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Ancora più significativo è il caso dell’architetto luganese Giovanni Maria NosseniNosseniGiovanni Maria (1544-1620), attivo in Germania dove operò alla corte di Dresda dal 1575. Il suo principale intervento nella città sassone fu la trasformazione del coro del Duomo di Freiberg in una cappella sepolcrale per i prìncipi elettori di Sassonia, alla quale lavorò tra il 1585 e il 1594.20 Qui, dietro l’altare del mausoleo, si legge un iscrizione datata 1593 nella quale l’architetto è identificato con il nome di battesimo seguito dal borgo nativo e dall’etnico «italus», cioè ‘proveniente dall’Italia’ o ‘italico’:

Hospes! Quod dico, paulum est, asta, et perlege. Sacellum hoc illustre, quod vides, quinquenni spatio extructum est arte mira, labore multo, sumptibus vero maximis. Ejus extructioni non interfui solum, sed et prœfui semper Joannes Maria Nossenus, Luganensis, Italus. Nec vero operis egredii forma hœc tantum a me Architecto profecta est, sed et materiam ipsam […].21

In contesto germanico il riferimento all’italianità dell’architetto lombardo-svizzero sarà certo parso più opportuno e necessario di quanto non avrebbe potuto essere per gli esempi osservati in precedenza. Tuttavia, fatto salvo il condizionamento dovuto alla contingenza geo-culturale, questo esempio rileva la visione della Lombardia svizzera che era dominante al tempo, e non solo dalla prospettiva esterna.

Le centinaia di lettere spedite dagli emigranti di Meride, borgo di pittori, scultori e decoratori attivi in tutta Europa, raccolte nel corso di secoli dalla famiglia Oldelli e ora conservate nel fondo omonimo presso l’Archivio di Stato di Bellinzona, bene testimoniano la diffusa percezione dei borghi prealpini soggetti alla sovranità elvetica come territori italiani. Ad esempio, in una missiva inviata ad Alfonso OldelliOldelliAlfonso da Travostat il 17 luglio 1701, lo stuccatore Giovan Battista ClericiClericiGiovan Battista comunica alla famiglia l’impossibilità di ricevere o far recapitare la posta in «Itaglia», ovvero a Meride:

Io sono andato fora di Virzpurg ali 26 giugno a lavorare lontano dieci ore, cioè trenta miglia da parte dove non vi è posta di scrivere in Itaglia, in una vila che si dimanda Travostat, a fare una sala con doi scuadretori, e spero che presto verà il sig.r Giosepe Rinaldi in compagnia, dove averemo di fare sino a mezo otobre in circa e poi torneremo a Virzpurg, e frattanto se scriverano seguitarano a mandarle al sig.r Magni che lui me le farà avere.22

O ancora, Stefano Ignazio MelchionMelchionStefano Ignazio, con una lettera da Colonia del 24 agosto 1711, informa i famigliari delle difficoltà incontrate con la comunità italiana presente nella città sul Reno, nella quale non è riuscito a integrarsi. E nel farlo, lo scrivente si considera naturalmente italiano:

Jo lavoro come un cane et per l’ultimo di otobre spero di terminare quelo che ò intrapreso, et il sig.r Conte, quelo che è sopra le fabriche, loda a’ suoi li miei lavori et spero che me farà una bona stima. Li altri Jtaliani che sono qua non me poleno vedere, ma questo me dà poca pena.23

Altrettando interessante è una lettera del 1758 scritta dallo stuccatore Alfonso OldelliOldelliAlfonso (poi notaio e procuratore a Lugano) al nipote Carlo Matteo OldelliOldelliCarlo Matteo, che da Vienna chiedeva assistenza finanziaria allo zio. Quest’ultimo giustifica la sua indisponibilità in ragione del momento di carestia e povertà che la comunità stava vivendo «in questa nostra Lombardia», a Meride. Inoltre, più avanti, nella seconda parte della missiva, Alfonso raccomanda al nipote di essere parco nelle spese e rammenta la propria esperienza nella città austriaca, dove trovò una compagnia di altri «onorati giovini jtaliani» con i quali dividere i costi della permanenza:

Sento le denotate spese da voi fatte per sostenervi, al che vi rispondo d’esser io prima di voi stato diciotto mesi in questa Capitale, col solo lucro di Fiorini cinque e mezzo per settimana, e, misurate le mie forze, congiontomi et associatomi con altri onorati giovini jtaliani, onoratamente vivessimo all’Osteria dell’Angelo bianco nella Citadella di Marienhilf con un fiorino e tre bazzi per cadauno alla settimana.24

In sostanza, l’assenza di un’identità politica forte e condivisa sul piano regionale, solo in parte supplita da quella connessa alla diocesi, ha fatto sì che gli abitanti della Lombardia svizzera abbiano percepito loro stessi come lombardi perlomeno fino alla mediazione napoleonica del 1803 e si siano riconosciuti per lingua, costume e cultura come italiani. Nello stesso modo, d’altra parte, erano percepiti il territorio e i suoi abitanti dai visitatori forestieri che transitavano o visitavano la regione.

In questo giro d’anni, semplificando gli elementi emersi dalle testimonianze osservate nelle pagine precedenti, è lecito affermare che gli abitanti della Lombardia svizzera tendevano a qualificarsi come lombardi quando si rapportavano con altri italiani e come italiani quando si rapportavano con gli stranieri, come naturale. Allo stesso modo, il riferimento al potere politico degli svizzeri, perlopiù in formule reverenziali fisse e ricorrenti, si attesta quasi esclusivamente negli scritti ufficiali, ovvero nei documenti che si rivolgono o sono destinati ai rappresentanti del potere signorile elvetico.

1.2.1. Svizzera o Italia: la percezione geografica della Lombardia svizzera

In età moderna, le Alpi si possono considerare, con buona approssimazione, la frontiera che separa lo spazio geografico e culturale italiano da quello tedesco. A questo assetto, che si prefigura già in epoca medievale, si riferisce DanteAlighieriDante nel ventesimo canto dell’Inferno, ambientato nella quarta bolgia dell’ottavo cerchio, dove sono puniti gli indovini. Nel testo, parlando delle origine mitiche di Mantova, VirgilioVirgilio MaronePublio menziona il lago di Garda, detto Benaco (lat. benacus), formatosi ai piedi della catena montuosa delle Alpi, che separa l’«Italia bella» dalla «Lamagna», Inf. XX 61-63:

Suso in Italia bella giace un laco,

a piè de l’Alpe che serra Lamagna

sovra Tiralli, c’ha nome Benaco.

Restringendo la prospettiva alla Lombardia Svizzera, il più importante punto di contatto tra le culture – che ha delle conseguenze sensibili anche sulle varietà linguistiche locali, come si vedrà nel secondo capitolo – è rappresentato dal principale valico alpino della regione, ovvero dal passo del San Gottardo. Il varco, forse praticato già in epoca romana, quando il gruppo montuoso era riconosciuto con il nome di Mons Tremulus, è dal Basso Medioevo (verso la fine del secolo XII) una via di comunicazione e commercio intensamente percorsa, volgarmente chiamata anche con il sintagma “via delle genti”.1 Con l’apertura di questo valico tra il mondo germanico e l’Italia, di notevole rilevanza economica e politica, le valli lombarde alpine e prealpine acquisirono una funzione strategica, che di fatto condizionò la loro storia. La denominazione Mons Tremulus, che oggi si conserva unicamente nel nome della strada della Tremola, che collega il comune di Airolo al passo del San Gottardo, deriva forse dal timore che il massiccio doveva suscitare, in ragione della sua imponenza (si pensi al mito del “tetto del mondo”), delle impervie e pericolose vie di passaggio e del clima particolarmente rigido che si incontra sulla sua sommità in ogni stagione.2 Ne riferisce il prete Pietro MartinoloMartinoloPietro, curato a Faido nei primi anni del secolo XVII, in un componimento latino dedicato a Carlo BorromeoBorromeoCarlo, redatto in distici elegiaci e pubblicato a Milano nel 1620.3 Nel testo, scritto in memoria della visita del Cardinale nella valle Leventina del 1581, durante la quale fu anche sul Monte Gottardo, MartinoloMartinoloPietro stabilisce nelle Alpi il confine naturale tra la cultura tedesca e quella italiana. Nella poesia l’autore avanza inoltre una proposta sull’origine del toponimo Mons Tremulus e chiosa il successivo mutamento della denominazione, avvenuto nella prima metà del secolo XIII (nel 1237: «Monte Sancti Gottardi»), che prese il nome dell’ospizio dedicato al vescovo benedettino Gottardo di HildesheimGottardo di Hildesheim (961-1038), canonizzato nel 1131 da Papa Innocenzo IIInnocenzo II. Il culto del santo ebbe da subito fortuna oltralpe come in Italia, ad esempio a Milano, dove a lui furono votate chiese e cappelle. Questo fatto spiega forse la scelta, presa dall’arcivescovo Galdino di MilanoGaldino di Milano, di fondare sul tracciato del valico l’ospizio «di San Gottardo» (1171), al quale venne aggiunta una chiesa nel 1237.4 Tornando al testo, volgendosi verso il massiccio alpino il curato MartinoloMartinoloPietro scrive:

Terminus hic Itali, Teutonicique jacet.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Mons alias tremulus dictus, quia causa tremoris.

Tam rigor alpinus, quam lapidosa via.

Ast postquam Goldinus sanctus episcopus Urbis,

Fundarit templum, quod benedixit ibi

Sub titulo Sancti Gottardi, nomen ab isto,

Mons sumpsit Divo, sicque rocatur adhuc.5

La catena alpina è dunque percepita come la frontiera geografica e culturale che separa, come nella visione proposta da DanteAlighieriDante nella Commedia, l’Italia dalla Germania. È lecito supporre che la stessa idea fosse condivisa anche da un altro religioso attivo nella regione, ossia Giovanni BassoBassoGiovanni il prevosto della comunità di Biasca, situata nel baliaggio comune della Riviera. Infatti, in una planimetria tracciata di suo pugno, prodotta nell’ambito di un progetto di restauro e ampliamento della chiesetta e dell’ospizio situati sul passo del Gottardo, il prevosto aggiunge la postilla «Discesa in italia lontano 5 miglia dalla prima terra Aerolo» in corrispondenza del lato degli edifici rivolto a sud-est, verso la Lombardia Svizzera, considerata dunque territorio italiano.6

Infine, per aggiungere un esempio relativo alle percezione geografica della regione che riassume al contempo anche le caratteristiche delle denominazioni osservate nel primo paragrafo del capitolo, fra i documenti conservati all’Archivio storico diocesano di Milano concernenti le visite pastorali nelle Tre Valli svizzere (sez. X), si legge un passo che colloca questi territori «negl’ultimi confini di Italia», riconoscendo implicitamente le Alpi come grande frontiera culturale:

Nelle Tre Valli Riviera, Leventina e Bregno poste negl’ultimi confini di Italia, diocese di Milano e dominio de’ Sig.ri Svizzeri non è in uso l’officio di s. Inquisitione, ma solo la giurisditione ordinaria del’arcivescovo e del Nontio Apostolico apresso a Sig.ri Svizzeri residente.7

Come nei testi degli scriventi autoctoni citati sopra, anche i forestieri giungendo dal nord e procedendo in direzione del versante lombardo delle Alpi percepiscono il naturale scarto geografico e culturale, che schematizzano in genere nel passaggio dall’area germanica a quella lombarda o italiana, a prescindere dalla sovranità politica svizzera. Così, ad esempio, l’avvocato e poeta piccardo Marc LescarbotLescarbotMarc (ca. 1570-1642) scrive versi che documentano questo assetto geografico nel suo Tableau de la Suisse (1618), un prosimetro relativo al viaggio da lui compiuto a seguito dell’ambasciatore di Francia Pierre de CastillePierre de Castille tra il 1612 e il 1614.8 Nel brano relativo alla descrizione dell’origine della Reuss e degli altri fiumi che sgorgano dal Gottardo, LescarbotLescarbotMarc osserva che percorrendo la valle d’Orsera, dove si trova il borgo urano di Hospental, si giunge attraverso le Alpi fino in Lombardia:

Entre Oursere [Val d’Orsera] est encor au profond de ce val

Un bourgad petit appellé l’Hospital [Hospental],

Qui par le mont Gothart conduit en Lombardie.9

Ai primi del Settecento il sentiero di difficile percorrenza che valicava il monte fu reso più praticabile con alcuni interventi volti a costruire una strada carrabile, fra cui il traforo dell’Urner Loch (la ‘buca d’Uri’) tra Andermatt e il Ponte del diavolo, opera dell’ingegnere valmaggese Pietro MorettiniMorettiniPietro.10 L’ingegnere, attivo e noto in tutta Europa per le sue costruzioni militari, nell’Enciclopedia metodica critico-ragionata delle belle arti dell’abate D. Pietro ZaniZaniPietro fidentino del 1823 è registrato come individuo di patria o nazione comasca, a riprova della confusione etnico-identitaria che persisteva ancora nel corso dell’Ottocento.11 Tornando al discorso lasciato poco sopra, in epoca romantica divennero sempre più intensi i transiti attraverso il valico alpino, che rimase impresso nell’immaginario dei numerosi viaggiatori diretti verso le principali tappe italiane del grand tour. Le testimonianze di questi personaggi sono state raccolte nel 1989 in un volume curato da Renato MartinoniMartinoniRenato, che documenta anche in anni vicini all’assestamento politico della Confederazione (1803) la consueta identificazione dei baliaggi italiani con l’Italia, culturalmente intesa. Così, la scrittrice inglese Helen Maria WilliamsWilliamsHelen Maria (1762-1827), nella cronaca del suo Tour in Switzerland (1798), annota di aver immaginato che dalla specola del San Gottardo avrebbe potuto guardare la Svizzera da un lato e l’Italia dall’altro:

On the top of St. Gothard, one of the most elevated mountains of Europe, we had once imagined the view into Italy on one side, and over Switzerland on the other, would reward all our toil.

La WilliamsWilliamsHelen Maria non ignorava tuttavia la situazione politica dei baliaggi italiani nel suo presente. Nello stesso scritto l’autrice aggiunge infatti una considerazione a tale proposito, suscitata dal fatto che a causa delle limitazioni imposte dall’impero non le fu possibile visitare le isole Borromee del lago Maggiore. In questo brano, la scrittrice stabilisce come confine naturale la frontiera geologica delle Alpi:

Those far-famed islands [le isole Borromee nel lago Maggiore], we were obliged, from political considerations, to leave unvisited, not without a sigh of regret on my part, that since Swiss territory extended so far beyond its natural boundary the Alps, it had not repelled the limit of the Emperor’s dominions a little farther.12

Più di un secolo prima e in tutt’altro contesto, la formulazione di un concetto analogo si trova anche nell’opera Helvetia profana e sacra (1642) del sacerdote Ranuccio ScottiScottiRanuccio, vescovo di Borgo San Donnino (oggi Fidenza). Nella sua relazione sulla Svizzera del tempo, ben nota all’autore che fu nunzio apostolico a Lucerna dal 1630 al 1639, si legge un’affine considerazione relativa alla geografia dei Cantoni svizzeri e alla loro espansione in Italia, successiva alle campagne transalpine:

Anche à Ponente verso la Sauoia hà racquistati i suoi confini essendosi i Bernesi, e quei di Friburgo insignoriti di più luoghi di quello stato, et à mezzo dì valicate l’alte, e neuose Alpi Lepontine, hoggi dette Monte di San Gottardo, hà dilatati i suoi termini in Italia fin sù gli laghi Lario, e maggiore con l’acquisto della Leuantina, Belinzona, Locarno, Lugano, Mandrisio, ed altre Terre, che tempo fù soggiacevano à Milano.13

Lo stesso quadro è delineato nella cartografia del primo Seicento. In particolare, offre alcuni dati interessanti la carta Helvetiae, conterminarumque terrarum antiqua descriptio stampata nel 1616 da Philipp CluverCluverPhilipp, il geografo tedesco considerato il fondatore della geografia storica.14 La mappa, che descrive i confini dell’attuale territorio svizzero in epoca romana, situa gli Helvetii nell’altipiano a nord delle Alpi, mentre colloca le Prealpi lombarde in Italiae.

Come documenta questa breve rassegna di esempi, il territorio della Lombardia Svizzera, fatta salva la sovranità politica elvetica, era percepito come naturalmente lombardo. Non sorprende, allora, che il bolognese Leandro AlbertiAlbertiLeandro (1479-1552) nella sua opera intitolata La descrittione di tutta Italia del 1550 comprenda i territori della Lombardia Svizzera nel capitolo Lombardia di là dal Po, dai laghi Maggiore e di Lugano fino al San Gottardo.15 Tuttavia, su questo versante, dalla prospettiva cioè dei personaggi provenienti dalla penisola, è possibile documentare una percezione in parte anche diversa. Una percezione che sarà però dovuta, oltre che alla dimensione politico-identitaria, al progressivo impoverimento culturale e alla contaminazione linguistica che si poteva avvertire procedendo da Milano verso nord, avvicinandosi alle Alpi (su questo aspetto si tornerà anche più avanti, nel secondo capitolo). Il cardinale Guido BentivoglioBentivoglioGuido, ad esempio, in una lettera scritta da Lucerna il 21 di luglio del 1607 al monsignor di Medigliana, vescovo di Borgo San Sepolcro, nella quale racconta il suo itinerario da Ferrara verso Lucerna, afferma che nel territorio dei baliaggi comuni l’Italia perde «il nome e la lingua». Nella missiva, confermando inoltre l’impressione che la montagna del San Gottardo poteva suscitare nei viaggiatori in transito dal valico, il cardinale scrive:

In Milano fui ospite del signor cardinal Borromeo, che mi raccolse e trattò veramente con umanità singolare; e dopo aver soddisfatto al debito offizio col conte di Fuentes, me ne partii, e di là me ne venni verso gli Svizzeri. A Varese, ultimo luogo dello stato di Milano, mi licenziai dall’Italia; ch’ivi ella comincia a perdere il nome e la lingua. Tutto il resto sin qui è stato alpi, balze, dirupi, precipizj, una sopra un’altra montagna, e san Gottardo, sopra di tutte, che porta le nevi in cielo, e ch’a me ora ha fatto vedere l’inverno a mezza state.16

O ancora, senza i giudizi di valore impliciti nel brano appena letto, il protonotaio apostolico Filippo TitiTitiFilippo (1639-1702) nella sua Descrizione delle pitture, sculture e architetture esposte al pubblico in Roma rivista da Giovanni BottariBottariGiovanni e pubblicata nel 1763, indica con l’etnico «svizzero» il pittore Pier Francesco MolaMolaPier Francesco (1612-1666) nativo di Coldrerio (noto anche con l’anacronistico nome di Il Ticinese). Nella guida, relativamente all’affresco del 1656 raffigurante la storia di Giuseppe e dei suoi fratelli dipinto nella Sala Gialla del Palazzo del Quirinale di Roma, allora residenza estiva del Papa, l’artista è identificato con le seguenti parole: «Nella gran facciata si vede l’istoria, di quando Giuseppe fu poi adorato da’ fratelli, dipinta eccellentemente da Francesco MolaMolaPier Francesco svizzero». L’insolita denominazione etnica è ripetuta nel paragrafo dedicato alla Basilica di San Marco Evangelista al Campidoglio, nella quale il MolaMolaPier Francesco dipinse un affresco raffigurante Il martirio dei santi Abdon e Sennen: «Nella nave di mezzo la prima pittura a fresco sopra le colonne, cominciando a man destra, è di Francesco MolaMolaPier Francesco Svizzero».17

1.2.2. I primi segnali di una identità svizzera

Negli ultimi decenni dell’ancien régime, anche nel territorio delle Prealpi lombarde si manifesta in alcuni individui una crescente sensibilità nei confronti dell’identità svizzera. In rapporto alle denominazioni osservate finora, è rilevante l’intensificarsi della specificazione di appartenenza allo «stato degli Svizzeri», che prima appariva molto raramente.1

Alcune occorrenze in questo senso sono tuttavia testimoniate anche nei secoli precedenti. Fra le carte estensi della Trivulziana, ad esempio, è conservata una lettera del 7 marzo 1602 scritta da Cesare d’Ested’EsteCesare al marchese Carlo Filiberto d’Ested’EsteCarlo Filiberto nella quale è raccomandato per alcuni uffici di diplomazia il locarnese Francesco DonadaDonadaFrancesco (o Donata).2 Il DonadaDonadaFrancesco, di modeste origini, riuscì a imporsi nei baliaggi italiani e all’estero grazie alle sue doti di commerciante e di mediatore. A tale proposito fu coinvolto, lo documenta la lettera che sotto si trascrive, nel patteggio per il feudo ferrarese lasciato senza eredi dopo la morte di Alfonso II d’Ested’EsteAlfonso II. Cesare d’Ested’EsteCesare, duca di Modena e nipote di Alfonso II, tentò di riottenere il ducato di Ferrara e per farlo inviò alcuni ambasciatori alla ricerca di un sostegno diplomatico. Tra questi il locarnese, che fu mandato come ambasciatore straordinario presso i Cantoni svizzeri.3 Benché ottenne la cittadinanza milanese nel 1589 e il prestigioso titolo di conte palatino nel 1594 dal duca di Ferrara, nella missiva del 1602 DonadaDonadaFrancesco è menzionato con riferimento alle sue origini “svizzere”:

Ill.mo et Ecc.mo Signore, Il Conte Francesco Donata Suizero, ch’era servitore amato dal Sig.r Duca Alfonso di gloriosa memoria, et è amico mio strettissimo, mi ricerca come V. Ecc.za vedrà dall’inclusa copia di lettera, ch’egli mi scrive, à raccomandarle un suo interesse pecuniaro, nel quale spera di poter dalla mano di lei, persona amorevole, ricevere grand’aiuto […].4

In questo caso, tuttavia, il riferimento entico si giustifica probabilmente in ragione dell’ambasceria che in quegli anni DonadaDonadaFrancesco stava svolgendo presso gli Svizzeri. Va tuttavia segnalato che prima e dopo questo episodio Francesco condusse rapporti diplomatici di pari importanza anche in svariate regioni d’Italia, per esempio a Venezia.

Nel secolo seguente, le testimonianze di lealismo nei confronti degli svizzeri si intensificano anche in contesto privato. Così, ad esempio, in una lettera da Praga del 5 luglio 1725 spedita a Giovanni OldelliOldelliGiovanni, lo stuccatore Giovan Antonio OldelliOldelliGiovan Antonio definisce sé stesso e un suo conterraneo, Bernardo BullaBullaBernardo di Muggio, entrato nelle grazie dell’imperatore per meriti artistici, come svizzeri:

Si trova qua a Pragha un signore di Mugio stato povero homo, suo cognome Bernardo BullaBullaBernardo, adeso fato per sua abilità nobile del inperatore et Consigliere et Senatore, dimandato signore de Bolenario, quale questo fa gran honore a noi tutti sviceri et io ho veduto medesimo in casa sua reghalli mandatelli del inperatore proprio, che vi son Prencipi che non hanno mai potuto haver queste gratie che lui hà, il qualle mi ha promiso asistermi con l’ocasione che venise a Mindrisio ne potrà far mentione, perché lui ha a casa suo Padre et fratello, questi poi corisponderano et mi gioverà, et ho visto litere che in confidenza mi ha mostrato del inperatore a lui scritelli et queste non sono favolle, et lui ha già qualche informatione di nostra casa, non costa niente e mi può giovare.5

Spostando l’indagine cronologicamente più in avanti, nel clima dei sovvertimenti politici che portarono alla Repubblica elvetica, conseguente alla pace di Campoformio dell’ottobre del 1797, si incontra un esempio riassuntivo della gerarchia identitaria discussa nelle pagine precedenti. Nel libro di memorie manoscritto da Pietro FrancaFrancaPietro, un fonditore attivo a Locarno e ricordato per le numerose campane fabbricate, si legge la seguente intestazione, nella quale l’artigiano si riconosce in primo luogo come abitante di Mergoscia (in Valle Verzasca), poi come fedele attinente alla pieve di Locarno, situata nella diocesi di Como, e da ultimo fa riferimento alla dimensione politica:

Libro di fornace, castelii e di tutti gli tuoni delle campane e tutte le vere regole che si à di talle professione fatto et essercitato da me Pietro FrancaFrancaPietro di Mergosia pieve di Locarno, diocesi di Como, stato Suizero, anno 1788 a 17 marzo.6

Ancora più marcato è lo sviluppo identitario, inteso come rivendicazione di appartenenza filo-elvetica, documentato nei Canti militari per la rassegna generale di Val-Brenna scritti dal presbitero Vincenzo DalbertiDalbertiVincenzo, che fu Segretario di Stato del Cantone Ticino e sagace mediatore con la Confederazione per gli interessi della Svizzera di lingua italiana, e dedicati nel 1796 al capitano bleniese Pietro Camillo Ema.EmaPietro Camillo Il tenore patriottico dell’opuscolo, chiaro sin dall’esergo oraziano «Dulce, & decorum est pro Patria mori», si palesa in particolare nell’esortazione rivolta ai soldati bleniesi, chiamati a dimostrare con le armi la loro elveticità; forse anche in riferimento alla prestigiosa tradizione militare svizzera. L’ultima strofetta dell’ode Giovani generosi, al Brenno in riva legge infatti:

Al Campo dunque, al Campo! Il noto carme

Delle trombe quest’è; Brennesi andiamo

A provar, che valenti in trattar l’arme

SVIZZERI siamo.7

Infine, anche in anni di poco successivi al crollo della vecchia Confederazione, trasformata sulla base del modello francese nella Repubblica Elvetica, uno stato nazionale unitario con lingue ufficiali il tedesco, il francese e l’italiano, è possibile documentare nel Cantone di Lugano ulteriori manifestazioni del progressivo consolidamento di un’identità svizzera. In una cronaca dello scrittore tedesco Christian Gottlieb HoelderHoelderChristian Gottlieb (1776-1847), relativa a un suo viaggio che lo portò fino a Milano nell’estate 1801, si legge un episodio significativo a questo proposito. Nel tragitto da Lugano verso la città di Milano, il cronista scrive di aver scambiato alcuni passanti per cisalpini, ovvero per abitanti della Repubblica Cisalpina, il territorio politico-amministrativo costituito nel 1797 per volontà di NapoleoneBonaparteNapoleone e del Direttorio francese. Questi, alla domanda, orgogliosi e sprezzanti risposero di essere svizzeri: «Wir trafen auf unsrem Weg von Como hiher mehreremal Leute an, welche wir fragten, ob sie Cisalpiner wären. Unwilling über unsre Frage antworteten sie mit Stolz: Siamo Suizzeri!».8 In qualche modo, di fatto, anche nelle comunità lombardo-alpine si inculcarono dunque le idee romantiche, legate all’affermazione del concetto di nazione e dell’individualità nazionale, che nella Repubblica elvetica potevano orientarsi unicamente in direzione del quadro politico svizzero.

Queste numerate testimonianze documentano una tendenza irrobustita nei decenni immediatamente precedenti all’Atto di Mediazione napoleonico, che riorganizzò la Confederazione: una propensione che risulta comprensibile e spiegabile anche sul piano storico. Nel corso dei secoli, infatti, si svilupparono tra la popolazione dei baliaggi italiani e quella dei Cantoni confederati delle relazioni amministrative, commerciali e di conseguenza personali, che hanno in misura e con tempi diversi consolidato i rapporti fra queste terre lombarde e le comunità transalpine. Le fonti citate documentano il lento evolvere del sentimento patriottico: dalla totale estraneità verso la progressiva identificazione. Le rivendicazioni di appartenenza settecentesche bilanciano, se vogliamo, alcune manifestazioni di animosità e di insofferenza da parte della popolazione dei baliaggi nei confronti del regime svizzero attestate nei secoli precedenti, ma sono ben lontane dal testimoniare un reale sviluppo identitario filo-elvetico, per il quale si dovrà attendere ancora molto.9 E anzi, un sentimento di identità collettiva era assente nel territorio della Lombardia svizzera. Nonostante la condivisione secolare del regime amministrativo svizzero (sia pur conosciuto autonomamente, per reggenze indipendenti), le condizioni sociali ed economiche analoghe e alcuni naturali scambi reciproci tra baliaggi, valli e regioni, queste terre rimasero sostanzialmente estranee fra loro e non solidali.10 La mancanza di un’identità forte all’infuori di quella radicata nella patria comunale, o tutt’al più nella giurisdizione ecclesiastica, è percepibile e si manifesta anche negli usi etnici e geonimici sino all’istituzione del Cantone. E proprio l’assenza di un sentimento comunitario, di uno spirito sovraregionale coeso, rese annosa la negoziazione di un’identità ticinese e svizzero-italiana, maturata in tempi piuttosto recenti, con alcuni decenni di ritardo sulla stabilizzazione dell’assetto cantonale moderno.

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