Kitabı oku: «Non Andare Mai Dal Dentista Di Lunedì», sayfa 2
IV – Sette biglie
Alexis si guardò intorno, soprattutto meravigliato. Non riconosceva il luogo dove si trovava, né si ricordava com'era arrivato fin lì. L'ultima cosa di cui si ricordava era il fatto di essere nello studio con suo padre ed essere uscito dopo il dottore. Il corridoio era costellato di biglie e lui si era chinato per prenderle e tenersele nella tasca dei pantaloni. Ne era sicuro perché un attimo prima aveva messo le mani nelle tasche e ora vedeva davanti ai suoi occhi una di quelle biglie colorate.
Sentì un rumore fuori dalla stanza. A sei anni non riconosceva molti rumori, per questo per un attimo non fu capace di identificarlo.
Si alzò e corse verso la porta, quindi girò il pomello per aprirla. La porta rimase chiusa.
– Papà, aprimi! Papà! Non posso uscire! Papà!!! – gridò così forte che sembrava di poterlo sentire a distanza di un chilometro.
Né suo padre, né nessun altro rispose alla disperata richiesta di Alexis.
Si guardò intorno istintivamente cercando una finestra. A un metro e mezzo da terra vide una finestrella sporca. Si avvicinò a essa e si allungò più che poté, ma non raggiunse neanche l'infisso inferiore. Alexis non era un bambino alto e ora ricordava sua madre che gli diceva:
– Alexis, mangia tutta la verdura. Devi crescere e diventare un uomo alto e bello.
Corse verso l'unica sedia che c'era nella stanza e la trascinò fino alla finestra. Si girò un attimo in direzione della porta e aspettò per vedere se sentiva qualche rumore da fuori.
Niente. Salì sulla sedia, si mise in ginocchio e guardò dalla finestra sporca. Passò la punta delle dita sul vetro, cercando di pulirlo per poter vedere meglio fuori. Non riuscì a fare granché, sicuramente erano secoli che non la pulivano. Sputò sul vetro, allungò la manica della felpa fino a nascondere la mano, nascondendo così del tutto il suo costume da supereroe e in seguito strofinò il vetro, facendo diventare la manica da grigia chiara a grigia scura.
Provò ad aprirla, ma fu inutile. Osservò i cardini, pieni di ruggine. Alexis li guardò senza sapere cosa fossero, ma capì che erano la causa per cui non poteva aprire la finestra.
Saltò giù dalla sedia e rimase a pensare qualche secondo. Cosa avrebbe dovuto fare ora?
La porta si aprì e davanti agli occhi di Alexis apparve Topolino con in mano una foto di un bambino dall'età di Alexis, ma con una tonalità di capelli un po' meno rossiccia, che stava osservando comparandola con il bambino che aveva davanti.
– Topolino! Topolino! – esclamò, mentre saltava da una parte all'altra.
Topolino osservò che la sedia era sotto la finestra. Si avvicinò ad Alexis e gli offrì una caramella al sapore di arancia.
Alexis non fece caso alla caramella. Cercava di mettersi dietro Topolino, ma quest'ultimo glielo impediva.
– Topolino, che ci facciamo qui? – chiese.
Quest'ultimo mise l'indice in mezzo alle labbra per indicare di fare silenzio. Alexis lo imitò e aspettò l'azione successiva del suo amico Topolino. Quest'ultimo gli tese la mano.
– Grazie, Topolino, ma non mi piacciono le caramelle all'arancia. Non mi piace per niente l'arancia.
Topolino mise via la caramella e ne tirò fuori un'altra al limone. Alexis lo guardò con occhi bramosi, ma una voce femminile risuonò nella sua testa, la voce di sua madre.
– Non prendere niente offertoti da uno sconosciuto. O meglio, prendi solo ciò che ti do io.
– No, grazie – disse Alexis ricordandosi anche che sua madre gli diceva che innanzitutto doveva essere molto educato.
Allora Topolino prese Alexis per mano e lo tirò verso di sé.
– Cosa vuoi? Mi porterai da mio padre?
Topolino annuì con la testa e gli indicò la porta che era rimasta aperta.
– Sei poco loquace. Non sarai mica Cucciolo travestito da Topolino?!
Quest'ultimo fece un gesto come per dire "Forse" e poi lo tirò verso la porta.
– Non so se dovrei venire con te. Non ti conosco. Tu mi conosci? Conosci i miei genitori?
Topolino sospirò. Non era un uomo molto fantasioso e non gli veniva in mente un buon motivo per fare uscire il bambino da quel buco. Lasciò andare la mano del bambino e uscì lasciando Alexis solo e rinchiuso un'altra volta. Alexis corse verso la porta e la picchiò varie volte, mentre gridava:
– Ascolti, signor Topolino, se n'è andato senza salutare!
Nessuno rispose ad Alexis e il bambino sentì il desiderio di piangere per la prima volta quella mattina. Ma a cosa serviva piangere se non lo vedeva nessuno? Lui non piangeva mai se era da solo. Ora doveva raggiungere un pubblico, aveva solo bisogno di un'idea. Si guardò intorno cercando un'ispirazione. L'ispirazione che cercava arrivò in fretta, forse influenzato dai suoi geni paterni. L'idea non era una delle più intelligenti. Prese una delle biglie che aveva addosso e la lanciò contro la finestrella, causando un leggero suono tintinnante quando essa rimbalzò sul vetro e fece dei piccoli salti sul pavimento. Però quel suono non fu abbastanza intenso per essere sentito dall'esterno. Prese la biglia e ci riprovò, stavolta usando tutta la sua forza. L'effetto fu proporzionale alla forza esercitata e la piccola biglia rimbalzò di nuovo, seppur stavolta andando in pezzi una volta caduta sul pavimento, di sicuro come conseguenza di una microscopica breccia che attraversava parte della biglia. Alexis rimase paralizzato e un attimo imbarazzato di fronte al fatto che aveva rotto qualcosa che in realtà non gli apparteneva. Questa sensazione scomparve velocemente quando mise la mano nella tasca dei pantaloni e osservò il resto delle biglie nella sua mano.
<<Sette biglie sono più di una biglia>>, pensò. <<Sette biglie fanno più rumore di una sola>>.
Le soppesò leggermente facendole saltare sulla mano probabilmente per stimare il loro peso e l'effetto che avrebbero potuto esercitare sbattendo contro il vetro della finestra. Portò la sua mano all'indietro per lanciare le biglie mentre emetteva un grido. Le biglie si alzarono per un breve istante alla stessa altezza, ma presto si separarono e alcune rimasero più in alto delle altre durante il loro viaggio aereo, un viaggio che si concluse in pochi secondi, quando sbatterono contro qualcosa col risultato che quelle palline colorate rimbalzarono. Varie biglie sbatterono tra loro, alcune in aria, altre già sul pavimento e quelle che non trovarono il duro pavimento al loro ritorno andarono invece contro il tenero corpo di Alexis. Quest'ultimo gridò di nuovo, ma stavolta indolenzito dal picchiettio di quelle biglie sulla sua testa, sulle sue braccia e sul suo petto.
– Ahiaaaaaaa! Ahiaaaaaaa!
Ma Alexis non cambiava idea facilmente, quindi raccolse le biglie dal pavimento per lanciarle di nuovo, senza rendersi conto che insieme alle biglie aveva raccolto un diamante e che proprio in quel momento la porta che lo stava tenendo rinchiuso si riaprì. Ma invece di vedere entrare Topolino, vide tra le lacrime entrare un personaggio che lo fece rabbrividire, un personaggio non così incantevole come il buon Topolino, con le braccia sui fianchi e un'aria arrabbiata.
– Si può sapere cosa significa tutto questo rumore? – chiese in un tono che non ammetteva nessun capriccio.
Alexis si asciugò le lacrime, spaventato dal personaggio che aveva davanti a sé, mentre stava mettendo nelle tasche le mani e con loro le biglie e il diamante. Batman continuò a guardarlo come se stesse aspettando.
– Mi dispiace, Batman. Non mi rinchiudere nella Batcaverna – disse Alexis a voce bassa.
– Dobbiamo andare. O vieni a piedi o dico al mio amico di portarti nel suo sacco.
Alexis pensò di chiedere dove dovevano andare, ma rifletté sul fatto che forse a Batman non sarebbe piaciuta la domanda. Così rimase in silenzio, mentre usciva dalla stanza con Batman. Salirono in macchina in compagnia di Topolino. Quest'ultimo rimase in silenzio, mentre aiutava Alexis a sedersi correttamente.
– Grazie. Andremo molto lontano?
– Più lontano di quanto tu non sia mai andato – rispose Batman.
– Vomito sempre quando viaggiamo molto lontano – affermò.
– Guai a te se vomiti nella mia macchina – gli disse Batman in tono severo.
– Sì – rispose Alexis con un filo di voce, pur sapendo che era impossibile.
Alexis notò per la prima volta i finestrini della macchina, che non lo lasciavano vedere fuori non perché erano opachi, ma a causa della sporcizia che li ricopriva dall'esterno.
– È davvero la sua macchina? – chiese.
Né Batman, né Topolino risposero alla domanda.
Venti minuti dopo Alexis esclamò:
– Devo fare la pipì!
Aspettò qualche secondo e ripeté la richiesta a voce ancora più alta.
– Devo fare la pipì, devo fare la pipì, devo fare la pipì! – Sembrava che non si stancasse di ripeterlo una volta dopo l'altra.
Batman iniziò ad arrossire, mentre la sua respirazione diventava sempre più agitata a ogni grido di Alexis e mentre il suo compagno provava a tranquillizzarlo con gesti gentili e allo stesso tempo cercava di mantenere la calma. Alla fine Batman frenò così bruscamente che fece cadere Alexis dal sedile.
Topolino guardò con prontezza alle sue spalle. Doveva verificare che il bambino stesse bene nonostante la caduta. Nel frattempo Batman protestò a voce bassa con un "Bambino rompipalle". Alexis stava bene, aveva visto qualcosa che stava attirando tutta la sua attenzione non per essere una novità, ma perché lui in passato aveva già posato lo sguardo su quell'oggetto e persino le sue mani ci avevano giocato. Si contorse sotto il sedile per modificare la postura del suo corpo in modo da poter stendere meglio le braccia e poter così appoggiare le dita sull'oggetto pregiato. All'improvviso si accorse che era tornato su e che era seduto.
– Allaccia la cintura del bambino – ordinò Batman a Topolino.
Quando Alexis fu legato e Batman mise in moto il motore, Alexis aprì la mano e guardò. Non capiva perché quel giocattolo, perché di questo si trattava, si trovasse in quell'auto. Richiuse la mano osservando il giocattolo tra le dita.
V – Vivian inizia le sue avventure in questo romanzo
L'Esattore si fermò con la macchina davanti all'ufficio di Vivian e tamburellò con le dita sul cruscotto, dove aveva messo la tessera sanitaria di Alexis. Guardò verso l'edificio prima di scendere dalla macchina. Allora vide uscire Vivian dall'edificio. Quest'ultima guardò il cielo e poi cercò gli occhiali da sole in borsa. L'Esattore continuò a osservarla, mentre restava in attesa ed era indeciso se parlarle di Alexis od occuparsi lui del problema. Allora Vivian si guardò intorno. La macchina dell'Esattore era nel suo campo visivo, ma Vivian sembrò non vederla, assente com'era. Si sistemò i capelli e scese giù per la strada. L'Esattore scese dalla macchina, i suoi passi seguirono quelli di Vivian. Quest'ultima stava camminando velocemente e ogni tanto guardava l'orologio come se temesse di arrivare in ritardo. L'Esattore, inseguitore esperto, la seguì da vicino e vide che entrò in un centro commerciale.
– Non avrà mica intenzione di fare shopping? – rifletté l'Esattore.
Era lunedì e c'era una probabilità del 99,9% che le cose stessero così.
L'Esattore gettò via la sigaretta che stava fumando, poi ne accese un'altra.
Vivian salì al secondo piano e finse di guardare delle gonne, ma dopo alcuni minuti salì all'ultimo piano, dove c'era un bar. Si avvicinò al banco, chiese un caffellatte e si sedette a uno dei tavoli liberi. Mentre aspettava che il caffè si raffreddasse un po', guardò i messaggi sul cellulare. L'Esattore, seduto a un tavolo vicino, anche se leggermente nascosto dalla vista di Vivian, osservò che lei stava digitando sul cellulare. Vide una persona avvicinarsi al suo tavolo e metterle di soppiatto una busta nella tasca della giacca. Subito dopo Vivian prese la giacca e, dopo aver sorseggiato il caffè che le rimaneva, uscì dal bar senza rendersi conto che un Esattore pensieroso la stava osservando.
Prima di uscire dai grandi magazzini, comprò un borsellino al pianoterra, perché se fosse uscita senza comprare niente, la gente si sarebbe insospettita. L'Esattore la seguì con la sua andatura tranquilla, sapendo che difficilmente l'avrebbe persa di vista.
Vivian aveva preso la strada di ritorno per l'ufficio. L'Esattore la osservò fermarsi all'incrocio proprio davanti all'ufficio e aspettare che il semaforo cambiasse colore.
Un'auto perse il controllo e andò verso le persone che stavano aspettando al semaforo. Sembrò che il tempo si fosse fermato quando le ruote della macchina girarono a una velocità supersonica e Vivian vide quella macchina avvicinarsi senza poter reagire. La macchina andò a sbattere contro il marciapiede e, di conseguenza, caddero a terra le persone che si trovavano lì, tra cui Vivian. Si udirono grida e strilli, mentre la gente si avvicinava a soccorrere i feriti. Non c'era nessun ferito grave, ma qualcuno chiamò lo stesso un'ambulanza. Presto si sentirono delle sirene e alcuni minuti dopo arrivarono la polizia e i soccorritori.
L'Esattore osservò da lontano mentre un soccorritore si stava occupando di Vivian; una ferita alla sua testa stava sanguinando copiosamente.
– Non si spaventi, signora – disse il soccorritore —. Il sangue fa tanta impressione.
Vivian lo guardò sprezzante.
– Dovrà andare all'ospedale – spiegò il soccorritore —. Per fare alcuni esami.
– Non è necessario, sto bene – affermò Vivian, mentre cercava di alzarsi.
– È per il suo bene. Non ci vorrà molto tempo.
– No, grazie. Ho delle faccende da sbrigare – rispose e fece un paio di passi verso il suo ufficio.
Mise la mano nella tasca della sua giacca e notò che non c'era nessuna busta. La sua faccia impallidì per qualche secondo, ma presto recuperò il coraggio e il sangue freddo che la caratterizzavano, sebbene non con la prontezza sufficiente affinché l'Esattore non si accorgesse del cambiamento. Si girò per vedere se la busta fosse per terra, ma con intorno i feriti, i soccorritori, la polizia e le persone curiose non si poteva cercare niente. Indecisa, si guardò intorno e allo stesso tempo iniziò ad arrabbiarsi con se stessa. Lei non perdeva mai la calma, né tantomeno aveva mai commesso uno sbaglio del genere.
Il soccorritore, che non aveva smesso di tenerla d'occhio, le si avvicinò e le disse:
– Entri almeno un attimo nell'ambulanza in modo da farsi controllare la ferita. Magari ha bisogno di alcuni punti.
Vivian gli rivolse uno sguardo meno superbo della volta precedente e con un semplice cenno della testa acconsentì alla richiesta del soccorritore.
Mentre Vivian veniva soccorsa, un'altra ambulanza portò all'ospedale altri feriti, tra cui il conducente della macchina. L'Esattore, che non era visibile sebbene non fosse nascosto, mise nella tasca della giacca il cellulare con cui aveva scattato qualche foto di tutto quello che era successo, sia dello scenario che dei suoi protagonisti.
Un quarto d'ora dopo Vivian uscì dall'ambulanza, dopo aver promesso che sarebbe andata all'ospedale dopo il lavoro o anche prima, se avesse avuto nausea o mal di testa.
Vivian si diresse verso il suo ufficio, mentre stava guardando l'orologio, che le ricordò che aveva perso troppo tempo, tempo che non avrebbe potuto recuperare e che per lei significava la perdita di parecchi guadagni. La perdita della busta le stava causando un terribile contrattempo, ma sperava di risolverlo. Lei trovava sempre il modo per vincere e una prova ne era il suo matrimonio con Peter, sul quale concentrò i suoi pensieri in quel momento senza una ragione apparente. Guardò l'ora, avrebbero già dovuto essere fuori dallo studio. Prese il telefono di riflesso. Cercò nella rubrica il numero di Peter e si trattenne prima di premere il tasto di chiamata.
L'Esattore, attento fino alla più piccola azione di Vivian, respirò sollevato, sebbene non ne fosse cosciente.
Vivian entrò nell'edificio e scomparve dalla vista dell'Esattore. Alcuni minuti dopo era seduta alla sua scrivania con le dita sulla tastiera del computer e in mente un'idea o, meglio, un oggetto: la busta e il suo destino. La sua mente diffidente la portò a pensare che forse l'incidente era stato una messa in scena per toglierle la busta. Tamburellò nervosamente con le dita sul tavolo dell'ufficio pensando qual era il passo successivo da compiere. Il passo le era chiaro: avvertire l'Esattore, lui le avrebbe sicuramente trovato la busta; ma quella era una faccenda che doveva sistemare da sola, sebbene conoscesse l'Esattore a sufficienza per essere sicura che lui non sapeva cosa fosse la curiosità, che mai e poi mai avrebbe guardato cosa si nascondeva nella busta e che non poteva avere la stessa sicurezza da parte di nessun altro dipendente ai suoi ordini.
La cosa che non sapeva era che l'Esattore, quando tutto era tornato alla normalità, si era avvicinato al luogo dove erano successi i fatti e aveva cercato la busta con cura, ma di soppiatto. E proprio in quel momento l'Esattore stava aspettando pazientemente una pista che gli indicasse quale fosse il passo successivo da fare con la busta nascosta nella sua giacca. Proprio allora suonò il cellulare. Dopo aver visto chi lo stava chiamando, lo lasciò squillare più di una volta, prima di decidersi a rispondere. Sapeva che in questo modo l'altra persona si sarebbe agitata e che lui avrebbe avuto il controllo della conversazione. Era sorpreso dal momento che Peter non l'aveva mai chiamato e gli sembrava persino strano che avesse il suo numero.
– Ciao, che succede? – chiese.
– Dove diavolo sei? Sono più di due ore che te ne sei andato – esagerò.
– Sono successi degli imprevisti, ma presto sarò da te. Ti manco, fratellino?
– Sto mostrando la foto di Alexis a chiunque mi passi davanti e ho ordinato a Sultán di abbaiare quando uno mente.
– Molto intelligente, fratellino. Sono sorpreso – commentò, mentre continuava a osservare l'edificio in cui si nascondeva Vivian.
– Non l'ha visto nessuno e Sultán non ha abbaiato, ma credo che non sia possibile. Secondo me è rimbambito – disse mentre Sultán abbaiava offeso.
– Hai chiesto se qualcuno ha visto una macchina allontanarsi in fretta? O se qualcuno ha visto qualcosa di strano, diverso dal solito?
– No. Aspetta un attimo che vado a chiedere. – E fermò e fece le domande a una signora e poi a un signore e poi a un'altra signora, mentre l'Esattore continuava a essere al telefono.
– Vai all'inferno! – sentì l'Esattore dopo un po'.
Nel frattempo nell'ufficio di Vivian la sua segretaria interruppe i suoi pensieri. Vivian la guardò severamente, ma l'efficiente segretaria la conosceva abbastanza bene da non lasciarsi influenzare da un'occhiata del genere.
– Scusi il disturbo, ma ha una visita. Non era nell'agenda, però mi ha detto che è importante che la veda.
Vivian, sempre padrona di se stessa, anche nei momenti in cui era molto irritata, disse alla sua segretaria che avrebbe ricevuto il visitatore e poi, perché negarlo, anche la curiosità ebbe a che vedere con la sua decisione.
Un minuto dopo entrò un signore dall'aspetto umile e piuttosto agitato.
VI – Riunione a tre
Indolente, Peter si appoggiò a una panchina, mentre si toglieva con il bordo della manica lo scarso sudore che gli stava cadendo dal lato della fronte e sospirava con aria stanca. Non sapeva più cosa fare per trovare suo figlio. Si sentiva sfinito sia fisicamente che psicologicamente, si stava sforzando più del solito. Non poteva essersi perso perché sapeva perfettamente dove viveva.
– Cosa possiamo fare adesso, Sultán? Io non so cosa pensare di tutto questo.
Una macchina si fermò davanti a lui e il conducente gli fece cenno di avvicinarsi.
Peter obbedì, mentre Sultán ringhiava sommessamente e rizzava i peli. Si sorprese nel riconoscere il dentista, anche se non indossava il camice bianco e non sapeva di antisettico.
– Salga in macchina – gli disse —. Dobbiamo parlare.
– Zitto, Sultán – ordinò Peter mentre entrava, dato che continuava a ringhiare —. È il dottor Bisturi, non lo sai?
Sultán obbedì, ma non perché Peter glielo aveva ordinato. Da quando si lasciava comandare da quel zuccone? Invece aveva molta curiosità canina per quello che doveva dire quel dentista.
– Mi dispiace che lei e suo figlio siate coinvolti in questa cosa – cominciò —. Ho ricevuto questo, mi pare che sia di suo figlio – disse mostrandogli una cintura con disegnati dei personaggi della Disney.
– Be', sinceramente non mi suona. Sicuro che sia di mio figlio?
– Perché crede che ringhiasse Sultán? Tenga, lasci che l'annusi.
Peter fece così e Sultán lanciò due latrati allegri per poi mostrare i denti minacciosamente.
– Io non ho suo figlio, ma posso aiutarla a trovarlo.
All'improvviso, prima che qualcuno potesse reagire, il dentista mise in moto la macchina, lasciando Sultán sul marciapiede e sorprendendo Peter per l'azione del suo odontoiatra.
– Perché ha fatto questo? Sultán, Sultán, corri! – gridò Peter, ma Sultán non gli diede retta. Forse stava aspettando l'Esattore.
– Non sa tutto quello che è successo. Io non avrei potuto evitarlo, anche se avessi voluto – osservò il dentista —. Non è che mi scuso. Quello che deve sapere è che Xenia e io avevamo una missione da compiere, erano mesi che aspettavamo il segnale.
Peter lo guardò stupidamente. Non era capace di pensare a una domanda intelligente, non sentiva neanche indignazione, né sembrava arrabbiato per la scomparsa di Alexis.
Il dottor Bisturi non disse nient'altro, mentre guidava la macchina fin dove li stava aspettando l'infermiera.
– Se vuole, posso aiutarla a trovare suo figlio, d'accordo?
– Mi sembra giusto – rispose, mentre una voce interiore gli sussurrava che quella non era la risposta più adeguata.
– La prima cosa che deve sapere è che questo deve rimanere tra me e lei. Non può dirlo a nessuno, né alla polizia, né a sua moglie, né a nessuno che conosca.
Peter non ritenne necessario rispondere, dal momento che lui non si sarebbe mai avvicinato a un commissariato e non sarebbe stato capace di valutare se lo intimoriva di più dire qualcosa a sua moglie o all'Esattore, che doveva essere incluso nel "nessuno che conosca". Questa frase avrebbe potuto includere anche Sultán?
– Prima andiamo a incontrare Xenia e tra noi tre penseremo sul da farsi – disse il dottor Bisturi senza pensare con chi stava parlando.
Peter si agitò inquieto sul sedile, mentre lasciava uscire dalla bocca un mormorio inintelligibile.
Qualche minuto dopo il dottor Bisturi si fermò con la macchina di fianco a Xenia. Il dottore corse ad abbracciarla.
– Non è il momento – mormorò —. Dobbiamo risolvere delle cose importanti.
Il dottore la lasciò andare di malavoglia e fece cenno a Peter di avvicinarsi. Peter obbedì subito, mentre si passava la mano sulla testa cercando di domare dei ciuffi ribelli. Vedendo la giovane infermiera, ricordò il buco che aveva in bocca.
– La mia bocca! – gridò indicandola.
– È vero, mi scusi. Come comprenderà, non posso finire il lavoro qui, ma le posso dare un calmante assai forte che durerà alcune ore.
Peter lo guardò diffidente. Poteva fidarsi di un dentista che lasciava un lavoro a metà per chissà quale ragione?
– Che ne dice? Sarà solo una punturina da niente.
Peter fece un segnale affermativo con la testa vedendo che l'infermiera stava preparando un'iniezione. Lei la diede al dottore e allora lui si avvicinò a Peter, ma proprio in quell'istante l'immaginazione fervida di Peter accelerò e una semplice iniezione si convertì in un gigante, provocando un'emozione viscerale a Peter, che indietreggiò spaventato e, dopo aver emesso uno strillo, si girò di lato e iniziò a correre gridando:
– Mi vogliono assassinare!
Il dottore e l'infermiera lo guardarono mentre si allontanava.
– Dovremmo andargli dietro. Potrebbe rovinare tutto – disse il dottore.
Tutti e due si guardarono, lei cosciente del fatto che portava delle scarpe con i tacchi alti, lui cosciente che la corsa non rientrava nella sua dignità neanche come attività sportiva.
– Forse dovremmo dividerci. Uno che porti a termine la transazione e l'altro che metta in salvo il bambino – suggerì lei.
Il dottore la guardò con dolore, dolore per doversi separare da un esemplare così bello, anche se comprendeva che lei aveva ragione, lei era sempre stata la più intelligente dei due.
Peter continuò a correre e a gridare, finché fece un passo falso e percorse alcuni metri con la gamba zoppa per poi andare a sbattere contro qualcosa. Si fermò, obbligato sia dal dolore al piede che dalla sorpresa suscitata dal recente scontro.
– Figurati se guarda dove va! – esclamò un tizio grande come un armadio.
– Vede un dentista pazzo che mi segue? – chiese mentre si massaggiava il piede ammaccato.
L'uomo lo guardò come se fosse lui quello pazzo e si allontanò lentamente. Nonostante la sua stazza, non voleva fare accordi con qualcuno.
– Che succede? Perché si allontana? – chiese Peter seguendolo.
L'uomo non gli rispose e accelerò il passo.
– Non corra, per favore. Deve aiutarmi a trovare mio figlio. Lei ci mette i muscoli e io l'intelligenza.
– Non mi segua! Io non la conosco.
– Neanch'io conosco lei, ma mi dà delle buone vibrazioni e c'è sempre una prima volta – gli disse, nonostante quel tipo emettesse un odore misto tra sudiciume e alcol e il suo aspetto fisico fosse tutto fuorché tranquillizzante.
– Io non so dov'è suo figlio. Non sarebbe meglio che andasse alla polizia?
Peter non si era accorto che durante la loro conversazione l'uomo si era avvicinato sempre di più a una stazione di polizia e che stava salutando con un lieve movimento della testa un poliziotto in uniforme che stava sorvegliando la porta principale.
Si ricordò dell'avvertimento del dentista. Lui non aveva intenzione di entrarci, era meglio che si allontanasse di soppiatto.
Con un altro segnale il tizio, un poliziotto in borghese per essere più precisi, indicò a un altro poliziotto che doveva arrestare Peter.
Tale poliziotto si avvicinò veloce e silenzioso a Peter e, una volta al suo fianco, gli disse:
– Venga con me, per favore.
Peter si allontanò un po' di più, non aveva mai avuto un buon rapporto con il corpo di polizia e non aveva intenzione di vedere se questa volta sarebbe stato diverso. Il poliziotto si mise di nuovo al suo fianco e lo afferrò per il braccio.
– Non mi faccia usare la forza – gli disse.
– Mi lasci! – gridò Peter mentre si muoveva come un'anguilla —. Le ho detto di lasciarmi!
– Resistenza all'autorità. Ha diritto a… – Il poliziotto gli lesse i suoi diritti mentre lo ammanettava.
Peter si ritrovò di nuovo ammanettato, proprio come gli era successo varie volte in passato. Sapeva che adesso l'avrebbero obbligato a entrare in commissariato e non sapeva quando l'avrebbero lasciato andare, ma era anche cosciente del fatto che aveva un dovere da compiere: ricordava che doveva trovare suo figlio scomparso. Così, senza pensarci due volte, diede un calcio allo stinco del poliziotto e corse fuori più veloce che poté.
Però aveva le braccia ammanettate sulla schiena, cosa che gli faceva perdere l'equilibrio, creandogli delle difficoltà nel camminare, finché alla fine, dopo un ultimo passo falso, baciò il suolo.
– Ahia! – si lamentò e cercò di alzarsi. Gli faceva molto male il naso.
In quell'istante un'ombra alta gli si avvicinò mettendosi davanti a lui e posando una mano sulla sua spalla.
– Mi sembra che sia rotta, fratellino – disse e, nonostante la sua sobrietà, dal tono di voce si capiva che la situazione lo stava divertendo —. Andiamo, abbiamo delle cose da fare.
Ücretsiz ön izlemeyi tamamladınız.