Kitabı oku: «Storia dei musulmani di Sicilia, vol. II», sayfa 2
Ordinato per tal modo che la entrata principale si applicasse al principale bisogno dello Stato, poco rimanea per le altre spese, che pur cresceano con lo incivilimento e con gli sforzi dei principi tendenti al potere assoluto. Più che in niun'altra parte di governo, apparisce nell'azienda il radical difetto della teocrazia musulmana. Il Corano avea provveduto appena al bilancio, com'oggi si dice, d'un misero governo di tribù. Per soddisfare alle spese d'uno impero, convenne dunque cercare entrate fuor dalla legge; come fu appunto il kharâg statuito da Omar; e, quando nè anco bastò, forza fu di trapassare e legge e consuetudine. I giuristi allora, che si arrogavano il potere legislativo mediante le interpretazioni, si messero a tirar coi denti qualche capitolo del Corano e della Sunna per adattarlo ai bisogni attuali, o sostennero che non v'era modo. I principi posero balzelli a dispetto della legge e degli interpreti; e rasparon danaro qua e là, su la quinta del bottino, su la zekât, sul fei: su le quali entrate eran certi i dritti dello Stato, milizie, parenti del Profeta e indigenti, ma incerte le quote. Tolsero dal kharâg gli stipendii degli oficiali civili, oltre quei delle milizie; serbaronsi quel che lor piacea dei beni demaniali o ne concedettero a favoriti; talvolta consumarono il pan dei poveri, cioè la zekât e la quinta, in opere di utilità pubblica e di vanità pubblica e di vanità monarchica. Da ciò nacquero frequenti contrasti tra i principi e i giureconsulti; contrasti senza uscita legale, e però nocevolissimi: nè mai la finanza musulmana fu regolata da unico e vasto pensiero, nè adattata ai tempi, nè rassodata dal dritto.75 In Sicilia i balzelli arbitrarii par che cominciassero nel decimo secolo, forse un poco avanti, sotto il regno di Ibrahim-ibn-Ahmed. Fin allora la quinta, e il fei, abbondanti per cagion della guerra, e la decima, bastavano ai bisogni della colonia militare, non obbligata a mandar danaro in Affrica.76
Dopo gli ordinamenti è da ricercare quali generazioni d'uomini fossero venute a stanziare in Sicilia, sotto il nome di Musulmani. Scarseggiando così fatte notizie appo i cronisti, sarà uopo aiutarci coi nomi topografici relativi a schiatte o analoghi a quei d'altri paesi musulmani. Cotesta via d'induzione non ripugna alla sana critica; poichè i popoli musulmani, come tutti altri, usarono ripetere nelle colonie i nomi della madre patria; e fu tanto, che appo loro si compilò un dizionario apposta di omonimie geografiche.77 Nondimeno la medesimità del nome può nascere talvolta da analogia di condizioni locali, verbigrazia Casr-el-Hamma, il “Castel dei Bagni,” che se ne trovava in Sicilia, in Affrica e altrove; o può venire da epoche più remote, da somiglianza casuale dei vocaboli, da altra origine ignota a noi: per esempio, in Sicilia stessa Segesta e Mazara, i quali nomi rispondono al Segestân, provincia della Persia, e a Mazar, villaggio del Loristân anco in Persia.78 Sendo notissime nell'antichità quelle due città siciliane, la identità dei nomi porterebbe per avventura a confermare la origine orientale dei Sicani, e non sarebbe cagion di errore quanto ai tempi musulmani. Ma l'esempio ci ammonisce vieppiù a stare guardinghi, e ricusare gli indizii di questa fatta che non trovino riscontro nelle vicende istoriche.
La diversità di schiatte della colonia siciliana è attestata da Teodosio monaco con parole enfatiche e pur veraci, là dov'ei sclama adunarsi in Palermo la genía saracenica dei quattro punti cardinali del mondo:79 chè dovea trasecolare il prigion di Siracusa, passando dalla monotonia d'un capoluogo di provincia bizantina, al tumulto della crescente capitale: coloni e mercatanti viaggiatori; e, misti ai Siciliani, ai Greci, ai Longobardi, a' Giudei, Arabi, Berberi, Persiani, Tartari, Negri; chi avvolto in lunghe vesti e turbanti, chi in pellicce e chi mezzo ignudo; facce ovali, squadrate, tonde, d'ogni carnagione e profilo; barba e capelli varii di colore e di giacitura; ragunati insieme i sembianti, le fogge, le lingue, i portamenti, i costumi di tanti popoli abitatori dell'impero musulmano. I nomi di tribù ricordati nel Libro precedente, mostrano tra i coloni ambo le schiatte di Kahtân e Adnân e sopratutto la seconda.80 Scendendo alle divisioni nate dopo l'islamismo, si ritrae che, oltre gli Arabi d'Affrica, ve n'ebbe di Spagna;81 fors'anco di Siria, Egitto e Mesopotamia.82 V'ebbe al certo la progenie dei Khorassaniti e altri Persiani passati in Affrica nello ottavo secolo; e non fu di poco momento, vedendosi primeggiare tra i Musulmani di Palermo, nelle guerre d'independenza del decimo secolo, un Rakamuwêih, nome persiano, e la potentissima famiglia dei Beni-Taberi, oriunda del Taberistân; oltrechè nel territorio di Palermo trovansi i nomi topografici di Ain-Scindi,83 Balharâ,84 e Ságana;85 e, un po' più discosto, quei di Menzîl-Sindi e Gebel-Sindi,86 i quali tutti van riferiti alle schiatte dello estremo oriente. I nomi dei luoghi, al par che gli avvenimenti storici, mostrano che gli Arabi, e altri popoli di Levante, tenessero le parti settentrionali del Val di Mazara, nel quale, come il dicemmo, erano ristrette le colonie musulmane nel nono secolo. Palermo, fatta capitale dell'isola, era lor sede principale; e par che lungo la costiera quelle popolazioni si estendessero, verso ponente, infino a Trapani.
La schiatta berbera, com'è noto, accompagnò gli Arabi nel conquisto di Sicilia; sendone venute alcune tribù nell'esercito di Ased-ibn-Forât, altre col berbero spagnuolo Asbagh-ibn-Wekil, altre senza dubbio nelle varie espedizioni che successero, ed alla spicciolata. Fu parte non piccola della colonia; poichè potè sostenere lunga guerra civile contro gli Arabi. Occupò le regioni meridionali del Val di Mazara. E veramente tra una dozzina di nomi berberi, su la origine dei quali non cade alcun dubbio, la più parte si trova in quella regione, nel tratto che corre da Mazara a Licata.87 Girgenti, guerreggiante spesso contro Palermo e sempre rivale, era senza dubbio la città più importante, e come la capitale dei Berberi.
La moltiplicità delle schiatte invelenì al certo molte querele private; si mescolò forse alle altre cagioni d'ira negli scambii degli emiri; ma non potea produrre tante fazioni, quante nazioni. Inoltre la progenie di Kahtân sembra pochissima in Sicilia innanzi i Kelbiti, che vennero nel decimo secolo. I Persiani par che dimenticassero la rivalità loro contro gli Arabi, già mitigata dal tempo in Affrica. Lo stesso avvenne agli altri sminuzzoli di schiatte orientali, troppo deboli per far parte dassè, interessati tutti a stringersi intorno gli Arabi di Adnân per soverchiare i Berberi.
Arabi e Berberi dunque: ecco la profonda, insanabile divisione della colonia siciliana. Tra gli uni e gli altri non era divario di condizione legale. Mentre in Affrica molte tribù berbere pagavano tuttavia il kharâg e rimanean prive degli stipendii militari, per essere state sottomesse con la forza, in Sicilia le due genti, venute insieme a combatter la guerra sacra, vantavano uguale dritto ai premii della vittoria. Se non che, in fatto, gli emiri dell'esercito siciliano nascean di sangue arabico, al par che i principi aghlabiti; di sangue arabico o persiano i dottori, gli ottimati, la più parte dei cavalieri del giund; nè poteano smettere in Sicilia l'orgoglio e cupidigia da nobili; nè dimenticare la maggioranza della schiatta loro in Affrica. I Berberi poi non si tenean da meno di loro: conscii del proprio numero, valore, dritti d'islamismo e dritti di natura. Un moderno e sagace osservatore, il generale Daumas, notando il divario ch'è tra le istituzioni sociali degli Arabi e dei Berberi, e trattando particolarmente dei Berberi della Kabilia Grande, come chiaman la regione tra Dellys, Aumale, Setif e Bugia, ben ha dipinto quella nazione col motto di “Svizzera salvatica.” Cantoni e villaggi, al dir suo, fanno unità politiche; rannodansi tra loro per leghe più o meno durevoli: repubblichette democratiche, ove ognuno ha voce in consiglio; i magistrati elettivi, di breve durata e poca autorità; case nobili preposte sovente alle leghe, per ambito o riputazione, non per dritto; e, più che ai magistrati o ai nobili, si obbedisce ai marabuti, frateria che molto somiglia al monachismo del medio evo: la gemâ' rende ragione in materia criminale, non secondo il Corano ma con le antiche consuetudini del paese: l'omicida dichiarato fuor della legge; per gli altri delitti, pene pecuniarie, e non mai staffilate come appo gli Arabi. Pensa il lodato autore ch'abbian ordini analoghi le altre popolazioni berbere dell'Algeria;88 ed io aggiugnerei che, si eccettuino le tribù nomadi e alcuni periodi in cui tribù agricole, o leghe, si son governate a monarchia, e del resto si tengano le consuetudini di civile uguaglianza come osservate in tutta la schiatta berbera fin da tempi remotissimi.89 Dopo il conquisto musulmano ne danno indizio quella generale inclinazione dei Berberi alle sètte kharegite; e lo spirito d'independenza della tribù di Kotâma a fronte dei califi fatemiti;90 e i magistrati della medesima tribù e di Zenâta nell'undecimo secolo, analoghi a quelli di cui parla il generale Daumas ai dì nostri:91 che se talvolta sursero in quel popolo principi o dittatori, si ricordi tali usurpazioni avvenir più agevolmente negli Stati democratici che sotto l'aristocrazia. Da ciò si può conchiudere che le popolazioni berbere passate in Sicilia, e non soggette a principi loro, poichè ubbidivano agli aghlabiti, fossero informate dal genio d'uguaglianza che le dovea vieppiù alienare dagli Arabi, e rendere intolleranti dei signorili soprusi di quelli. Le inclinazioni economiche divideano alsì l'una dall'altra gente: gli Arabi oziosi, i Berberi industri; gli uni pastori di vassalli, poichè lor n'eran caduti in mano in vece di cameli e pecore; gli altri sempre agricoltori. Doveano dunque i primi bramar che si lasciassero le terre ai vinti siciliani; i secondi che le si dividessero. E bastava sol questa, se fosse mancata ogni altra cagione, a suscitar la guerra civile!
Dal detto fin qui si comprende la origine dei due movimenti diversi, che cominciarono ad agitare la colonia di Sicilia, entro mezzo secolo dalla fondazione sua. L'uno era sforzo della colonia a governarsi dassè; e risolveasi in contrasti tra la nobiltà palermitana e i principi aghlabiti, per la elezione dell'emiro. Appartenendo all'emiro quella piena autorità che abbiam detto, e non potendo cadere in mente del principe, nè dei coloni, nè dì niun Musulmano, di riformare la legge; ciascuna delle due parti cercava a por mano alla esecuzione: fare esercitare l'oficio di emiro da uom suo, e a comodo suo. Racchiudeasi in cotesta contesa quella di finanza: se la colonia dovesse pagar tributo o no; poichè il principe non avea ragione, che nei sopravanzi, e all'emiro stava di trovarne o non trovarne. Indi il principe eleggea lo emiro, e i coloni lo scacciavano; o costoro coglieano un pretesto di nominarlo, e il principe lo rimovea; nè potea durar la quiete.
L'altro movimento era la lotta tra gli Arabi e i Berberi. Oltre il partaggio delle terre al quale accennammo, oltre le vendette private che degeneravano in vendette di tribù, nacque verso la fine del nono secolo una causa perenne di lite. A misura che compieasi il conquisto dell'isola, mancava il bottino e cresceva il fei, o vogliam dire rendita militare. Per caso intervenne al medesimo tempo che le armi della dinastia macedone sforzassero a uscir di Calabria i Musulmani, Berberi in gran parte, come cel mostrano i nomi dei capi. I Berberi dunque delle tribù più turbolente, quei che non amavano a vivere di agricoltura, doveano procacciar lo stipendio sul fei. Ma questo non si scompartiva, come il bottino, con legge immutabile e precisa, tra tutti i combattenti; anzi stava ad arbitrio tra dell'emiro e del principe; e gli Arabi potean pretendere che ne fossero esclusi gli stranieri, toccando a loro il primo luogo nei ruoli. Niun cronista fa motto di tal contesa; ma la non potea non accadere; e ce ne conferma il fatto che la Sicilia fu insanguinata per la prima volta in guerra civile pochi mesi dopo il ritorno delle masnade che Niceforo Foca scacciò dalle Calabrie.92
Quei due movimenti si frastagliavan sovente, e il secondo cadde in acconcio al principe aghlabita che volle davvero soggiogare la colonia. Ricapitolando i fatti che narrammo nel Libro secondo, si scorge la lotta d'independenza principiata proprio alla fondazione della colonia palermitana; sopita da savii emiri di sangue aghlabita; ridesta verso l'ottocento sessantuno, come n'è indizio il frequente scambio degli emiri. Quel valoroso e nobilissimo Khafâgia, ucciso a tradimento da un Berbero, sembra cadesse vittima dell'altra discordia; se pur Arabi e Berberi non s'erano uniti per brev'ora contro le usurpazioni del poter centrale. Così fatta resistenza durava nei principii del regno d'Ibrahim-ibn-Ahmed, come il provano gli scambii degli emiri verso l'ottocento settantuno. Poi entrambe le divisioni divampano al medesimo tempo. Tra l'autunno dell'ottocento ottantasei e la primavera dell'ottantasette, gli Arabi del giund e i Berberi vengono al sangue: la nimistà loro, se non la aperta guerra civile, arde tuttavia per dieci anni, sì che viene a dettare lo scandaloso patto di torsi a vicenda dall'una e dall'altra gente gli statichi da consegnarsi ai Cristiani (894-895). Nello stesso decennio la tenzone della colonia col principe arriva agli estremi: ribellione armata da una parte; dall'altra, repressione con le armi e fors'anco violazione della legge fondamentale che affidava all'emiro il governo della colonia. Perocchè il popolo di Palermo, mentre guerreggia la prima fiata contro i Berberi (886-887), mette ai ferri e caccia in Affrica lo emir Sewâda e gli dà lo scambio; tre anni appresso (890) combatton Siciliani contro Affricani, che è a dire contro le forze mandate dal principe; a capo di due anni un emiro rientra per forza in Palermo; e corsi pochi mesi, nel dugento ottanta dell'egira (893-894), l'emirato di Sicilia è conferito al gran ciambellano che stava accanto a Ibrahim, cioè la colonia è oppressa e spogliata di sue franchige, ovvero ha scosso il giogo; e di certo par che l'abbia scosso tra il novantacinque e il novantasei quando è fermata pace coi Cristiani.93 Si scorge in cotesti travagli il doppio effetto della condizione politica dei popoli e delle passioni d'un uomo. La condizione dei Berberi rispetto agli Arabi, e della colonia rispetto alla madre patria, avea dato principio alle due tenzoni. Ibrahim-ibn-Ahmed le spinse al segno a che arrivarono negli ultimi anni del nono secolo. Per domar meglio la colonia di Palermo, aizzò i Berberi di Girgenti. Volle domar la colonia, perchè a questo il portava sua natura esorbitante e feroce; e per trarne danaro e adoperarlo all'altro disegno, d'abbattere e calpestare l'aristocrazia arabica in Affrica; il che ei fece sì bene, che distrusse la base della dinastia aghlabita, onde questa entro pochi anni crollò.
CAPITOLO II
Ibrahim-ibn-Ahmed non solamente avviluppò in questa guisa la condizione politica della colonia, e poi sciolse il nodo con orribile catastrofe, ma, non sazio di quel sangue musulmano, venne ei medesimo in Sicilia a sterminare gli ultimi avanzi de' Cristiani; prosegui la vittoria in Calabria; e minacciava tutta la terraferma d'Italia, quand'ei morì com'Alarico sotto le mura di Cosenza. Pertanto debbo dir di costui più particolarmente che non abbia fatto degli altri principi affricani. Il voglio anche perchè l'indole d'Ibrahim, sembra fenomeno unico nella storia morale dell'uomo, nè si può definir con parole, nè delinear con qualche tratto. Unico fenomeno parve a quei che il videro da presso; i quali, facendosi a spiegarlo e non trovandovi modo con la psicologia del Corano, ebbero ricorso alle teorie dei materialisti che già penetravano appo gli Arabi, miste alla filosofia greca; supposer quest'uomo invasato di non so che bile negra: malinconia, come la chiama tecnicamente Ibn-Rakîk.94
“Niun dee misfare fuorchè il principe. La ragione di questo è che, ove gli ottimati e i ricchi si sentan possenti nei beni della fortuna, uom non vivrà sicuro dalla loro insolenza e malvagità. Se il re cessi di calcarli, ecco che si fidano; gli resistono; gli traman contro! In vero il succo vitale del principato è la plebe.95 Il signor che lasciassela opprimere, perderebbe l'utile ch'ei ne ricava; ed altri sel godrebbe, rimanendo a lui il sol danno.”96 Così parlava Ibrahim-ibn-Ahmed, vantandosi di abbattere la nobiltà arabica dell'Affrica: teorie e gergo molto ovvii, che rivelan sempre il tiranno di buona scuola. Sagacissimo fu veramente Ibrahim nelle cose di stato; uom di mente vasta e savia, quando non l'offuscava la sete del sangue. Ebbe genio alieno dalle scienze, dalle lettere e dalla poesia, ch'erano state in onore appo i suoi maggiori: e qualche versaccio ch'ei fece, come nato e cresciuto in una corte arabica, somiglia forte a quelli di Carlo d'Angiò, per la insipidezza e l'arroganza.97 In fatto di religione si mostrò osservatore del culto, più che delle pratiche di devozione; si ridea della morale quando non gli andava a' versi; ma era sopratutto intollerantissimo verso gli altri. Visse senz'amore, nè amicizia. Seguì voluttadi nella prima gioventù, e presto gli vennero a tedio; e allora incrudelì nelle donne più rabidamente che negli uomini; e le abborrì di strano e sospetto abborrimento. Violava in tutti i modi le leggi della natura.
A venticinque anni salì al trono per uno spergiuro. Mohammed, suo fratello, venendo a morte, lasciava il regno al proprio figliuolo bambino; commettea la tutela a Ibrahim; faceagli far sacramento di non attentar mai ai dritti del nipote, nè metter piè nel Castel Vecchio, ove quegli dovea soggiornare con la corte. E Ibrahim, nella moschea cattedrale del Kairewân, dinanzi gli adunati capi di famiglie di sangue aghlabita e i magistrati e notabili della capitale, giurollo solennemente; ripetè cinquanta fiate il tenor del giuramento, com'era usanza nelle cause criminali. Sepolto il fratello (febbraio 875), cominciò a regger lo Stato, ben diverso da lui, con somma forza e giustizia. Indi i cittadini del Kairewân a pregarlo di prendere a dirittura il regno: il che ricusò, pretestando suoi cinquanta giuramenti; e di lì a poco, noi sappiam come si fa, i buoni borghesi tornarono a supplicare più fervorosi, e Ibrahim non seppe dir no. Uscito di Kairewân alla testa del popolo in arme, occupava il Castel Vecchio; si facea gridar principe; e prestare omaggio di fedeltà dai notabili d'Affrica e da non pochi di casa d'Aghlab. Con tutta la bruttura dello spergiuro e della commedia che servì a ricoprirlo, Ibrahim non va chiamato usurpatore. Il dritto di primogenitura non era allignato mai appo gli Arabi; la designazione del principe antecessore, era abuso; la investitura del califo, ormai vana cerimonia; e il popolo, che potea deporre ed eleggere, partecipò alla tumultuaria esaltazione non sforzato, forse mezzo raggirato e mezzo no. Gli umori delle città contro l'aristocrazia militare, ci persuadono che la cittadinanza abbia francamente parteggiato per Ibrahim.
Severi, ma di rigor salutare, i primordii del regno. Trattando sempre dassè le faccende pubbliche, Ibrahim cessò i soprusi degli oficiali e governatori di province: rendea ragione ogni lunedì e venerdì nella moschea cattedrale del Kairewân, ascoltando con pazienza i richiami, e provvedendo immantinenti; diè di sua persona esempii di astinenza e pietà; ristorò la polizia ecclesiastica; sgombrò le strade dei ladroni che le infestavano; assicurò il commercio, spense i violenti e gli scapestrati. Si narra di lui che obbligasse la madre al pagamento di un debito, minacciando di lasciarla tradurre dinanzi il cadi:98 la madre, sola creatura umana rispettata da quel mostro. Attese molto alle opere pubbliche. A comodo dei cittadini, costruì un gran serbatoio d'acqua al Kairewân. Per magnificenza e pietà innalzò una moschea cattedrale a Tunis; e aggrandì quella del Kairewân; aggiuntavi inoltre una cupola che poggiava su trentadue colonne di marmo. Circondò Susa di mura. Compiè su la costiera del reame una linea di torri e posti di guardia, ordinata a far segnali coi fuochi, sì che in una notte potea tramandarsi avviso da Ceuta ad Alessandria di Egitto.99 Cotesta pratica antichissima era scesa con le tradizioni dell'impero infino ai Bizantini; i quali nella prima metà del nono secolo l'adoperavano a significare i tristi casi di lor guerre, da Tarso a Costantinopoli.100 E v'ha ragioni da credere ch'e' se ne fossero avvalsi anco in Sicilia, e che quivi avesserla appreso gli Arabi d'Affrica.101
Innanzi ogni altra opera pubblica, Ibrahim avea costruito una cittadella, centro di gravità della tirannide ch'ei macchinava: fortezza ove porre sua corte e ordinar novelli pretoriani per disfarsi degli antichi, i liberti di casa aghlabita, ridotti nel Castel Vecchio, stati fin allora padroni del popolo e del principe. Fece por mano a' lavori il dugento sessantatrè (23 settembre 876 a 11 settembre 877), in luogo discosto quattro miglia dal Kairewân e chiamato Rakkâda, “Sonnolenta” come suona appo noi.102 Entro un anno, fornite le mura, innalzata una torre che addimandarono di Abu-'l-Feth,103 Ibrahim inaugurolla con sanguinoso tradimento. Era avvenuto che i liberti del Castel Vecchio tumultuassero contro di lui per aver fatto morire un di lor gente: e allora, ito loro addosso per comando d'Ibrahim il popolo della capitale, i liberti, vedendosi sopraffatti, avean domandato e ottenuto perdono. Ma il dì che dovean toccar lo stipendio, Ibrahim li chiama alla torre di Abu-'l-Feth; li fa entrare a uno a uno; disarmare; incatenare: e diè mano ai supplizii; ch'altri morì sotto il bastone, altri condannato a perpetuo carcere in Kairewân; altri bandito in Sicilia.104 In luogo dei liberti, comperò schiavi in grandissimo numero; prima negri, poi anco di schiatta slava: li vestì; li esercitò nelle armi; ne fece un grosso di stanziali, valorosi, induriti alle fatiche;105 massa di bruti della zona torrida e del settentrione disumanati dal servaggio e di più dalla disciplina. Così passarono i primi sei anni del regno; lodevoli del resto a detta di tutti i cronisti, i quali tenean forse necessaria la carnificina di Abu-'l-Feth. Poi sfrenossi a dar di piglio nella roba e nel sangue; peggiorando di anno in anno, come nota l'autore del Baiân.106
Perchè, non bastando le entrate ordinarie dello stato a spesare gli stanziali, le fabbriche e la guerra che sopravvenne (an. 880, 881) contro un principe d'Egitto della dinastia usurpatrice dei Beni-Tolûn, era strascinato Ibrahim ai maltolti. L'anno dugento settantacinque (888-889) battè nuova moneta d'argento, che, rifiutata dai mercatanti del Kairewân, diè occasione a tumultuarie rimostranze, imprigionamenti, sollevazione: e Ibrahim, al solito, restò di sopra. Donde facea coniare altri dirhem e dinâr decimali, com'ei li chiamò, perchè i primi d'argento e i secondi d'oro stavano in valore come uno a dieci; e tolse di mezzo le buone monete dell'impero abbassida.107 Oltre questo espediente di finanza, ponea nuove gabelle;108 aumentava le tasse prediali e riscuoteale in danaro, non più in derrate;109 richiedeva i cittadini che apprestassero a servigio dello Stato loro schiavi e giumenti; in cento modi li espilava per accumular tesori.110
A misura degli aggravii prorompean pure le sollevazioni; e a misura di quelle incrudeliva Ibrahim. Ne noterò solo i fatti rilevanti. Ribellavansi ricusando le tasse, l'anno dugentosessantotto (881-882), le tribù berbere di Wuezdàgia, Howâra e Lewâta: ed erano oppresse, l'una da Mohammed-ibn-Korhob, ciambellano, le altre da Abd-Allah figliuolo d'Ibrahim, mandatovi con gran gente di giund, liberti, leve in massa, e ausiliarii forniti al certo da altre tribù berbere: sì fermo Ibrahim guidava tutti i cavalli del carro, poichè s'ebbe aggiustata in mano quella ferrea sferza degli schiavi stanziali.111
Poi surse in arme la colonia di Belezma, gente arabica della tribù di Kais, venuta la più parte nei principii del conquisto, e stanziata da parecchie generazioni in quella città, sul confin meridionale dell'odierna provincia di Costantina, in mezzo alla catena degli Aurès, donde teneva a segno la tribù berbera di Kotâma. Gli agguerriti Arabi di Belezma ributtarono Ibrahim, ito in persona a combatterli: ond'ei perdonò loro; attirò a Rakkâda, prima alcuni capi sotto specie di trattar faccende, poi, con altri pretesti, più numero di gente; lor diè splendide vestimenta, onori quanti ne vollero e alloggiamento in uno edifizio circondato di mura con una sola porta, nel quale settecento o mille cavalieri, chè tanti se n'erano accolti, se pur pensavano allo esempio dei liberti del Castel Vecchio, si fidavano al certo di affrontar chi che si fosse. E così ogni evento delle istorie avvera la sentenza del Machiavelli, che colui che inganna, troverà sempre chi si lascerà ingannare.112 Il dì che le altre soldatesche toccavan la paga, inebbriate di danaro, fors'anco di vino, Ibrahim le lanciava allo scannatoio ov'eran serrati i guerrieri di Belezma; i quali (893-894) valorosamente si difesero; e tutti perirono.113 La pena di tal misfatto, come spesso accade, la pagò non Ibrahim, ma la dinastia; poichè, decadendo Belezma, la tribù di Kotâma imbaldanzì, e condusse al trono i Fatemiti.114 Più pronto gastigo minacciava la sollevazione generale delle milizie arabiche, scoppiata immediatamente e rinnovatasi poi varie fiate; ma Ibrahim trionfò di tutti, mercè le mura di Rakkâda, la virtù militare del figliuolo Abd-Allah, e gli schiavi armati; dei quali accrebbe il numero; lor affidò la reggia; e pose capitani sopra di loro due schiavi, Meimûn e Rescîd. Accentrò al medesimo tempo Ibrahim grande autorità in persona di Hasân-ibn-Nâkid, nuovo suo ciambellano, capitan di eserciti, emir di Sicilia, e rivestito di altri oficii, scrive la cronica,115 probabilmente le amministrazioni di finanza, e il tribunale dei soprusi nelle province sollevate.
Tra i casi di questa rivoluzione seguirono non più udite enormezze dei soldati regii, i quali, presa Tunis per battaglia, fecero schiavi tra i Musulmani, sforzaron le donne e sparsero gran sangue (893-894). Dato avviso della vittoria a Rakkâda per lettere legate al collo dei colombi, Ibrahim rescrisse di caricare i cadaveri su le carra; mandarli a Kairewân; e condurli in giro per le strade. Comandò, non guari dopo (894-895), di mettere a morte i nobili della tribù di Temîm, ceppo di sua famiglia, e appendere i cadaveri alle porte di Tunis. Ministro di tai vendette era stato Meimûn, nominato dianzi, donde venne fieramente in odio a quei cittadini; ma Ibrahim, non prima n'ebbe sentore, che gli mandò, diremmo noi, un bell'ordine cavalleresco: all'uso di que' tempi collana d'oro e vestimenta di seta ricche d'oro, disegni e svariati colori; e il manigoldo in tanto sfarzo cavalcò trionfalmente in Tunis. Un anno appresso, fattevi rizzar nuove fortezze, vi andò a soggiornare il tiranno in persona;116 meditando già la impresa di Sicilia, o parendogli Rakkâda mal sicura senza lo scampo del mare: o volle sfogare la superbia dell'animo suo sopra la città ribelle, prostratagli ai piè come cadavere.
Il medesimo anno della rivolta, Ibrahim allagò di sangue la reggia per sospetto di una congiura degli eunuchi e stanziali schiavoni contro la vita di lui e della madre:117 dal qual tempo in poi, aspettandosi che alcuno dei tanti che tremavano trovasse modo ad ammazzarlo, per meglio guardarsi, consultò astrologhi e arioli, nei quali ponea molta fede. Gli dissero dover morire di certo per man d'un piccino; se di statura o di anni, i furbi maestri nol discernean bene in lor arte: ond'egli visse in sospetto de' giovani paggi schiavoni; e se gliene venia veduto alcuno audace e fiero in volto, vago di maneggiar la spada, pensava tra sè: ecco l'assassino; e lo facea spacciare. Quando n'ebbe ucciso molti, temè la vendetta dei rimagnenti: onde li uccise tutti;118 e tolse paggi negri in luogo dei bianchi; e non tardò a fare sgombero anche di quelli, l'anno dugento ottantotto (900).119 Ma nel lungo suo regno i domestici eccidii sovente si rinnovarono e cominciaron prima della tirannide di fuori; bastando l'ira ad aizzarlo quanto il sospetto, e quanto l'uno e l'altra la gelosia. Aveva egli vietato sotto pene severe la vendita del vino a Kairewân; la tollerava a Rakkâda120 in grazia forse dei suoi stanziali; e beveva egli stesso senza scrupolo nei penetrali dello harem. Or accadde che fattosi mescer vino da una donna, nei primi credo io del regno, e datole a tenere il fazzoletto di seta con che si asciugava le labbra, colei lasciosselo cader di mano, e un eunuco il trovò e nascose. Ibrahim non sapendo qual fosse costui, tutti i trecento eunuchi che avea fe' morire,121 per seppellir forse con loro il segreto della regia intemperanza. Diversa cagione ebbe la morte di sessanta sciagurati giovanetti ch'ei teneasi in palagio, e, calpestando più d'uno dei precetti di sua religione, ogni sera lor dava a ber vino, e poi non volea che troppo dimesticamente vivesser tra loro. Avutane spia, chiamolli dinanzi a sè; interrogolli, e confessando alcuni il fallo, e negandolo tra gli altri audacemente un fanciullo molto amato da lui, Ibrahim gli spezzò il cranio con una mazza di ferro: gli altri fece morire a cinque o sei il dì, tra soffocati nella stufa e arsi nella fornace del bagno.122
Nè men geloso in punto di religione, aggravò la vergogna degli dsimmi, come se non bastassero al suo zelo i segni esteriori di vassallaggio che si costumavano innanzi.123 Comandò Ibrahim che portassero su le spalle una toppa bianca, con la figura, i Giudei d'una scimmia e i Cristiani d'un maiale; e che gli stessi animali si dipingessero in tavole confitte su le porte di lor case.124 Il martirio ch'ei diè ai quattro Siracusani si è narrato di sopra, su la fede delle agiografie cristiane.125 Non sappiam se sia dei martiri siracusani un Sewâda, di cui scrivon le cronache musulmane che proffertogli l'oficio di direttore della tassa fondiaria, se rinnegasse, e rispondendo egli che non barattava la fede, Ibrahim lo fece spaccare in due e sospender mezzo cadavere a un palo, mezzo ad un altro, l'anno dugentosettantotto dell'egira (891-892).126 Tuttavia gli eretici dell'islamismo poteano invidiare la condizione de' Cristiani. Dopo le stragi d'una battaglia, vinta sopra la tribù berbera di Nefûsa, l'anno dugentottantaquattro (897-898), Ibrahim interrogò un dottore che si trovava tra i prigioni: “Che pensi di Alì?” “Era infedele e però sta in inferno; e chi non dice così, andravvi con lui,” rispose il prigione; scoprendosi Kharegita a questo parlare. Il tiranno allora gli domandava se tutta la tribù di Nefûsa tenesse tal credenza, e saputo di sì, ringraziava il Cielo d'averne fatto macello. I prigioni, ch'eran cinquecento, se li fece recare innanzi a uno a uno: egli assiso in alto, tenendo in mano un suo lanciotto, cercava con la punta sotto l'ascella ove fosse il vano tra costola e costola dell'uomo,127 e poi data una spinta, andava a trovar dritto il cuore, e facea passare un altro, finchè tutti gli trafisse. Così il Nowairi.128 L'autore del Baiân scrive che i prigioni fossero trecento, ch'ei ne avesse fatto spacciar uno e poi trattogli il cuor con le proprie mani, e fattolo trarre agli altri, infilzati in una funicella i trecento cuori, e sospesi a festone su la porta di Tunisi.129 Ambo le tradizioni bene stanno ad Ibrahim-ibn-Ahmed, e possono ammettersi insieme.
Belgia, secondo Edrisi, era castello sul fiume, or detto Belici, che scorre tra Gibellina e Santa Margarita, e mette foce presso Selinunte. Il nome or del castello e or del fiume, nei diplomi latini dall'XI al XV secolo si vede scritto Belich, Belichi, Belice, Belix, Bilichi. In altra regione, tra Polizzi, cioè, e Collesano, si ricorda nel XIV secolo un castel Belici. Veggansi i diplomi presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 695, 736, 842, 843; Di Gregorio, Biblioteca Aragonese, tomo II, p. 469, 489, 492; Del Giudice, Descrizione del tempio di Morreale, appendice, p. 8, seg., dipl. del 1182. Fanno menzione degli stessi nomi: Amico, Lexicon Topographicum, in Val di Mazara e Val Demone; e Villabianca, Sicilia Nobile, tomo I, parte II, p. 23.
Il medesimo nome, sotto la forma di Belgi e Belgiân, si trova a Bassora e presso Marw in Khorassân, secondo il Merâsid-el-Ittilâ'. Inoltre un picciol fiume che si scarica nell'Eufrate presso Rakka, chiamato anticamente Bileka, porta oggi il nome di Belich, o Belejich, secondo la pronunzia inglese, come si nota nel Journal of the Royal Geographical Society, anno 1833, tomo III, p. 233.
Saghâniân chiamavasi una città della Tartaria independente, al sud-est di Samarkand; e scriveasi con le medesime lettere radicali che nel diploma di Morreale, se non che in questo l'accento e la finale son diversi: in luogo di Saghâniân, Sâghanû. È superfluo ricordare che nel IX secolo l'impero arabico si estendeva alla Tartaria fino a Fergana; e che Bokhara, Samarkand e altre città di quella provincia, furono patria di dottissimi scrittori arabi.
I. Andrani, casale tra Sciacca e Girgenti, da un diploma del 1239, Constitutiones Regni Siciliæ, edizione del Carcani, p. 268. Andrani o Andarani è l'aggettivo etnico di Andara, tribù berbera, ricordata da Ibn-Khaldûn, Storia dei Berberi, testo arabico, tomo I, p. 108 e 178, e versione francese di M. De Slane, tomo I, p. 170, 275.
II. Kerkûd, nome di villa in Sicilia secondo il Merâsid-el-Ittilâ' e il Mo'gim di Iakût, MS. del British Museum, nº 16649 e 16650, nell'articolo Kerkeni (Girgenti): forse la Karches di un diploma del 1177 a favor del vescovo di Girgenti, negli Opuscoli di autori siciliani, tomo VIII, p. 334. Kerkûda è tribù berbera, secondo Ibn-Khaidûn, op. cit., testo, tomo I, p. 177; versione, tomo I, p. 274.
III. Mesisino, nome di collina nell'antica baronia di Belici presso Castelvetrano, secondo Villabianca, Sicilia Nobile, tomo II, p. 345. Meziza è tribù berbera, secondo Ibn-Khaldûn, op. cit., testo, tomo I, p. 153; versione, tomo I, p. 241. La mutazione della z in s non mette in forse la etimologia.
IV. Mechinesi, antico casale sul cui sito sorge in oggi Acquaviva, secondo Amico, Lexicon Topographicum. Miknas, o Miknasa è nome notissimo di tribù berbera.
V. Minsciâr, castello, secondo Edrisi, presso il sito presente di Racalmuto; e Muxaro (Sant'Angelo di) in oggi comune a 14 miglia da Girgenti, scritti entrambi con varianti nei diplomi del medio evo. Minsciâr era nome di una montagna in Affrica, appartenente alla tribù berbera dei Wezdâgia, secondo Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, versione di M. Des Vergers, testo arabo, p. 56, e versione, p. 128. Si vegga anche Edrisi, versione di M. Jaubert, tomo I, p. 275. Il Merâsid, di Iakût, edizione di Leyde, tomo III, p. 159, nota una fortezza Minsciâr presso l'Eufrate.
VI. Modiuni si addimanda in oggi il fiume detto anticamente Selinus, presso Selinunte. Madiûna è nome di tribù berbera, secondo Ibn-Khaldûn, Storia dei Berberi, testo, tomo I, p. 109, e versione, tomo I, p. 172.
VII. Sanagi o Sinagia, si chiamò la sorgente del fiume Mazaro, e un podere nel territorio di Salemi, secondo un diploma del 1408, presso Di Gregorio, Biblioteca Aragonese, tomo II, p. 489, e Villabianca, Sicilia Nobile, tomo II, p. 396. Sanhâgia, o Sinhagia, come ognun sa, è delle principali tribù berbere.
VIII. Notissima al paro quella di Zenata. Hager ez-Zenati e Rahl ez-Zenati che suonan “La rupe,” e “il villaggio” di quel di Zenata, sono nomi di luogo presso Corleone, ricordati nei diplomi: del 1093, presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 695 e 842; del 1150, 1155, 1301, presso Mongitore, Sacræ Domus Mansionis… Panormi, Monumenta historica, cap. XIII; e del 1182, presso Del Giudice, Descrizione del tempio di Morreale, Appendice, p. 11. Di quest'ultimo diploma avvi una copia arabica nell'archivio del monastero di Morreale. Negli altri, che son tutti latini, si legge talvolta Petra de Zineth, Raalginet, Ragalzinet ec.
IX. Magagi in latino e Maghâghi in arabico, secondo il diploma del 1182 presso Del Giudice, l. c., è nominata una villa nel territorio dell'antica Giato, non lungi dall'odierno comune di San Giuseppe li Mortilli. Maghâga, tribù berbera, secondo Ibn-Khaldûn, Storia dei Berberi, testo, tomo I, p. 108; versione, tomo I, p. 171.
X. Cutemi, Cutema, Gudemi, terra presso Vicari, sul confine delle diocesi di Palermo e Girgenti, ricordata in un diploma del 1244, presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 147. Il nome deriva da Kotâma o Kutâma, tribù berbera, di cui ci occorrerà far parola. Avvertasi che questa e Sanhagia forse non vennero in Sicilia prima del X l'una, e l'altra dello XI secolo.
XI. Cûmîa, nome di due villaggi vicino Messina, e di una tribù berbera, di cui Ibn-Khaldûn, op. cit., testo, p. 109 ec., e versione, tomo I, p. 172 ec.
XII. Melilli, nome di città a dodici miglia da Siracusa. Melila e Melili, cittadi d'Affrica, l'una su la costiera del Rif di Marocco, l'altra nello Zab; e Melila, tribù berbera, di cui Ibn-Khaldûn, op. cit., testo, tomo I, p. 107 ec., e versione, p. 170 ec. Ma il nome potrebbe esser pure d'origine latina.
XIII. Mesisino, nel feudo del Landro (val di Mazara), citato da Villabianca, Sicilia nobile, tomo II, p. 345. Meziza era nome di tribù berbera, secondo Ibn-Kaldûn, Histoire des Berbères, tomo I, p. 241 della versione, e I, 153 del testo.
Do la presente lista com'abbozzata appena; perocchè nè si trovan raccolti, nè io tutti li so, i nomi topografici secondarii della Sicilia, di monti, poderi, scaturigini d'acqua ec. Da un'altra mano scarseggiano le notizie su le denominazioni etniche di second'ordine e su le topografiche relative ai Berberi d'Affrica, e la lingua loro appena si è cominciata a studiare da Europei; ond'è possibile che siano berberi molti nomi topografici attuali della Sicilia o di quei ricordati nelle carte dal XII al XV secolo, la cui origine non pare arabica, nè greca, nè latina, nè francese. Son certo che si arriverà a scoprirne col tempo molti altri. Avverto infine che moltissimi dati anco dalla schiatta berbera non si riconosceranno giammai; perchè gli uomini di quella prendeano sovente nomi o soprannomi arabici. Occorrono inoltre parecchi nomi berberi tra i poeti siciliani dell'XI e XII secolo. La storia ricorda, nell'XI secolo, Ibn-Meklâti, uno dei regoli che si divisero l'isola, uom della tribù di Meklata, di cui Ibn-Khaldûn, op. cit., testo, tomo I, p. 108 ec.; versione, tomo I, pag. 172 ec. L'atto di vendita di una casa in Palermo, dato il 1132, porta il nome del venditore Abd-er-Rahman-ibn-Omar-ibn… – el-Lewâti, cioè di Lewâta, notissima tribù berbera; testo arabico presso Di Gregorio, De supputandis apud Arabos Siculos temporibus, p. 44.
“Astri siam noi, figli degli astri; avol nostro la luna del cielo, Abu-Nogiûm-Tamîm;
“Avola nostra il Sole. Or chi s'agguaglia a noi, discesi di due sì nobili schiatte?”
A chi non conosce l'arabico è da avvertire che in quella lingua la luna è di genere maschile, il sole femminino, e Abu-Nogiûm significa “padre delle stelle.”
Conde, Dominacion de los Arabes en España, parte IIª, cap. LXXV, riferisce, senza citare sorgente, un aneddoto anacreontico, seguito forse nella prima gioventù di Ibrahim. Certo poeta, per domandargli non so che grazia, scrivea due versi in un pelizzino, e il nascondea, come noi facciamo nei confetti, entro una rosa, presentata a Ibrahim mentre sedeva in un giardino tra le sue donne. Una lesse e cantò i versi; e Ibrahim donò al poeta cento monete d'oro.