zelo religioso, solo raggio di virtù che rimaneva in Sicilia. Il genio della schiatta vinta si raffigura tanto meglio in questo frate cittadino, quanto la vita sua durò dai primi assalti dei Musulmani sino al compimento materiale del conquisto, la espugnazione, cioè, di Taormina. Com'ei vi andasse, con che parole e teatrali atteggiamenti avvertisse i cittadini del fato che loro sovrastava, il diremo nel libro terzo, trattando di quella guerra. D'altronde Elia, o il biografo, non imaginarono nulla di nuovo in questo incontro, in cui il santo, al solito, se ne fuggì avanti che arrivassero i nemici. Andò ad Amalfi; tornò in Calabria; operò altri miracoli; favorì un Colombo audace ribelle; lasciò morire il capitano imperiale che gli negava la impunità di Colombo; e la impetrò egli stesso da Leone il Sapiente, a prezzo d'andare a visitare l'imperatore a Costantinopoli. Leone, come ognun sa, avea deposto di nuovo Fozio per far cosa grata a Roma; blandiva e ingrassava il clero per tenersi più tranquillamente la bella Zoe; e il biografo ci afferma che avesse già richiesto il taumaturgo siciliano di pregare per lo Impero, al quale effetto quegli s'era portato a Taormina. Adesso, entrato in nave per soddisfare la novella promessa a Leone, presentì in viaggio che morrebbe di corto; e andò a spirare in un monastero presso Tessalonica, il diciassette agosto945 novecento quattro; comandando che si rendesse il suo corpo al monastero di Calabria, come fu fatto; e aggiuntovi ricchi doni e poderi dal religiosissimo imperatore, dice il biografo. Secondo costui Elia s'appressava agli ottant'anni, il che risponde alla cronologia dei fatti storici che si citano. Convengono altresì a quella età decrepita la eccessiva collera e i capricci che si notano negli ultimi fatti della sua vita.946
Ma i frati contemporanei di Elia, la più parte, preferivano all'attività e ai rischi una sterile pietà. Tra loro si ricorda un San Leoluca da Corleone, non educato, dice la leggenda, nè alla guerra nè all'oziosa filosofia; il quale, stanco di pascolare gli armenti nei campi paterni, andava a tosarsi i capelli nel monistero di San Filippo d'Argira; ove ammonito da un vecchio frate delle calamità che sovrastavano alla Sicilia, non le aspettò. Peregrino e mendico fuggissi a Roma; poi fondò un monistero in Calabria: si straziò in cento balzane penitenze ed oficii servili, e morì, dicono gli agiografi, nei primi anni del decimo secolo. Ma l'origine della leggenda è sospetta; e l'autore, facendo menzione di due fughe di Leoluca, alla venuta dei Vandali e poi dei Saraceni, non s'accorse del miracolo grandissimo che fabbricava.947
Taccio di Santa Oliva palermitana, confinata dai parenti a Tunis; dannata a morire tra i tormenti; uscita fresca dall'olio bollente, intatta dal foco; uccisa alfine con la spada da Pagani, Vandali o Musulmani, non si sa: leggenda sì assurda da non meritare esame.948 Dello stesso conio parmi quella di Santa Venera da Gala, ricusante di andare a marito; e uccisa, per dispetto, dai fratelli pagani.949 Nondimeno il dotto gesuita autor della raccolta, non volendo lasciar fuori cotesti nomi sì popolari in Sicilia, e trovando troppo pochi santi nell'epoca musulmana, destramente vi allogò le due donzelle. Così arrivò a noverare una diecina di martiri canonizzati, compresovi San Procopio vescovo di Taormina; la eroica morte del quale è attestata da memorie genuine, e la narreremo nel seguente libro, insieme con lo eccidio di quella città.
Percorse le biografie che abbiamo esposto, e ricercando qual maniera di civiltà avanzasse nella Sicilia cristiana del nono secolo, si troverà la sola religione; e poi si scoprirà che l'era pianta parasita che ingombrava l'albero, gli toglieva i succhi vitali, e invece di quello germogliava. Dell'incivilimento risguarderem solo i due aspetti primarii; cioè la coltura dello intelletto e il legame morale della società. Nel primo aspetto si vede che gli studii ecclesiastici, ristorati nell'isola da San Gregorio, caduti a poco a poco, risorti nella lotta contro gli Iconoclasti, produceano, ultimi frutti, le prediche di Teofane Cerameo, i versi di San Giuseppe Innografo e di Sergio, gli scritti di Teodosio monaco950 e di Pietro Siculo, la cultura onde si armava in sua vendetta Gregorio Asbesta, ed aiutavano alla ristorazione delle lettere nella capitale dell'Impero: ma niun laico s'incontra nella lista; nessuno studio profano. Il legame morale, massimo scopo della religione come pensavano i nostri padri latini, si vede rilasciato e inefficace. Inefficace nei costumi, nei quali si scopre sfrenamento delle passioni brutali e bacchettoneria, che per lo più vanno insieme. Inefficace nei rapporti politici, poichè la più parte della Sicilia spensieratamente piegava il collo ai Musulmani. Io non ho detto che sola causa di tanto infiacchimento fosse stata la religione, o quella che si tenea religione nel basso impero; ma affermo sì che la religione poco o nulla giovò a mantenere lo Stato di cui era solo elemento vitale. E veramente, nelle cronache e leggende dei primi tempi della guerra non v'ha vestigio di difesa nella quale avessero partecipato virilmente i ministri della religione; anzi veggiamo che i santi si affrettavano a fuggire dall'isola. Aiutò solo il sentimento religioso, quando le popolazioni disperate si sollevarono per altre cagioni; quando l'impero bizantino rinvigorito mandò eserciti; quando un nodo di popolazione, respirata l'aria della libertà, prese a mantenerla da sè stesso: e in questi eventi i preti e i frati ebber sempre parte secondaria; non surse tra loro un Pier l'Eremita nè un Savonarola. Di tali uomini non nacquero giammai nella società bizantina; la quale per ogni luogo traea sua vecchiezza tra i vizii che testè abbiamo notato nella popolazione cristiana di Sicilia al nono secolo, e che vedemmo in tutta l'isola nei tempi anteriori al conquisto. Qual fosse stata nel medesimo tempo la società musulmana nell'isola, mi ingegnerò a ritrarlo nel Capitolo primo del seguente libro.