Kitabı oku: «...Sorella di Messalina», sayfa 7
XX
Alberto spalancò la porta dello studio e sostò sul limitare: gli mancava il respiro; il cuore gli martellava scotendolo dalla testa ai piedi ad ogni pulsazione.
Si guardò intorno nella grande stanza vividamente illuminata: era deserta.
Con rapido passo traversò lo studio andando verso la porta chiusa della sua camera da letto. Colla mano già sulla portiera che la drappeggiava, sostò: sulla tavola aveva scorto una lettera—una busta senza indirizzo—un quadrato bianco sul rosso cupo del tappeto.
Quel quadrato bianco gli fermò lo sguardo repentinamente con una forza ipnotizzante.
I ginocchi gli tremarono: sentì che in quell'istante nella sua vita avveniva un cambiamento: gli parve che immediatamente dietro a lui sprofondasse il suo passato; che immediatamente dinanzi a lui l'avvenire si spalancasse in una voragine; ed egli, ritto sullo stretto orlo tra quei due abissi, barcollò come colto da vertigine.
Andò alla tavola, prese la lettera: l'aprì.
I lunghi caratteri inclinati danzarono confusi un istante davanti ai suoi occhi, poi si fermarono, si fissarono.
Egli lesse:
«Amor mio,
«Quando leggerai queste righe io ti sarò vicina... ma pur lontana; tanto lontana che la tua voce non potrà più giungere fino a me; nè mai, nè mai mi potrai più richiamare.
«Leggendo questo avrai un sussulto—di stupore? d'ira? di disperazione?
«Che importa? L'irrevocabile sarà compiuto.
«E tu dopo lo strazio del primo momento, delle prime ore, dei primi giorni ritroverai la calma, riprenderai a vivere più sereno e più tranquillo; ed io sarò nel tuo ricordo null'altro che un episodio vago e lontano.
«Tu avrai parlato con Adriano; saprai tutto. Ti avrà detto che fui io, io a spingerlo a quell'atto indicibile e spaventoso. E avrai orrore di me.
«Forse se io ti parlassi—colle tue mani nelle mie mani, coi miei occhi nei tuoi—potrei attenuare la mia colpa, convincerti che in quel tragico fatto fui più sventurata che malvagia, più aberrata che abominevole.
«Ma io non ho il coraggio di affrontare una spiegazione burrascosa con te. Un'improvvisa immensa stanchezza mi assale, un desiderio di sfuggire a tutte le spiegazioni e a tutte le burrasche.
«E il pensiero del tuo imminente ritorno afforza e affretta il mio proposito.
«Là nella tua camera, sui tuoi guanciali, dove tante volte mi hai sognata, stasera mi ritroverai.
«Ma non aprire, non aprire ancora la porta! Leggi prima; leggi e comprendi!...
«E perdona.
«Io sento che non ho più nulla da domandare alla vita; e non ho più nulla da domandare a te. Entrambi mi avete dato tutto ciò che potevo chiedere.
«Ora basta. Tutto ha una fine. Anche la mia sete di sconfinate passioni, di travolgenti ebbrezze.
«La coppa dei miei desiderî è vuota.
. . . . . .
«Ricordi l'idea d'un quadro che un giorno ti suggerii e che tu non volesti dipingere? Si doveva intitolare: «La Riluttante». E raffigurava uno spaventoso Vecchio—calmo e inesorabile, colla clessidra e la falce—che teneva per mano una Donna, trascinandola verso la nubilosa vallata della Morte.
«Ebbene, quel bieco Vegliardo mi ha raggiunta; mi ha afferrata, mi trae con sè; ed io non mi posso fermare.
«A me nemico, a te consolatore—il Tempo urge ed incalza. A te reca il balsamo per tutte le ferite, a me porta ogni ora una ferita nuova. Te spinge alle soleggiate vette della gloria e della felicità, me trascina nelle gelide nebbie del crepuscolo. Te innalza; me soffoca e atterra.
«Per me, o mio amante, la falce s'abbassa. La clessidra si vuota.
«La clessidra che si vuota!... È un pezzo che l'ho sempre davanti agli occhi quella visione! È un pezzo che guardo, terrorizzata, la sabbia che scorre e fugge e cala; i giorni, le ore, i minuti che precipitano nel nulla, irrichiamabili, perduti.
«La clessidra che si vuota!
«Tu, mio diletto, non la vedi. Tu hai sugli occhi la benda meravigliosa e abbagliante della gioventù.
«E perciò tu non hai capito—non potevi capire—le mie angoscie, le mie frenesie... la mia fretta! Non capivi perchè io volessi da te in un solo istante, in un unico abbraccio, l'eternità e l'infinito. Ti pareva morboso e folle che io smaniassi così.
«E anche ora griderai:—Perchè? Perchè, se tu m'ami ed io ti amo, mi vuoi lasciare?
«È vero, è vero; oggi tu m'ami. Oggi io ti ho, ti tengo, ti posseggo—più profondamente forse di quanto tu stesso imagini! Ma so che questo non può essere eterno: ed io—come quelli che si uccidono per paura di morire—ti lascio per la paura di perderti.
«Sì; oggi sei mio. Tu, senza saperlo, cammini con me sull'orlo della Grande Tragedia; basterebbe una lieve spinta della mia mano, una leggera folata di ebbrezza, perchè anche tu precipitassi nel baratro, in quel baratro in cui altri già sparvero.
«Tu, o mio diletto, sfiori il «dramma passionale», il volgare dramma a forti tinte di cui, nella tua balda e sana giovinezza, hai sempre sorriso con scettica incredulità. Se restassimo insieme verrebbe il giorno in cui ti vedrei venirmi incontro con la folgore magnifica del delitto negli occhi: tu mi recheresti nella tua mano—dono portentoso!—il nero fiore della Morte.
«Ma questo io non voglio. Tu non devi perderti per me. Abbastanza ho sofferto e fatto soffrire. Io ti risparmio e ti salvo.
«Perciò ti lascio.
«Io sarò stata per te la Donna che passa e sparisce—la Tragedia che ti ha sfiorato e che ti lascia incolume.
. . . . . .
«O mio diletto, addio!»
XXI
Alberto rimase impietrito, immobile, lo sguardo stralunato fisso sul foglio; tratteneva il respiro; non osava nè muoversi nè alzare gli occhi. Un senso di terrore gli fasciava le membra come un lenzuolo diaccio.
Solo? Era solo, qui? O vi era qualcun altro, un'Ombra, una Presenza immateriale, là, accanto—separata da lui soltanto da quella portiera, da quell'uscio chiuso?
Piano, quasi avesse paura di farsi sentire, depose sulla tavola il foglio; poi volse cauto, lento, gli occhi in giro interrogando gli angoli più remoti della stanza. Dalle pareti, dai cavalletti lo guardavano i suoi quadri: i suoi quadri stonati e ambigui, dai colori falsi, dalle forme grottesche.
Paura! Paura! Tutto gli faceva paura: il silenzio, la solitudine, la vista di quelle figure contorte e immobili create da lui... e più di tutto il sinistro mistero della camera vicina.
A un tratto ebbe un sussulto. Là, sopra una sedia, erano buttati il cappello e la pelliccia di Raimonda.
—Raimonda!—fece, quasi in un singhiozzo. Ed ebbe paura che qualcuno gli rispondesse.
Solo! Era solo. Perchè, perchè era qui solo con questo spavento, con questo strazio? Gli pareva di essere un bambino perduto nella foresta; e avrebbe voluto gridar forte, invocare soccorso; ma l'idea di lacerare col suo primo urlo quel silenzio lo agghiacciò di nuovo terrore.
Indietreggiò verso la porta d'uscita; bisognava correre giù e chiamar gente...
Subitamente ebbe vergogna della sua viltà. No! bisognava affrontare il tremendo mistero di quella stanza: sollevare quella portiera, spalancare l'uscio... e guardare.
Chiara gli si presentò alla mente la visione di lei che ora vedrebbe, bianca e solenne sul grande letto dai tendaggi rossi.
Con un gemito si slanciò, ricacciò la portiera, sospinse l'uscio...
Il cuore gli dette un balzo. La camera, fiocamente illuminata, gli apparve deserta; il grande letto era vuoto e intatto.
Tremando si avanzò, poi gettò un grido. Là! là, nell'angolo... per terra, nell'ombra ... cos'era quell'ombra più scura?
Lei! Era lei!
—Raimonda! Raimonda!—Egli si precipitò ansante. La sollevò.—Raimonda!
Ed ora la trascinava verso la luce, le toccava smarrito la faccia e le mani. Viva!... era viva!
—Dio! Dio! Dio!... Vi ringrazio!
Ella gli si abbandonava molle e inerte tra le braccia, col volto livido e disfatto rovesciato all'indietro, le pupille, vaghe luci lattee, rivulse e semispente. E intorno alle sue labbra socchiuse biancheggiava una lieve traccia di polvere squamosa e lucente.
Con un rinnovato urlo di terrore il giovane la afferrò, la scosse.
—Cos'hai fatto? Parlami! Cos'hai fatto?
E i suoi sguardi folli interrogavano quel viso terreo, quella bocca biancastra; interrogavano tutta la stanza crepuscolare.
D'un tratto egli scorse sul divano, accanto a un fazzoletto sgualcito, una scatoletta, una piccola scatola di cartone aperta.
—Ah!—gridò esterrefatto,—che cosa hai preso? Sciagurata! Che cos'hai preso?
Gemendo la donna gli si abbattè sul petto.
—No... no... Lasciami... lasciami!
—Che cos'è?—urlò lui, sfiorandole la bocca colle mani e poi guardandosi con terrore le dita.—Che cos'è questo?
—No... no... Non ne ho preso!—singhiozzò lei. E soggiunse afona:—Ho avuto paura!
Egli sentì che diceva il vero. Ebbe come un colpo nelle vene... Il cuore, che gli si era fermato, riprese a battere; la stretta delle sue braccia intorno a quel fragile corpo si rallentò, si sciolse; ed ella cadde su una seggiola accanto al letto, colle braccia protese e la testa abbattuta sulle coltri.
Il giovane indietreggiò, preso da un senso di gelo. Una violenta reazione si faceva in lui. Dopo il primo impeto di gioia, di una gioia così acuta da essere quasi insostenibile, l'ondata d'estasi per averla ritrovata viva si tramutava in un fiotto d'esecrazione e d'ira.
Falsa, vile, bugiarda! Ella gli aveva inflitto a vuoto quella inutile angoscia. Falsa, vile, bugiarda!... Ella aveva scritto quella lettera straziante, per dilaniarlo, per torturarlo! Per farlo impazzire aveva inscenato questa finta tragedia, colla polvere sulle labbra e la scatola di veleno aperta.
Il sangue gli salì alle tempia; una vampata d'odio gli abbagliò la vista. Gli parve di doverla afferrare per le spalle, per i capelli; gli parve di doverla prendere alla gola e soffocarla perchè non mentisse più, perchè non parlasse più, perchè non respirasse più!
Lo spasimo fu troppo forte; egli d'un tratto si abbattè sul divano e scoppiò in pianto.
Vacillante ella sorse in piedi e gli fu accanto; ed egli sentì intorno al suo collo le braccia tremule di lei; nei suoi capelli i baci e le lagrime di lei.
—No, no! Adorato, adorato!... non piangere! Perdonami... perdonami!
E come egli, scosso da un tremito convulso, piangeva ancora, ella pianse con lui.
—Era meglio se morivo! Lo so ch'era meglio! Volevo, volevo morire...
Attese da lui la parola di protesta, di tenerezza; ma quella parola non venne. Ed ella continuò smarrita:
—Non piangere... sono qui... sono con te! Ti amo.
Il giovane balzò in piedi svincolandosi da lei, respingendola con un brivido d'avversione e d'orrore.
—Non parlar d'amore!—gridò, cogli occhi lampeggianti, i neri capelli scomposti sulla fronte.—Nefanda creatura! non parlar d'amore!
—Ti amo!—ripetè lei, accasciandosi ai suoi piedi e cingendogli colle braccia i ginocchi.
—Sì, tu m'ami!—gridò lui, respingendola.—Tu ami me come hai amato l'altro... come hai amato gli altri...
Un improvviso silenzio cadde tra loro: un silenzio strano, sinistro, dopo tanto tumulto.
Poi ella disse a voce bassa:
—È vero.
Seguì un nuovo silenzio.
—È vero. Io ho sempre amato così...—E sembrava sbigottita ella stessa di fronte ai suoi ricordi. Cogli occhi spalancati e fissi pareva guardare nel suo passato.
—Ho amato così... per la sventura mia e la rovina altrui.
Di nuovo un senso di disgusto più profondo invase Alberto e gli chiuse in uno spasimo la gola. Si accasciò presso al letto coprendosi il volto colle mani.
Ma ella continuò, vaneggiante, allucinata:
—Anche Adriano l'amavo così. L'amavo! E perciò i suoi occhi mi facevano paura—i suoi vividi, spietati occhi giovani, che vedevano tutto! che vedevano accanto a me, sfiorita e intristita, a me fosca ed arsa dalla passione, la beltà mattinale di altre donne!
Sostò un attimo, ansante. Indi riprese come parlando con sè stessa:
—Quando ebbe compiuto quell'inaudito atto d'amore, io prostrata davanti a lui, demente e disperata non potevo abbastanza gridargli il mio rapimento, la mia adorazione! Sarei morta per lui mille volte, morta di mille morti dolorose s'egli l'avesse voluto, morta, con lui o per lui! Non si può, non si può essere più pazzamente grata, più beata e straziata insieme di ciò ch'io ero allora!... Ma lui non mi credeva. Mi dilaniava coi suoi sospetti. Non mi vedeva! Era questa la cosa atroce: non mi vedeva! Non poteva leggere nel mio povero volto disfatto il disperato amore che sentivo per lui. «Che cosa pensi?» prorompeva ad ogni istante. Dieci, cento, mille volte al giorno mi lanciava come una pugnalata quella domanda: «Che cosa pensi?». E qualsiasi cosa io rispondessi lo metteva in furore. Di giorno, di notte, mi aggrediva, aspro rapido repentino: «Cosa pensi?». Mentre gli parlavo m'interrompeva, fremente e maniaco: «Cosa pensi?». E se tacevo m'afferrava il braccio con quel grido rauco, terribile, pazzesco: «Cosa pensi?»—«Non penso nulla!» piangevo io.—«Sì! sì!... Tu pensi che sono uno sventurato! Tu pensi a fuggire! tu pensi ad altri...». Ed io che non le pensavo queste cose, quand'egli me le diceva dovevo pensarle!... Oh, Alberto! Alberto, mio adorato! Cerca di comprendere, cerca di comprendere che giorni terribili, che giorni di orrore e d'incubo furono quelli!
Il giovane non si mosse nè rispose.
—Egli mi sfuggiva... sentivo che mi sfuggiva ancor più che quando ci vedeva. Io ero ai suoi piedi, tremante e piangente, ma lui si chiudeva in una fortezza di silenzio e d'odio; si murava nella sua prigione di oscurità! Che cosa dovevo fare, io che l'amavo?... che l'amavo!
Alberto trasalì: quel grido d'amore per un altro uomo gli faceva orrore. Ebbe come in un lampo la visione di tutti gli amori di costei: di tutti gli uomini ai quali ella si era aggrappata urlando e piangendo, come ora s'aggrappava a lui, come ieri a Adriano...
La staccò da sè, con violenza.
—Basta!—gridò;—basta. Non voglio sentire più nulla. È inutile. È finita.
E scattò in piedi.
Ella lo seguì cogli occhi stralunati mentre egli s'aggirava febbrile per la stanza, radunando con gesti incomposti le cose sue, per uscire, per andarsene.
—Che fai? Che cerchi?—balbettò lei.
Egli si mordeva le labbra senza rispondere. Appariva a sè stesso ridicolo e compassionevole. Gli pareva di recitare una specie di commedia, truce e grottesca a un tempo; gli pareva di assumere la parte di un individuo che non gli somigliava. Non sapeva più quanto di sincero e quanto di mendace era in lui e nei suoi atti.
—Ma dove vuoi andare? Vuoi lasciarmi?
Gli si abbattè ai piedi alzando a lui il viso livido e stravolto, mentre grandi lagrime le rigavano le guancie.
—Non lasciarmi! non lasciarmi. Ti amo!
L'uomo ristette, e la guardò. E d'un tratto gli parve di vedere in quel viso alzato verso di lui tutta la passione muliebre del mondo, nella sua spasimante debolezza, nella sua affranta angoscia, nella sua fragile e feroce terribilità.
Ella non comprese il suo sguardo: le parve di sentire ch'egli era perduto per lei; e si abbattè gemendo con la fronte a terra.
—Ma se mi lasci che cosa farò? Mio Dio, che cosa farò?
—Farai,—gridò egli mentre le onde dell'ira risorgevano in lui,—farai ciò che hai sempre fatto. Sciagurata e iniqua, tu non hai fatto che del male...
—Sì!... sì!... È vero,—pianse lei.
—Tu non hai sparso che danno e devastazione intorno a te. Hai portato lo sfacelo e la sciagura, sempre, a chi ti ha amata...
—Sì!... sì!... È vero...
—Ed ora so che cosa tu vorresti! Vorresti perdere anche me... spingermi alla pazzia e al delitto! Ma non ci riuscirai; ah, no! non ci riuscirai.
Ella, singhiozzando, avviticchiata a lui si alzava, strisciando, aggrappandoglisi alle braccia, al collo. Ansava; ed egli ne sentiva l'affocato alito nel collo e sulle gote. Comprese che il vituperio non era per lei che una sferza alla sua fosca depravazione... E, inorridendo, sentì che l'odio diveniva un afrodisiaco alla loro torbida sensualità.
—Lasciami,—urlò, svincolandosi;—lasciami... o, per Iddio! ti ammazzo.
Ella ebbe un grido di ebbrezza, di gioia, alzando a lui il viso subitamente trasfigurato.
Fissandolo cogli occhi smisuratamente allargati, si allontanò da lui, indietreggiò verso il divano. Indietreggiò pur tenendolo sempre avvinto e immobile sotto l'ipnotismo del suo sguardo.
D'improvviso si chinò, raccolse con gesto fulmineo la scatoletta bianca, e si riabbattè su lui.
—Tieni! tieni! tieni!—ansò.—Da te voglio la morte! da te! Ecco la fine che io ho sempre voluto, la fine che ho sempre sognato e che nessuno mi ha voluto dare! Nessuno, mai, mi ha odiata o amata abbastanza!... Ma tu, sì!... tu sì!
Alberto stringeva i denti, chiudeva i pugni, distogliendo il capo. Non voleva udirla, non voleva guardarla. Ma ella si avvinghiava a lui sempre più folle, più convulsa.
—Adorato! adorato!—singhiozzava, con un rantolo di spavento e di piacere in gola.—La morte, la morte! Dammela tu!
Tremando la respinse ancora. Ma ella gli si era abbattuta sulla bocca, gli beveva il respiro, e frattanto gli spingeva subdola e pervicace la scatoletta tra le mani.
Qualcosa sembrò spezzarglisi nel petto. Sentì traverso la commedia falsa e fittizia che recitava con lei, incombere imminente la tragedia, il delitto.
Ora i suoi sguardi andavano dal volto disfatto e contorto della donna a quella scatoletta aperta nel palmo della sua mano, piccolo rettangolo bianco in cui luccicavano le squame candide del veleno ignoto. E un pensiero gli venne, istantaneo come la folgore, ma così chiaro, così nitido come se qualcuno l'avesse formulato e pronunciato al suo orecchio: «Anche tu... con lei. Anche tu!».
«Anche tu». Chi aveva pronunciato quelle le parole? Erano nate nel suo cervello? Era lei che gliele susurrava? Certo i suoi sensi le percepirono insistenti come una preghiera, chiare come un comando: «Anche tu».
Perchè no? Come era semplice! Come era facile! Uscire con lei dalla vita, come si esce da una stanza! Andarsene, lasciando dietro di sè ogni tormento, ogni viltà, ogni dubbio, ogni ricordo.
Ella ora lo guatava con occhi abbacinati, lampeggianti, tutta vibrante in una selvaggia attesa. Ancora una volta egli si sentì ripreso da quel subcosciente, strano senso d'irrealtà. Non recitavano essi forse una commedia stravagante e sensazionale, di cui domani, ripensandoci, si vergognerebbero?
Domani! Quel pensiero lo atterrì. Come si guarderebbero in faccia loro due, domani, dopo aver varcato in questa notte i limiti di ogni più spasmodica sensazione?
Sentì un urto nel sangue, una vampata alla fronte; le sue dita, quasi mosse da una forza occulta, si immersero nella polvere lieve e squamosa.
Ella ebbe un grido d'ebbrezza e rovesciò indietro la testa.
—Per me!... Per me! dammi... dammi!
—Sì! sì! per te,—rantolò lui.—Ma prima...
E con gesto fulmineo portò la mano alla bocca, se la riempì della droga, masticò, inghiottì, soffocando e ansando... E per due volte ripetè quell'atto, mentre ella avviticchiata a lui strillava:
—No! no! no! Perchè?... perchè?...
Vacillante, egli si divincolò.
—Ora a te! Prendi!—E le porse la scatola.
La donna indietreggiò, livida, spiritata.
—Dio!... Dio!... Cos'hai fatto! Orrore!... orrore!...
—A te!—ripetè lui, stringendo i denti.—Fa presto... prendi!
—No... no!...—strillò lei, e un terrore pazzo le stralunava gli occhi.
Egli chinò su lei il volto che s'era fatto azzurrastro di pallore; i suoi lineamenti si contraevano in una smorfia orribile:
—Prendi!
Aveva la bocca arida e amara; un brivido di gelo gli scoteva le membra. Sentì che la scatola gli sfuggiva di mano, e la spinse tra le dita floscie e tremule di lei. Ma ella con un grido se ne ritrasse come da una serpe viva; ed egli lasciò cadere la scatola sul letto. Un po' della polvere si sparse sulla coltre.
Un abbaglio lo colse. Ghermì la donna e stringendola in una morsa ferrea la cacciò verso il letto.
Ella strillando si divincolò.
—No! Ho paura! No... no... no!...
Alberto ansava, strozzato e soffocato. Aveva la bocca piena di schiuma e una nausea orribile gli saliva dal profondo dei visceri. Sentiva sfuggirgli la terra sotto ai piedi, sentiva sfuggirgli i pensieri dal cervello: bisognava far presto... far presto...
Che cosa bisognava far presto?... Ah, sì! La droga... Raimonda... anche lei... Raimonda...
Mosse barcollando verso il letto, e di nuovo affondò le dita nella polvere morbida e sfuggevole.
La donna proruppe in un urlo:
—Aiuto! aiuto! No, Alberto... no!... O mio Dio, aiuto!
Intorno a lui tutto turbinò. Con gli occhi fuori dell'orbite, le vene a nodo sulla fronte, si precipitò su lei, la ghermì, la strinse... E come ella si divincolava con gemiti e strilli, le sbattè sulla faccia la mano aperta, coprendole il viso di una incipriatura atroce e grottesca.
Per un istante non vide più nulla; poi tutto riapparve, ondulante, turbinante, raddoppiato, centuplicato intorno a lui. La stanza era piena di Raimonde... dieci, cento, mille Raimonde gli roteavano d'intorno, tutte con lo stesso viso infarinato e folle, con la stessa bocca aperta e urlante...
Egli volle inseguirle ma mille oggetti si frapponevano, impedendogli il passo; i mobili traballando gli si sbattevano contro il petto, le pareti ondeggiavano, s'inclinavano, precipitavano... il pavimento gli guizzava di sotto ai piedi.
Tutte le Raimonde si erano scagliate in avanti sul letto... afferravano la scatola, la ribaltavano... e in un turbine fuggivano... svanivano dietro l'ondulante portiera.
Alberto si slanciò per inseguirle; ma sul limitare incespicò e cadde.
Cadde all'indietro...
E gli parve di cadere mollemente, dolcemente, a lungo... di cadere in un lento graduale inabissarsi, come sospinto da una morbida forza, come sorretto da un morbido abbraccio...
E giacque, infine, sommerso in una lene, lieve, morbida profondità.
. . . . . .
E vide due Figure che gli stavano accanto: l'una era il Tempo, velato d'ombra; l'altra era l'Eternità, circonfusa di luce.
Entrambi si chinarono su lui.
—Dormi,—disse il Tempo.
—Svegliati,—disse l'Eternità.