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Kitabı oku: «I misteri del castello d'Udolfo, vol. 3», sayfa 9

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La vista di quella florida città piena di persone di tante diverse nazioni, ed i loro svariati abbigliamenti, rammentarono ad Emilia le mascherate di Venezia in tempo del carnevale; ma non vi regnava il brio e l'allegria dei Veneziani, essendo tutta gente occupata nel commercio.

Dupont corse al porto, e seppe che un bastimento doveva far vela in breve per Marsiglia, dove avrebbero potuto trovare facilmente un imbarco per traversare il golfo di Lione e giungere a Narbona. Il convento, nel quale Emilia voleva ritirarsi era situato a poca distanza da questa città. La fanciulla fu dunque lietissima nel sentire che il suo viaggio per la Francia non avrebbe sofferto verun ostacolo. Non temendo più d'essere inseguita, e sperando rivedere in breve la sua cara patria ed il paese abitato da Valancourt, si trovò talmente sollevata, che, dopo la morte di suo padre, non aveva passati mai momenti così tranquilli. Dupont fu informato a Livorno che il suo reggimento era tornato in Francia: questa notizia lo colmò di gioia, giacchè in caso diverso non avrebbe potuto accompagnarvi Emilia senza esporsi ai rimproveri, e fors'anco al castigo del suo colonnello. Seppe reprimere la sua passione fino al punto di non parlarne più alla fanciulla, obbligandola così a stimarlo ed a compiangerlo, se non poteva amarlo.

CAPITOLO XXXV

Torniamo ora in Linguadoca, ed occupiamoci del Conte di Villefort, lo stesso che aveva ereditato i beni del marchese di Villeroy, in vicinanza del monastero di Santa Chiara. Rammentiamoci che quel castello era disabitato, allorquando Emilia si trovò in quelle vicinanze con suo padre, e che Sant'Aubert parve assai commosso, allorchè seppe di trovarsi così vicino al castello di Blangy. Il buon Voisin aveva fatti discorsi molto allarmanti per la curiosità d'Emilia a proposito di quel luogo.

Nel 1584, anno in cui Sant'Aubert morì, Francesco di Beauveau, conte di Villefort, prese possesso dell'immensa tenuta chiamata Blangy, situata in Linguadoca, sulle sponde del mare. Queste terre per parecchi secoli avevano appartenuto alla sua famiglia, e gli ritornavano per la morte del marchese di Villeroy suo parente, uomo di carattere austero e di maniere riservatissime. Questa circostanza, unita ai doveri della sua professione, che lo chiamavano spesso alla guerra, aveva impedita ogni specie d'intrinsichezza tra lui ed il conte di Villefort. Si conoscevano poco, ed il conte non seppe la sua morte se non quando ricevè il testamento che lo faceva padrone di Blangy. Non andò a visitare i suoi nuovi possessi se non un anno dopo, e vi passò tutto l'autunno. Si rammentava spesso Blangy co' vivi colori che presta l'immaginazione alla rimembranza dei diletti giovanili. Ne' suoi primi anni, aveva conosciuta la marchesa, e visitato quel soggiorno nell'età in cui i piaceri restano sensibilmente impressi. L'intervallo scorso in appresso fra il tumulto degli affari, che troppo spesso corrompono il cuore e guastano la fantasia, non aveva però mai cancellato dalla sua memoria i giorni felici passati in Linguadoca.

Il defunto marchese aveva abbandonato il castello da molti anni, ed il suo vecchio agente l'aveva lasciato cadere in rovina. Il conte prese dunque il partito di passarvi l'autunno per farlo restaurare. Le preghiere e le lagrime ben anco della contessa, che sapeva piangere all'ocorrenza, non ebbero il potere di fargli cambiar risoluzione. Essa dovette dunque acconciarsi a permettere ciò che non poteva impedire, e a partir da Parigi. La sua bellezza la facea ammirare, ma il di lei spirito era poco adatto ad ispirare stima. L'ombra misteriosa dei boschi, la grandezza selvaggia dei monti, e la solitudine imponente delle sale gotiche, delle lunghe gallerie, non le offrivano che una trista prospettiva. Procurava di farsi coraggio pensando ai racconti statile fatti sulla bella vendemmia di Linguadoca, ma ivi non si conoscevano le contraddanze di Parigi, e le feste campestri dei contadini non potevano lusingare un cuore, dal quale il lusso e la vanità avean bandito da tanto tempo il gusto della semplicità e le buone inclinazioni.

Il conte aveva due figli del primo letto, e volle che venissero con lui. Enrico, in età di venti anni, era già al servizio militare; Bianca, che non ne aveva ancora diciotto, era sempre nel convento, dove l'avean messa all'epoca delle seconde nozze del padre. La contessa non aveva talenti bastanti per dare una buona educazione alla figliastra, nè il coraggio per intraprenderla, e perciò aveva consigliato il marito ad allontanarla; temendo quindi che una bellezza nascente venisse ad eclissare la sua, aveva impiegato in seguito tutta l'arte per prolungare la reclusione della fanciulla. La notizia ch'essa usciva di monastero fu per lei di gran mortificazione, la quale però mitigossi considerando che, se Bianca usciva dal chiostro, l'oscurità della provincia avrebbe sepolte le sue grazie per qualche tempo.

Il giorno della partenza, la carrozza del conte si fermò al convento. Il cuore della giovinetta palpitava di piacere alle idee di novità e libertà che le s'offrivano. A misura che si avvicinava l'epoca del viaggio, la sua impazienza crebbe al punto di contar perfino i minuti che le mancavano a finir quella notte. Appena spuntata l'alba, Bianca era balzata dal letto per salutare quel bel giorno, in cui sarebbe stata liberata dai vincoli del chiostro, per andar a godere la libertà in un mondo, ove il piacere sorride sempre, la bontà non si altera mai, e regna col piacere senza verun ostacolo. Quando intese suonare il campanello, corse al parlatorio, udì il rumore delle ruote e vide fermarsi nel cortile la carrozza di suo padre: ebbra di gioia, correva pei corridoi annunziando alle amiche la sua imminente partenza. Una monaca venne a cercarla per ordine della superiora, che scese alla porta onde ricevere la contessa, la quale parve a Bianca un angelo sceso per condurla al tempio della felicità. La contessa però, nel vederla, non fu animata dagl'istessi sentimenti. Bianca non era mai parsa tanto amabile, ed il sorriso dell'allegrezza dava a tutta la sua fisonomia la beltà dell'innocenza felice. Dopo un breve colloquio, la contessa si congedò: era il momento che Bianca attendeva con impazienza, come l'istante in cui stava per cominciare la sua felicità; ma non potè astenersi dal versar lacrime, abbracciando le sue compagne che piangevano egualmente nel dirle addio. La badessa, così grave, così imponente, la vide partire con un dispiacere, di cui non si sarebbe creduta capace un'ora prima. Bianca uscì dunque piangendo da quel soggiorno, ch'erasi immaginata di abbandonar ridendo.

La presenza del padre, le distrazioni del viaggio assorbirono presto le sue idee, e dispersero quell'ombra di sensibilità. Poco attenta ai discorsi della contessa e di madamigella Bearn sua amica che l'accompagnava; ella perdeasi in soavi meditazioni; vedeva le nubi tacite solcar l'azzurro firmamento velando il sole, ed oscurando così tratti di paese con bella alternativa di ombre e di luce. Quel viaggio fu per Bianca un seguito di piaceri; la natura, ai suoi occhi, variava ogni momento, mostrandole le più belle ed incantevoli vedute.

Verso la sera del settimo giorno, i viaggiatori scorsero in lontananza il castello di Blangy. La sua pittoresca situazione impressionò molto la fanciulla. A misura che si avvicinavano, ammirava la gotica struttura, le superbe torri, la porta immensa dell'antico edificio; essa credeva quasi d'avvicinarsi ad uno di que' castelli celebrati nell'istorie antiche, dove i cavalieri vedevano dai merli un campione col suo seguito, vestito di negra armatura, venire a strappar la dama de' suoi pensieri dall'oppressione d'un orgoglioso rivale. Essa aveva letto questa novella nella libreria del monastero, ripiena di cronache antiche.

Le carrozze si fermarono ad una porta che metteva nel recinto del castello, e che allora era chiusa. La grossa campana che serviva ad annunziar gli stranieri era da lunga pezza caduta; un servo salì sur un muro rovinato, per avvertire l'agente dell'arrivo del padrone. Bianca, appoggiata allo sportello, considerava con emozione i luoghi circostanti. Il sole era tramontato, il crepuscolo avvolgeva i monti; il mare lontano ripercotea ancora all'orizzonte una striscia di luce. Udivasi il fragor monotono dell'onde che venivano a frangersi sul lido. Ciascuno della compagnia pensava ai diversi oggetti che più l'interessavano. La contessa sospirava i piaceri di Parigi, vedendo con pena ciò ch'ella chiamava orridi boschi e selvaggia solitudine; penetrata dall'unica idea di dover essere sequestrata in quell'antico castello, si doleva di tutto. I sentimenti d'Enrico erano eguali; pensava sospirando alle delizie della capitale e ad una vaghissima dama ch'egli amava; ma il paese, ed un genere di vita diverso, avevano per lui l'incantesimo della novità ed il suo rincrescimento era mitigato dalle ridenti illusioni della gioventù.

Le porte s'apersero alfine; la carrozza penetrò lentamente tra folti castagni che impedivan la vista. Era il viale di cui già s'erano internati Sant'Aubert ed Emilia nella speranza di trovare un asilo vicino.

« Che brutti luoghi! » sclamò la contessa; « certo, voi non contate, signore, restare tutto l'autunno in questa barbara solitudine. Bisognerebbe aver portata una bottiglia d'acqua di Lete, affinchè almeno la rimembranza d'un paese meno sgradevole non aumentasse la tristezza di questo.

– Io mi regolerò secondo le circostanze, » rispose il conte; « questa barbara solitudine era l'abitazione de' miei antenati. »

Il custode del castello insieme ai servi stati mandati anticipatamente da Parigi, ricevettero il padrone all'ingresso del portico. Bianca riconobbe che l'edifizio non era intieramente di stile gotico. La sala immensa in cui entrarono non era però di gusto moderno. Un finestrone lasciava vedere un piano inclinato di verzura, formato dalla cima degli alberi sul pendìo del colle, ove sorgea il castello. Si scorgevano al di là le onde del Mediterraneo perdersi, a mezzogiorno od a levante, nell'orizzonte.

Bianca, nel traversar la sala, si fermò ad osservare un sì bel colpo d'occhio, ma ne fu presto riscossa dalla contessa la quale, malcontenta di tutto, impaziente di rifocillarsi e di riposare, si affrettò di giungere ad un salotto, adorno di mobili antichissimi, ma riccamente guarniti di velluto e di frange d'oro.

Mentre la contessa aspettava qualche rinfresco, il conte, in compagnia d'Enrico, visitavano l'interno del castello. Bianca rimase testimone, suo malgrado, del cattivo umore e del malcontento della matrigna.

« Quanto tempo passaste voi in questo tristo soggiorno? » chiese la contessa alla moglie del custode, quando venne ad offrirle il suo omaggio.

– Saranno trent'anni, signora, al dì di san Lorenzo.

– Come avete fatto a starvi così tanto e quasi sola? Mi fu detto però che il castello è rimasto chiuso per qualche tempo.

– Sì, signora, qualche mese dopo che il defunto signor marchese mio padrone fu partito per la guerra; sono più di venti anni che mio marito ed io siamo al di lui servizio. Questa casa è così grande e deserta, che in capo a qualche tempo andammo ad abitare vicino al villaggio, e venivamo solo tratto tratto a visitare il castello. Allorchè il mio padrone finì le sue campagne, avendo preso in avversione questo soggiorno, non ci tornò più, e non volle che abbandonassimo la nostra dimora. Ma ohimè! Quanto è cambiato il castello da quell'epoca! La mia povera padrona vi abitava col massimo piacere, e mi ricorderò sempre di quel giorno che arrivò qui dopo essersi sposata! Com'era bella! Da allora il castello venne sempre negletto, ed io non passerò più giorni così felici. »

La contessa parve quasi offesa dai discorsi ingenui di quella buona donna sui tempi passati, e Dorotea soggiunse: « Il castello però sarà nuovamente abitato; ma io non vi starei sola per tutto l'oro del mondo. »

L'arrivo del conte fece cessare le ciarle della vecchia. Egli le disse che aveva visitato buona parte del castello, il quale aveva bisogno di molti risarcimenti prima di essere abitabile.

« Me ne spiace, » disse la contessa.

– E perchè, signora?

– Perchè questo luogo corrisponderà male a tante premure. »

Il conte non replicò, e voltossi bruscamente verso una finestra.

La cameriera della contessa entrò; questa chiese di essere accompagnata nel suo appartamento, e si ritirò unitamente alla signora Bearn.

Bianca, profittando della poca luce diurna che restava ancora, andò a far nuove scoperte. Dopo aver percorso vari appartamenti, si trovò in una vasta galleria adorna d'antichissimi quadri e di statue rappresentanti, a quanto le parve, i suoi antenati. Cominciava ad annottare, e si affacciò ad una finestra, ove contemplò con interesse la vista imponente di quei luoghi meravigliosi, udendo il sordo e lontano mormorio del mare, ed abbandonandosi così all'entusiasmo di quella scena affatto nuova per lei.

– Ho io dunque vissuto tanto tempo in questo mondo, diceva fra sè medesima, senza aver veduto questo stupendo spettacolo, senza aver gustate queste delizie! La più umile villana dei beni di mio padre, avrà veduto fin dall'infanzia il bel colpo d'occhio della natura, e percorse liberamente queste posizioni pittoresche, ed io, nel fondo d'un chiostro, rimasi priva di queste meraviglie, che devono incantare la vista e rapire tutti i cuori! Com'è mai possibile che quelle povere monache, quei poveri frati possano provare un violento fervore, se non vedono nè sorgere, nè tramontare il sole? Io non ho mai conosciuto ciò ch'è veramente la devozione fino a stasera. Fino a questa sera io non aveva mai veduto il sole lasciare il nostro emisfero. Domani io lo vedrò sorgere per la prima volta. Com'è possibile di vivere a Parigi, non vedendo che case oscure e vie fangose, quando alla campagna si può vedere la vôlta azzurra del cielo e il verde smalto della terra? —

Questo soliloquio venne interrotto da un lieve rumor di passi, ed avendo Bianca domandato chi fosse, udì rispondersi: « Son io, Dorotea, che vengo a chiudere le finestre. » Il tuono di voce però col quale pronunziò queste parole sorprese alquanto Bianca. « Mi sembrate spaventata; » le disse; « chi vi ha fatto paura?

– No, no, non sono spaventata, signorina, » rispose Dorotea titubando. « Io son vecchia e poco ci vuole per turbarmi. Son lieta però che il signor conte sia venuto ad abitare in questo castello, il quale è stato deserto per tanti anni; ora somiglierà un poco al tempo in cui viveva la mia povera padrona. » Bianca le domandò da quanto tempo fosse morta la marchesa. « Ne è già passato tanto ch'io mi sono stancata di contar gli anni. Il castello da quell'epoca mi è sempre parso in lutto, e son certa che i vassalli l'hanno sempre in cuore. Ma voi vi siete smarrita, signorina. Volete tornare nell'altra parte della casa? »

La fanciulla domandò da quanto tempo fosse fabbricato il quartiere in cui si ritrovavano. « Poco dopo il matrimonio del mio padrone, » rispose Dorotea. « Il castello era bastantemente grande senza questo accrescimento. Vi sono nell'antico edifizio molti appartamenti, di cui si è mai servito. È un'abitazione principesca; ma il mio padrone la trovava trista, come lo è infatti. » Bianca le disse di condurla nel quartiere abitato; Dorotea la fece passare per un cortile, aprì la gran sala, e vi trovò la signora Bearn. « Dove siete stata fino ad ora? » le disse questa. « Cominciava a credere che vi fosse accaduta qualche avventura sorprendente, e che il gigante di questo castello incantato, o lo spirito che vi comparisce, vi avessero gettata da un trabocchetto in qualche sotterraneo per non lasciarvi uscire mai più.

– No, » rispose Bianca ridendo; « voi sembrate tanto amante delle avventure, che io ve le regalo tutte.

– Ebbene! v'acconsento, purchè un giorno possa raccontarle.

– Mia cara signora Bearn, » disse Enrico entrando nella sala, « gli spiriti odierni non sarebbero tanto scortesi per cercar di farvi tacere. I nostri spettri son troppo inciviliti per condannare una signora ad un purgatorio più crudele del loro, qualunque esso sia. »

La Bearn si mise a ridere; entrò Villefort, e fu servita la cena. Il conte parlò pochissimo, parve astratto e fece spesso l'osservazione che dall'epoca in cui non l'aveva veduto, il castello era molto cambiato. « Sono scorsi molti anni, » diss'egli, « i siti sono i medesimi, ma mi fanno un'impressione ben diversa da quella ch'io provava altre volte.

– Questo luogo vi è parso forse per l'addietro più piacevole che adesso? » disse Bianca; « mi pare impossibile. »

Il conte la guardò con sorriso malinconico. « Era per l'addietro tanto delizioso a' miei occhi, quanto lo è ora ai vostri. Il paese non è cambiato, ma ho cambiato io col tempo. L'illusione del mio spirito godeva alla vista della natura; ora essa è perduta! Se nel corso della vostra vita, cara Bianca, voi tornerete in questi luoghi, dopo esserne stata assente per molti anni, vi rammenterete forse i sentimenti di vostro padre, ed allora li comprenderete. »

Bianca tacque, afflitta da tali parole, e rivolse le sue idee all'epoca di cui parlava il conte. Considerando che chi le parlava allora probabilmente non esisterebbe più, chinò gli occhi, e sentendoli pregni di lagrime, prese la mano del padre, gli sorrise con tenerezza, e andò alla finestra per nascondere l'emozione.

La stanchezza del viaggio obbligò la compagnia a separarsi di buon' ora. Bianca, traversando una lunga galleria, si ritirò nel suo appartamento, luogo spazioso, colle finestre alte, il cui aspetto lugubre non era acconcio ad indennizzare della posizione quasi isolata in cui si trovava. I mobili n'erano antichi, il letto di damasco turchino, guarnito di frange d'argento. Tutto era per la giovine Bianca oggetto di curiosità. Prese il lume della donna che l'accompagnava per esaminare le pitture del soffitto, e riconobbe un fatto dell'assedio di Troia. Si divertì un poco a rilevare le assurdità della composizione, ma quando riflettè che l'artista che l'aveva eseguita, ed il poeta d'onde aveva ricavato il soggetto non erano più che fredda cenere, fu colta dalla malinconia.

Diede ordine di essere svegliata prima del sorger del sole, rimandò la cameriera e volendo dissipare quell'ombra di tristezza, aprì una finestra, e si rianimò alla vista della natura. La terra, l'aria ed il mare, tutto era tranquillo. Il cielo era sereno: qualche leggero vapore ondeggiava lentamente nelle più alte regioni, aumentando lo splendore delle stelle, che scintillavano come tanti soli. I pensieri di Bianca s'innalzarono involontariamente al grande Autore di quegli oggetti sublimi. Fece una preghiera più fervida di quelle non avesse mai fatto sotto le tristi vôlte del chiostro; poi a mezzanotte si coricò, e non ebbe che sogni felici. Dolce sonno, conosciuto soltanto dalla salute, dall'animo contento e dall'innocenza!

CAPITOLO XXXVI

Bianca dormì assai più dell'ora indicata con tanta impazienza: la sua cameriera, stanca dal viaggio, la destò solo per l'ora della colazione. Questo dispiacere fu tosto dimenticato, quando, aprendo la finestra, vide da una parte l'ampio mare colorito dai raggi del mattino, le candide vele delle barche ed i remi che fendevano le onde; dall'altra, i boschi, la loro freschezza, le vaste pianure, e le azzurre montagne che tingevansi dello splendore del giorno.

Respirando quell'aria pura, le sue guance si colorirono di porpora, e facendo la sua preghiera: « Chi ha mai potuto inventare i conventi? » diss'ella; « chi ha potuto pel primo persuadere ai mortali di recarvisi, e col pretesto della religione, allontanarli da tutti gli oggetti che l'ispirano? L'omaggio d'un cuore riconoscente è quello che ci chiede Iddio; e quando veggonsi le sue opere, non si è grati? Non ho mai sentita tanta divozione, in tutte le ore noiose, trascorse in convento, come nei pochi minuti che ho passati qui. Io guardo intorno e adoro Iddio dal fondo del cuore. »

Sì dicendo si ritrasse dalla finestra, e traversando la galleria, entrò nella sala da pranzo, ove trovò il padre. Il fulgido sole aveva dissipato la sua tristezza; il riso ne sfiorava le labbra: parlò alla figlia con serenità, ed il cuore di lei corrispose a quella dolce disposizione. Comparvero poco dopo Enrico, la contessa e madamigella Bearn, e tutta la compagnia parve risentir l'influenza dell'ora e del luogo.

Si separarono dopo colazione. Il conte si ritirò nel suo gabinetto coll'intendente. Enrico corse alla riva per esaminare un battello, di cui dovevano servirsi l'istessa sera, e vi fece adattare una piccola tenda. La contessa e madamigella Bearn andarono a vedere un appartamento moderno costruito con eleganza. Le finestre guardavano sopra un terrazzo in faccia al mare, evitando così la vista de' selvaggi Pirenei.

Bianca intanto si divertiva a vedere le parti dell'edifizio che non conosceva ancora. La più antica attirò tosto la di lei curiosità. Salì lo scalone, e traversando un'immensa galleria, entrò in una fila di stanze, dalle pareti ornate d'arazzi, o coperte di cedro intarsiato a colori; i mobili sembravano della medesima data del castello; gli ampi camini offrivano la fredda immagine dell'abbandono: tutte quelle stanze portavano tanto bene l'impronta della solitudine e della desolazione, che coloro, i cui ritratti vi erano appesi, ne parevano stati gli ultimi abitatori.

Uscendo di là, si trovò in un'altra galleria, una delle cui estremità riusciva ad una scala, e l'altra ad una porta chiusa. Scesa la scala, si ritrovò in una stanzetta della torre di ponente. Tre finestre presentavano tre punti di vista diversi e sublimi: al nord la Linguadoca; a ponente i Pirenei, le cui cime coronavano il paese; al mezzogiorno, il Mediterraneo e parte della costa del Rossiglione. Uscì dalla torre, e scendendo per una scala strettissima, si ritrovò in un andito oscuro, ove si smarrì. Non potendo ritrovare il suo cammino, e l'impazienza facendo luogo al timore, gridò aiuto. Udì camminare all'estremità dell'andito e vide brillare un lume tenuto da una persona la quale aprì una porticina con cautela. Non osando inoltrarsi, Bianca l'osservava tacendo, ma allorchè vide che la porta si rinchiudeva, chiamò nuovamente, corse a quella volta, e riconobbe la vecchia Dorotea.

« Ah! siete voi, cara padroncina? » diss'ella « come mai poteste venire in questo luogo? » Se Bianca fosse stata meno occupata dalla sua paura, avrebbe probabilmente osservato la forte espressione di terrore e sorpresa che alterava la fisonomia di Dorotea, la quale la fece passare per un numero infinito di stanze, che, parevano disabitate da un secolo. Giunte finalmente alla residenza della custode, Dorotea la pregò di sedere e rinfrescarsi. Bianca, accettando l'invito, parlò della bella torre scoperta, e mostrò il desiderio di appropriarsela. Sia che Dorotea fosse meno sensibile alle grandi bellezze della natura, o che l'abitudine glie le avesse reso meno interessanti, non incoraggì l'entusiasmo di Bianca, la quale, domandò ove conducesse la porta chiusa in fondo alla galleria. L'altra rispose che comunicava con una fila di stanze nelle quali nessuno era entrato da molti anni.

« La nostra defunta padrona è morta colà, ed io non ho più avuto il coraggio di penetrarvi. »

Bianca, curiosa di veder quel luogo, si astenne dal farne domanda a Dorotea, vedendole gli occhi molli di pianto: poco dopo andò ad abbigliarsi per il pranzo. Tutta la società si riunì di buon umore, tranne la contessa, il cui spirito, assolutamente vuoto, oppresso dall'ozio, non poteva nè renderla felice, nè contribuire all'altrui contentezza.

L'allegria provata da Bianca nel riunirsi alla sua famiglia, si moderò allorquando fu sulla riva del mare, e guardò con paura quella gran distesa di acque. Da lontano l'avea osservata con entusiasmo; ma stentò a vincere il timore e seguire il padre in battello.

Contemplava tacendo il vasto orizzonte, che circoscriveva solo la vista del mare, una sublime emozione lottava in lei contro il sentimento del pericolo. Un lieve zeffiro increspava la superficie dell'acque, sfiorando le vele ed agitando le frondi delle foreste che coronavano la costa per molte miglia.

A qualche distanza esisteva in que' boschi un casino stato in altri tempi l'asilo dei piaceri, e per la sua posizione sempre interessante e pittoresco. Il conte vi aveva fatto portare il caffè ed i rinfreschi. I rematori si diressero a quella parte, costeggiando le sinuosità della riva, oltre il vasto selvoso promontorio e la circonferenza di una baia, mentre in un secondo battello alcuni suonatori facevano echeggiar i circostanti dirupi di belle melodie. Bianca non temeva più; una deliziosa tranquillità si era impossessata di lei, e la faceva tacere. Era troppo felice per rammentarsi il monastero, e la noia ivi provata per tanto tempo.

Dopo un'ora di navigazione, presero terra e salirono per uno stretto sentiero sparso di fiorite zolle. A poca distanza, e sulla punta di un'eminenza, si vedova il casino ombreggiato dagli alberi. Benchè preparato in tutta fretta, esso era bastantemente decente. Mentre la compagnia prendeva i rinfreschi e mangiava le frutta, i musicanti interrompevano la quiete deliziosa di quel luogo isolato. Il casino giunse perfino ad interessar la contessa, la quale, forse pel piacere di parlare di cose appartenenti al lusso, si diffuse a lungo sulla necessità di abbellirlo.

Dopo una passeggiata molto lunga, la famiglia tornò ad imbarcarsi. La bellezza della sera l'indusse a prolungare la gita ed avanzarsi nella baia. Una calma perfetta era succeduta al vento, che fin allora aveva spinto il battello, ed i marinai diedero mano ai remi. Bianca si compiaceva nel veder remare; osservava i cerchi concentrici formati nell'acqua dai colpi, ed il tremolìo che imprimevano nel quadro del paese senza sfigurarne l'armonia. Al disopra dell'oscurità del bosco distinse un gruppo di torricelle tuttavia illuminate dai raggi del sole, ed in un intervallo di silenzio della musica udì un coro di voci.

« Che voci son queste? » disse il conte, ascoltando attentamente; ma il canto cessò, – È l'inno del vespro, » disse Bianca, « io l'ho inteso in convento. – Noi siamo dunque vicini ad un monastero? » disse il conte; ed il battello avendo spuntato un capo molto alto, videro il convento di Santa Chiara in fondo ad una piccola baia: il bosco che lo circondava, lasciava vedere parte dell'edificio, la porta maggiore, la finestra gotica dell'atrio, il chiostro ed un lato della cappella; un arco maestoso che univa anticamente la casa ad un'altra porzione degli edifizi, allora demolita, restava come una rovina venerabile staccata da tutto l'edifizio.

Tutto era in profondo silenzio, e Bianca osservava con ammirazione quell'arco maestoso, il cui effetto cresceva colle masse di luce e d'ombra, che spandeva il tramonto coperto di nubi. In quella l'imponente inno de' vespri ricominciò, accompagnato dal grave suono dell'organo; poi il coro andò affievolendosi gradatamente, e si spense quindi affatto. Mentre erano tutti intenti ad ascoltare con religioso raccoglimento, videro uscire dal chiostro una processione di monache vestite di nero con un velo bianco in testa, passare pel bosco, e girare intorno al monastero. La contessa fu la prima a rompere il silenzio. « Quest'inno e queste religiose sono d'una tristezza che mi opprime, » diss'ella; « comincia a farsi tardi; ritorniamo al castello, e sarà già notte prima che noi vi siamo arrivati. » Il conte alzò gli occhi, e si accorse che una tempesta minacciosa anticipava l'oscurità. Gli uccelli marini s'aggiravano sull'onde, vi bagnavan le penne, e fuggivan verso qualche asilo lontano; i marinai facevan forza di remi, ma il tuono romoreggiante da lontano, e la pioggia, che già principiava a cadere, determinarono il conte a cercar ricovero nel monastero. Il battello cambiò direzione, ed a misura che la tempesta si avvicinava a ponente, l'aria diveniva più oscura, e i frequenti lampi infiammavano la sommità degli alberi ed i comignoli del convento. L'apparenza de' cieli allarmò la contessa e la Bearn, le cui strida ed i pianti inquietarono il conte ed i rematori. Bianca si teneva in silenzio, ora agitata dal timore, ora dall'ammirazione: osservava la grandezza delle nubi, il loro effetto sulla scena, ed ascoltava gli scrosci della folgore che scuotevano l'aere.

Il battello si fermò in faccia al monastero. Il conte mandò un servo ad annunziare il suo arrivo alla superiora e chiederle asilo. Benchè l'ordine di Santa Chiara fosse fino da quell'epoca poco austero, le donne sole potevano essere ricevute nel santo recinto. Il servitore riportò una risposta che spirava al tempo stesso l'ospitalità e l'orgoglio, ma un orgoglio nascosto sotto il velo della sommissione. Sbarcarono, e traversato velocemente il prato a motivo della pioggia dirotta, furono ricevuti dalla superiora che prima stese la mano ed impartì la benedizione. Passarono in una sala, ove trovavansi alcune religiose tutte vestite di nero e velate di bianco. Il velo della badessa però era semialzato, e lasciava scorgere una dolce dignità temperata da cortese sorriso. Ella condusse la contessa, la Bearn e Bianca in un salotto, ed il conte con Enrico restarono nel parlatorio.

La badessa domandò i rinfreschi, ed intanto discorse colla contessa. Bianca, avvicinandosi ad una finestra, potè considerare i progressi della burrasca; le onde del mare, che pochi momenti prima parevano ancora addormentate, si gonfiavano enormemente, infrangendosi senza interruzione contro la costa. Un colore sulfureo circondava le nubi, che si addensavano a ponente, mentre i lampi illumiminavano da lontano le rive della Linguadoca: tutto il resto era avvolto nelle tenebre. In qualche intervallo, un lampo dorava le ali d'un uccello marino che volava nelle più alte regioni, o si posava sulle vele d'una nave in balìa dei marosi. Bianca osservò per qualche tempo il pericolo di quel bastimento, sospirando sul destino dell'equipaggio e dei passaggeri.

Infine, l'oscurità divenne completa. Il bastimento si distingueva appena, e Bianca fu costretta a chiuder la finestra per l'impeto del vento. La badessa, avendo esauriti colla contessa tutti i complimenti di civiltà, ebbe campo di rivolgersi a Bianca. La loro conversazione venne presto interrotta dal suono della campana che invitava le monache alla preghiera, giacchè la burrasca andava sempre crescendo. I servi del conte erano iti al castello per far venire le carrozze, le quali giunsero sul finir della preghiera. La tempesta essendo meno violenta, il conte tornò al castello colla sua famiglia. Bianca fu sorpresa di vedere quanto si fosse ingannata sulla distanza del monastero per le sinuosità della spiaggia.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
03 ağustos 2018
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160 s. 1 illüstrasyon
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