Sadece LitRes`te okuyun

Kitap dosya olarak indirilemez ancak uygulamamız üzerinden veya online olarak web sitemizden okunabilir.

Kitabı oku: «Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni, sommario. v. 2», sayfa 12

Yazı tipi:
────────

APPENDICE

(anni 1814-1818)

40. Il periodo quarto dell’etá settima, o della preponderanza austriaca [1814-1848]. – Io dissi giá le ragioni che mi facevano nel 1846 terminare questo ristretto all’anno 1814. Ora poi, passati questi anni in che avemmo tutti la parte nostra di opera e di dolori, ed accresciuto sì naturalmente il numero degli uomini «a me non ignoti né per benefizio né per ingiuria» (prefazione all’edizione terza, 1846), sarebbe piú ripugnante che mai alla mia coscienza storica giudicar di essi con questi modi brevi, epperciò assoluti, che non sono né convenienti verso amici od avversari, né giusti poi verso coloro, vivi o morti, di che non sia fatto ancora il giudizio in altre storie piú distese, piú entranti nei particolari di ciascuno. Né, quando io potessi vincere tal ripugnanza, mi sarebbe nemmeno materialmente possibile il tesser qui una narrazione seguita degli anni corsi dal 1814 in poi, finché non sarà preceduta qualche storia piú distesa di essi. Chiunque abbia mai messo mano a storie, contemporanee o no, ma non iscritte da altri, sa quanti documenti sparsi, quante letture diverse sieno indispensabili alla loro composizione. E (mi si faccia lecito accennare ad un particolare a me personale, il quale, del resto, può scusare il presente volume d’altri difetti lasciativi) la luce degli occhi mi si è scemata poc’anzi a segno, da farmi materialmente difficile lo scrivere, poco men che impossibile il leggere. E trovai impossibile finora il supplirvi sempre coll’aiuto d’altri, quantunque benevoli.

Servano questi cenni a farmi scusare da coloro che mi espressero il desiderio di veder prolungato di questi trentacinque anni il presente volume; e vogliano essi contentarsi delle poche parole generali, con che estendendo i cenni preventivamente dati nel 1846, tento ora collegare la nostra storia passata con quella contemporanea e futura.

I trentaquattro anni dal 1814 al 1848 furono all’Italia evidentemente parte della sua etá settima delle preponderanze straniere, periodo quarto, o della preponderanza austriaca indisputata. Mentre l’Europa tutt’intiera progredí (lentamente, secondo è desiderio di quella parte generosa, che appunto allora incominciò a chiamarsi «liberale», ma rapidamente, magnificamente, se si consideri l’andamento normale delle grandi rivoluzioni umane), progredí, dico, nella restaurazione continentale dei governi rappresentativi, estesisi cosí da Francia a Spagna, a Prussia e quasi tutta Germania, ed a Grecia, l’Italia rimase restaurata tutto contrariamente sotto ai governi assoluti, sotto alla preponderanza dell’Austria, capo dell’assolutismo, capo francamente professatosi della resistenza alla rivoluzione liberale europea. I principi italiani restaurati tornarono tutti con affetti, con pregiudizi di fuorusciti, cioè del tempo in che erano usciti; si riadattarono quindi volentieri a quella preponderanza austriaca, che consentiva con essi, e prometteva difenderli. Tutti restaurarono le forme antiche, assolute; il buon re piemontese peggio che gli altri. Promossero pochi progressi, o, come le chiamammo poi, poche riforme; ne effettuarono anche piú poche da principio, per tutti que’ primi vent’anni, che furono, bisogna dirlo, de’ piú oscuri o piú sciocchi vivuti mai in Italia. Alcuni uomini non mediocri furono talor chiamati al governo; ma pochi e per poco tempo; i piú, i soliti, mediocrissimi. I popoli all’incontro, i governati che avevano fatto poco o nulla sotto a Napoleone, se non lasciarsi splendidamente governare da lui, e si sarebbero adattati a lasciarsi governare da altri, per poco che si fosse fatto con qualche splendore, od onore di liberalitá, si adontarono fin dal 1814, e via via piú ad ogni anno di essere i popoli d’Europa piú male, piú oscuramente, piú illiberalmente governati, senza nulla di quella libertá e quell’indipendenza che udivano lodarsi, vantarsi, estendersi altrove. Cosí fu e sará sempre, cosí si adempiono i progressi umani decretati dalla suprema provvidenza; ciò che non si pensava o pareva appena difetto ai padri, diventa bisogno ai nepoti, e cosí appunto si desiderò, s’estese la libertá, si desidera e s’estenderá l’indipendenza tra le nazioni cristiane. Ed in Italia venivano crescendo sí tali desidèri, ma confusi tra sé, indeterminatissimi ne’ mezzi di effettuarli. Confondevansi libertá ed indipendenza nell’odio ad Austria, confondevansi le varie forme di libertá ne’ desidèri indeterminati ed ignoranti delle monarchie rappresentative all’inglese, o alla francese del 1814, o alla spagnuola del 1812, o delle repubbliche a modo moderno americano, o del medio evo italiano od antico greco-romano; era un caos di brame incomposte, come succede tra ineducati ed inesperti, che non hanno a decidersi né scienza né esperienza. Ed era poi un caos anche maggiore de’ mezzi immaginati. Di resistenze, o, peggio, conquiste legali, non ci era idea; di sollevamenti popolari, molta; ma piú principalmente di congiure, il modo piú ovvio e, pur troppo, tradizionale giá in Italia; se non che, congiurare a modo del Quattrocento o Cinquecento, quando gli Stati erano piccolissimi e mal fermi, non era possibile. S’inventò, o s’era giá poc’anzi inventato, un modo nuovo, adattato al secolo; un estendimento delle congiure, proporzionato all’estendimento degli Stati e della civiltá; le sètte o societá segrete. E la terra classica delle congiure rozze, diventò classica delle perfezionate. Vennerci di fuori, per vero dire, le prime sètte del Settecento (o forse piú antiche, se si creda alle loro genealogie), i franchi-muratori, gli illuminati, e non so che altre. Poi sotto a Napoleone ed alle sue molteplici polizie (parola nuova anche questa che bisogna ora introdurre) dicesi fossero o quelle od altre sètte nel suo esercito. Ma la potenza di tutte queste, se fu, non uscí guari dall’ombra, non produsse effetti grandi alla luce del dí. Produssene sí quella detta Ingendbund, nata e cresciuta in Prussia, negli anni di sua servitú a Napoleone, dal 1808 al 1812, trionfante dopo le sventure francesi del 1812, aiutante il sollevamento e l’indipendenza di Prussia e Germania intiera nel 1813 e 14; rimasta poi lá con nomi e scopi mutati e minori. E sorse, con iscopo simile, benché piú ristretto, in quei medesimi anni la setta dei carbonari, fomentata, dicesi, contro ai Napoleonidi di Napoli da’ Borboni di Sicilia. Ma se è vero tal fatto, questi non tardarono a portar la pena della pericolosa invenzione; ché restaurati nel 1815, la setta amica diventò nemica loro e degli altri principi restaurati ed assoluti, amica della parte liberale, di cui erano quasi vanguardia, o bersaglieri, sregolati, ingovernabili, cui pretendevano anzi condurre. Io non ho luogo, né notizie, né genio a dire di lor forme, lor modi, loro divisioni e suddivisioni, e mutazioni e moltiplicazioni di nomi. Questo solo noterò qui, che ho notato altrove, ed è piú importante: che queste sètte o congiure nuove, non meno che le piú antiche, si mostrarono al fatto sempre il peggior modo che possa essere ad effettuare qualunque rivoluzione; il peggiore quanto a moralitá, perché non è possibile avanzarle senza quei segretumi, quelle falsitá, quelle insidie, e quei tradimenti che sono, insomma, l’essenza delle congiure; ed il peggiore quanto ad efficacia e buona riuscita, perché appunto quella immoralitá fa sí, che molti non vedendola vi si mettono, ma vedendola se ne ritraggono, e i pochi rimastivi perdono la fiducia, e si dividono, e chi fa una cosa, chi l’altra, nulla mai di unanime o, peggio, di grande. Ancora, in questi convegni segreti, continui, e di uomini cosí diversi, naturalmente si parla molto, piú che non s’opera, e si prende il vizio del parlar senza pro; si fanno progetti fondati non sulla pratica degli affari umani, che i settari non hanno, ma sulle teorie; non sulle possibilitá, ma sulle desiderabilitá all’infinito: ondeché appena incominciata l’esecuzione, salta fuori l’impossibilitá, e tronca tutto. Insomma le congiure, quantunque progredite a sètte, rimangono il mezzo di rivoluzioni piú contrario che possa immaginarsi a tutti i mezzi della progredita civiltá; il loro segretume, alla pubblicitá; la loro relativa pochezza, all’universalitá dell’opinione pubblica; i loro disegni teorici, a quella pratica di governo che si diffonde a poco a poco nelle stesse popolazioni; ed i loro mezzi d’eseguimento, a quella moralitá, a quella mitezza, che essa pure, essa piú d’ogni cosa si diffonde naturalmente tra la cristianitá. – Ad ogni modo, questo grand’errore dei liberali (ché cosi chiameremo, per abbreviare, anche le sètte delle quali se avessimo luogo noi distingueremmo i fatti ultraliberali ed anzi illiberali), quest’errore de’ governati liberali, figlio giá de’ primi errori de’ principi e de’ governanti, ne produsse altri nuovi. E primamente, che questi governanti assoluti imitarono questo stesso errore; fecero contro alle sètte liberali altre e varie sètte governative, assolutiste, e, che fu peggio, religiose: calderari, guelfi, ferdinandei, sanfedisti, e che so io; alle quali poco o molto, esplicitamente od implicitamente, in un modo o in un altro, in qualunque modo, parmi innegabile che s’aggiungessero alcune congregazioni che avrebbero dovuto rimanere religiose. E certo io credo, io son persuaso, che molti di tutti questi non vollero adoperare, non si sarebbero piegati mai ad adoprare mezzi chiaramente immorali, scelleratezze, peccati; ma, dal piú al meno, io son persuaso che molti delle sètte liberali non vi si sarebbero piegati nemmeno essi; e concedendo in ciò il vantaggio alle sètte pretendenti nome e scopo religioso, io veggo in esse per altra parte un grande svantaggio, un piú grave scandalo, quello d’avere abusato, piú che le sètte liberali (le quali ne abusaron pur esse), della mistura delle cose divine colle umane. Né bastò a’ nostri governi questo nuovo mezzo contro i liberali; usarono e portarono al sommo quel modo giá vecchio, che dicesi inventato o perfezionato da Leopoldo di Toscana, usato molto da tutti i governi rivoluzionari di che parliamo, in tutta Europa, ma forse piú che altrove in Italia, la polizia politica. Della quale non occorre dire che è chiaro come sia l’esagerazione dello stesso governo assoluto, come antipatica alla presente civiltá, come perciò vano, inutile, o nocivo mezzo di quello in questa. Insomma l’esiglio e il modo di restaurazione, e la preponderanza od anzi la prepotenza austriaca nel 1814, produssero il primo errore de’ governanti italiani del 1814, l’assolutismo retrogrado; questo produsse ne’ governati la parte liberale, e contemporaneamente l’error secondo delle sètte liberali, e queste poi furono madri, sorelle o figlie (ché non ne disputerò) delle controsette assolutiste, austriache, e pretese religiose, e le polizie giunte al sommo. E cosí di sètte, controsette e polizie, e quindi di scoppi or falliti in sollevamenti di un giorno, ora riusciti a rivoluzioni di poche settimane o pochi mesi, seguite sempre di persecuzioni, purificazioni, esigli, carceri ed anche supplizi, si riempiè la storia di trenta e piú anni che seguirono il 1814; è una brutta storia segreta, sotterranea, ma pur troppo reale, e piú importante che non la pubblica e non bella nemmen essa; ed è storia quasi unica de’ primi venti, fino al 1834 o 35.

Nel 1815, fu temuto e represso uno scoppio nel Lombardo-Veneto, non saprei dire se anteriore, contemporaneo o posteriore all’impresa di Murat. Il quale minacciato dal congresso di Vienna, ed allettato dall’impresa di Napoleone, e probabilmente dalle sètte, uscí di suo regno, invase l’Italia fino al Po, si fermò ai primi incontri coll’esercito austriaco di Bianchi, retrocesse, combatté a Tolentino, fu vinto, fuggí di Napoli, tornò fra breve in Calabria con pochi, vi fu preso, giudicato e fucilato in poche ore dalla gente dei Borboni cosí restaurati. – Nello stesso anno fece miglior figura il Piemonte, che dicemmo il piú mal restaurato fra gli Stati italiani, ma dove re, popolo ed esercito fanno sempre buona figura ad ogni occasione militare. Furono i soli che prendesser parte alla guerra di tutta Europa contro a Napoleone; ebbero un bell’affaruccio a Grenoble. – Dal 1815 al 1820, nulla, nemmen riforme, impedite dalla paura delle sètte mal liberali, dall’influenza delle controsette illiberali e lor alleati. – Nel 1820, scoppiata la rivoluzione militare di Spagna, scoppiò una militare nel regno di Napoli, vi proclamò, vi stabilí in fretta la costituzione spagnuola del 1812, cioè la francese del 1791: un re senza «veto» né libertá di re né di cittadino; una sola Camera, una commissione permanente ne’ recessi di questa, una cosí detta monarchia con istituzioni repubblicane; la peggiore delle monarchie e delle repubbliche; la forma di governo rappresentativo la piú contraria a tutta la scienza rappresentativa. Sicilia volle serbare la sua costituzione all’inglese; si separò, guerreggiò, fu vinta al solito. Al principio del 1821, scoppiò una rivoluzione piemontese imitatrice dell’imitazione napoletana; durò un mese: fu vinta dall’intervenzione austriaca, in poche ore; produsse la mutazione del buon re Vittorio Emmanuele I, che da un anno o piú accennava volgersi ad uomini e riforme liberali, in Carlo Felice; e intanto un esercito austriaco, attraversando tranquillamente l’Italia dal Po al Garigliano, disperdeva lá l’esercito napoletano, riconduceva il re che avea giurata e stragiurata la costituzione, ed or la spergiurava e distrusse. – Seguirono nove anni di pace e tranquillitá; cioè, supplizi alcuni, carceramenti non pochi; purificazioni, persecuzioni, esigli, moltissimi; sètte represse addentro, moltiplicate fuori; controsette, polizie trionfanti, fino al 1830. In luglio di questo, rivoluzione in Francia, cacciata dei Borboni; rivoluzione in Belgio, separazione, indipendenza di queste province, di quelle schiatte francesi, dalle tedesche d’Olanda; rivoluzione minacciata nella vecchia e sapiente ed esperta Britannia che se ne salva con una concessione della parte e aristocratica e conservativa, colla riforma parlamentare: rivoluzioni varie in Germania, ed estensione piccola della monarchia rappresentativa; rivoluzione in Polonia per l’indipendenza, ammirabilmente propugnata coll’armi da quel popolo armigero, perduta tra, e forse per le dispute di libertá. Ed in mezzo a tanto moto dí rivoluzioni, quasi tutte buone e tutte vere, che fece, che poté l’Italia? che poteron le sètte? Io non so. So che poterono piú le polizie e controsette; so che il moto italiano si ridusse a scoppi e sollevamenti piccoli qua e lá, in Romagna, nelle Marche, a Roma, quetati in parte dal principotto di Modena e dal nuovo papa Gregorio XVI, spenti da un’invasione austriaca giá terza in quelle province, e da una prima francese. Furono male spenti, è vero; il fuoco uscì dalle ceneri in fiammelle nel 1833 in Modena e Piemonte, ma, a spegnerle di nuovo e piú durevolmente, bastarono colá poca truppa austriaca, qua la polizia del paese; seguita poi l’una e l’altra di piú numerosi supplizi che non si fosser usati fin allora. E questo fu il culmine, o piuttosto il piú bassofondo di quella guerra, quella politica, quella storia sotterranea; fu l’epoca della maggior divisione tra governanti e governati italiani. Invece della quale, invece di stabilirla da principio ed accrescerla sempre piú con orrori avvicendati, se avessero saputo i governanti accostarsi ai popoli con riforme liberali; ovvero i governati ai governi, per suggerire, insistere alle riforme ed aiutandovi con mettervisi essi, non è, non può rimaner dubbio che que’ venti anni sciagurati, invece di essere di peggioramento, sarebbero stati di un miglioramento, di un principio ed aiuto qualunque a ciò che seguí.

41. Continua [1833-1843]. – E la maggior prova di ciò risulta appunto da quanto seguí. Il paese d’Italia piú importante senza contrasto in Italia fu fin dal 1814 il Piemonte. L’Italia non è da rimproverare di non aver ciò veduto; è piuttosto d’averlo veduto troppo, di aver fidato nel Piemonte solo, non ciascuno pure in sé; non solamente tutti i forti sperarono in lui, ma tutti i fiacchi si riposarono in lui, e quasi tutte le mene de’ cattivi si volsero a lui. L’uomo poi, fin dalla medesima epoca, piú importante in Piemonte e in Italia, fu senza contrasto Carlo Alberto. E quindi a lui piú che a nessuno mirarono, lui cercarono, circondarono, travagliarono e tormentarono variamente buoni, forti, fiacchi, cattivi, d’ogni sorta; ed aggiugnendosi alla varietà degli uomini la varietà della fortuna, n’uscí quella varia natura, che tutti seppero, molti calunniarono, pochi conobbero, e piú pochi sanno apprezzare. Il piú degli uomini perdono ad essere studiati; questi ha bisogno d’essere studiato, per essere, cosa rara, compatito insieme ed ammirato. E perciò, perché questo non può che guadagnare a ciò che se ne parli, e come centro che fu d’Italia per trentacinque anni, val la pena che se ne parli con qualche particolare, perciò mi scosto dal mio proposito, e mi vi fermo. Nato nel 1798 d’un ramo staccato da presso a duecento anni, e cosí discosto dal trono di casa Savoia, era di pochi mesi quando cadde questo trono in Piemonte; e cacciata la famiglia regia per Sardegna, suo padre e sua madre rimasero in Piemonte, privati fra que’ repubblicani. E mortogli poco appresso il padre, e passata alcuni anni appresso la madre a seconde private e feconde nozze, egli s’allevò in quella nuova famiglia, ed in parecchi convitti di giovani in Parigi, in Ginevra, tra cattolici, protestanti, repubblicani, imperialisti; ed in quella condizione tra principe e privato, che è giá ambigua e difficile per sé, che gli si faceva piú ambigua d’anno in anno, non essendo nato e vivuto niun erede maschio a casa Savoia in Sardegna, e rimanendo egli cosí erede a quel regno, e pretendente agli Stati di terraferma. È noto come questa condizione di pretendente sia la piú ambigua, la piú infelice in che si possa educar un principe. Stava per uscirne ed entrar nell’esercito di Napoleone, quando questi cadde. E chiamato allora a un tratto alla reggia retrograda ed assoluta di Torino, e circondatovi insieme di vecchi assolutisti e di giovani liberali, pendé facilmente, naturalmente a questi, e per le memorie di sua educazione, e per la sua gioventù, e per il suo sangue stesso, avverso ad Austria, ed avido d’imprese, ed anche venture militari, di generazione in generazione. Nel 1820 e 1821, fu tra quelli che avrebbero aiutata la rivoluzione liberale, se si fosse fatta co’ mezzi legali, con riguardi agli obblighi suoi verso il suo re. Ebbe egli e ruppe bene o male impegni presi? non è qui il luogo di chiarirlo; né io scrivo un panegirico o una difesa. E sarebbero forse mal difendibili tutti gli atti durante o dopo la sua breve reggenza, e il suo mutar poi, o sembrar mutar opinioni e modi durante il regno di Carlo Felice. Questo dico e so, che le opinioni sue nel 1821 erano sinceramente liberali; per la libertá, senza gran cognizione e discernimento di essa; per la indipendenza, con quell’ardore, quel cuore, quella devozione di sé e de’ suoi, fin d’allora, che gli vedemmo ventisette o ventott’anni in poi. E quindi non rimane a me il menomo dubbio, che se si fosse lasciato svolgersi ed afforzarsi da sé quell’ardore, quello spirito, quell’animo primitivamente liberale, e che niuno oramai può non dire naturalmente generoso; se non si fosse alienato con disegni, che a ragione o a torto non gli parvero generosi; se fosse rimasto duranti i due regni intermediari circondato da quegli uomini liberali e generosi, che furono essi pure perduti in tutto quell’intervallo per la patria; non è dubbio, dico per me, che il suo accedere al trono nel 1831, subito dopo alle grandi rivoluzioni europee, sarebbe stato principio di un regno fermamente, uniformemente liberale nel principe, e liberalmente aiutato da’ compagni ed amici di sua gioventù. Fu invece un regno di titubanze continuate fin presso al fine. – Incominciò con alcuni atti liberali, ma piccolissimi, i quali dimostrano insieme, e che il suo animo vero, i suoi disegni erano liberali, ma ch’ei dubitava, voleva tentar quella ch’ei prendeva per opinion pubblica, ed era solamente della corte, dei servitori, degli impiegati del suo predecessore. I quali naturalmente si scandalezzarono di que’ principi, vi si opposero, lo fermarono, lo determinarono ad atti opposti e via via cresciuti, fino a quelli deplorabili che accennammo della repressione, giusta in sé, ingiusta nelle forme e negli eccessi, della congiura del 1833. Si fece poi, e si fa un gran chiasso della aristocrazia piemontese, quasi che ella fosse che producesse, nutrisse e mantenesse questo pervertimento delle buone intenzioni di Carlo Alberto. Ed io non mi faccio nemmeno difensore di quella aristocrazia; ma mi par da osservare fin di qua, che quando in qualche storia distesa si verrà ai particolari ed al novero dei nomi veri aristocratici piemontesi, se ne troveranno molti piú nelle vittime del 1821, nelle opposizioni legali dal 1821 al 1848, o nella parte che aveva nome di liberale nella corte stessa, che non nella parte stazionaria, retrograda o persecutrice di questa; e che i veri persecutori poi furono di tutt’altro che di quella vera aristocrazia. Perché dar nomi falsi alle cose pur troppo vere? perché non chiamare semplicemente e veramente parte retrograda, residuo del regno precedente, effetto delle tristi persecuzioni e purificazioni del 1821, quel cumulo di governanti, che sviarono i primi anni di quel regno, il quale doveva finir poi, forse ancora il piú utile, certo il piú glorioso che sia stato mai, a casa Savoia, e, niuna classe esclusa, a tutta la nazione, a tutto il nome piemontese?

Lo dicemmo; il 1833 fu l’anno piú basso, piú oscuro di tutto questo periodo. D’allora in poi, piú o meno prontamente si risalì, si rischiarò il cielo d’Italia. Gli storici distesi accenneranno essi piú esattamente i fatti, i principi, le continuate opposizioni, le nuove titubanze, le fermate, i ritorni indietro, la vittoria ultima dell’opinione liberale, progressiva, giusta, naturale al secolo, alla civiltá cristiana, ai decreti evidenti della provvidenza. Io accennerò solamente quello che mi pare primo principio, e, se non causa, occasione, mezzo usato da Dio, in tutto ciò. Carlo Alberto fu negli ultimi anni suoi sinceramente pio, intimamente, forse scrupolosamente coscienzioso. Ed io credo che la sua coscienza primieramente liberale si sollevasse contro agli stessi atti suoi del 1833, fosse l’origine di quell’austeritá de’ suoi atti, di sue parole, di tutti i suoi modi, di tutta sua vita, che incominciò appunto negli anni che seguirono l’origine del suo fermarsi nella via antiliberale, del chiamar uomini meno estremi, massimamente in fatto di persecuzioni e polizia, del suo camminar piú fermo nelle riforme. Fecene molte d’allora in poi; il suo Stato era rimasto il piú retrogrado tra gli italiani; fecene il piú progredito, il meglio ordinato. Riformò tutta la legislazione civile, e ridussela in codici; riordinò, ampliò la magistratura; ordinò le opere pie, le finanze dello Stato, che furono le piú fiorenti d’Europa; e con cura speciale l’esercito; protesse le lettere, le arti, le scienze, le societá d’agricoltura, le accademie, le universitá, i congressi. Tutto ciò indubitabilmente; tutto ciò, a parer mio, troppo lentamente, insufficientemente, come se avesse a durar sempre il regno assoluto o s’avessero secoli a far passi alla libertá. E quindi, quando venne questa, ed insieme l’occasione dell’indipendenza, il suo Stato ed egli stesso si trovarono apparecchiati all’una ed all’altra poco piú che se non si fosse fatto nulla; e tutte le riforme fatte da lui ebbero od han bisogno d’essere riformate; tutte le opere fatte con previsione, mancanti nella mira principale, non poterono durare. Insomma, il Piemonte non fu portato a segno d’entrare cosí bene come avrebbe potuto nell’occasione, non o mal preveduta, del 1848. Ma il Piemonte, ultimo degli Stati italiani dal 1814 al 1833, fu da quell’epoca all’incirca portato da Carlo Alberto a segno d’entrar prima, piú e meglio degli altri Stati italiani, quando scoppiò, quantunque mal preveduta, quell’occasione.

Negli altri Stati non si progredí parimente per due ragioni; la prima, che, qualunque sia la grandezza che la storia futura compiutamente informata e scritta sará per concedere a Carlo Alberto, non è dubbio gli altri principi assoluti contemporanei suoi furono di gran lunga inferiori; e perché poi alcuni di questi altri Stati, meno male restaurati nel 1814, erano fin d’allora a quel punto di bontá a cui Carlo Alberto voleva portare e portò il Piemonte, a quel punto che è compatibile col principato assoluto. Napoli e Parma avevano conservati i codici e l’amministrazione di Napoleone con poche novazioni; avevano ordine sufficiente nelle finanze; e Napoli aveva di piú un esercito ed una marineria militare quasi fiorenti. La polizia v’era dura, intrigante, preoccupata di sètte e controsette; ma quando le prime non iscoppiavano, essa pure rimettendo de’ suoi rigori, ne pareva tollerabile. Della Toscana giá dicemmo che fin dalla seconda metá del secolo decimottavo essa era stata portata a vera perfezione di principato assoluto, e fu restaurata in essa fin dal 1814; e mantenutavi poi da due principi miti, ella sarebbe rimasto lo Stato piú avanzato, il meglio governato, in tutto, che fosse in Italia, se non fosse di quella negligenza ed anzi di quella repugnanza ad avere un esercito, di che son forse ad accusare meno i principi che i popoli, e forse i liberali, gli stessi, i migliori uomini di quell’imbelle od avara regione. – Quanto a Roma e Modena, mal restaurate nel 1814, elle rimasero peggio governate d’anno in anno in tutto questo tempo; cattiva polizia e persecuzioni furono comuni ai due Stati; speciali al pontificio i disordini di finanze, armi straniere, governo ecclesiastico nelle cose piú laicali, ed in che il sacerdozio perde piú di sua dignitá. – Finalmente, il regno lombardo-veneto, anch’esso (cioè il suo nòcciolo di Lombardia) non mal governato come parte d’imperio assoluto nel secolo scorso, non mal restaurato né mantenuto come tale, avrebbe potuto vincere al paragone di Toscana e Piemonte, se in teoria né in pratica fosse possibile far paragone tra qualunque governo anche pessimo nazionale, e qualunque anche ottimo straniero. Se io scrivessi per istranieri che hanno da secoli il sommo bene dell’indipendenza, e non conoscono per prova il sommo male della dipendenza, io accennerei almeno ad alcuni particolari che dimostrano la realitá di questo sommo male, le differenze di schiatta, di lingua, di costumi, di sentimenti, d’interessi; la lontananza del centro governativo, la lentezza d’ogni decisione, i cinquanta o sessanta milioni tolti annualmente al paese, l’ozio naturalmente invadente, i vizi conseguenti, l’avvilimento universale inevitabile. Ma scrivendo ad italiani, che han provato e provano quel sommo male per sé, o nei compatrioti e vicini, ogni cenno che io ne dessi qui, sarebbe inferiore al vero che ne hanno concepito essi. – Insomma, a chi consideri ora tutta questa condizione comparata de’ diversi Stati d’Italia, è chiaro che se mai doveva venire qualche miglioramento vero, qualche impulso grande al progresso italiano, ei doveva venire dal Piemonte: gli altri Stati erano, anche in ciò che avean di meglio, stazionari; il Piemonte, anche in ciò che aveva di peggio, progrediva, aveva giá il moto ascendente; e il moto ulteriore non si poteva sperare se non dal moto. E cosí credevano, speravano allora gli italiani; tutti gli occhi eran rivolti al Piemonte, a Carlo Alberto. E le speranze comuni non furono ingannate.

Niuno di coloro che scriveranno la storia distesa, o qualsiasi compendio di questo periodo, non potranno dividere, come facemmo noi fin qui, la storia politica dalla letteraria. L’una e l’altra ebbero sí sempre molte relazioni pur troppo; ma in questi ultimi anni elle n’hanno tante, che ne rimangono continuamente frammiste. – Ne’ primi anni dopo le restaurazioni, sopravivevano (tranne Alfieri, Parini e Cesarotti) gli uomini principali delle rivoluzioni repubblicane e dell’imperio, Foscolo, Botta, Monti, Denina, Lagrangia, Volta, Canova. Ma lasciando qui le scienze e l’arti, che continuarono con isplendore, ma senza grandezze comparabili a quelle; e delle lettere stesse contentandoci a dir ciò che piú si connette colla politica, noteremo che niuno dei nominati non produsse piú nulla di gran conto, tranne il solo Botta. Il quale, all’incontro, rimasto in Francia, vi compose e pubblicò le due storie d’Italia dal 1530 al 1789, e dal 1789 al 1814, le quali sono forse non solamente le due opere sue migliori, ma i due piú lunghi e piú belli corpi di storia patria che sieno stati scritti da niun italiano. Scritti, a malgrado i difetti, in istile ammirabilmente chiaro, largo, vivo, caldo e naturale, si leggono come una novella da chicchessia dotto od indotto, che è il sommo dell’arte storica. Difettano sí di scienza storica, e piú di scienza politica, a tal segno, che non solamente il vecchio liberale, anzi repubblicano, vi comparisce scrittore scettico, indifferente alle diverse forme di governo, e non persuaso se non della malvagitá degli uomini e dei tempi in generale; ma che nell’ultime pagine da lui scritte in conchiusione della storia dal 1530 al 1789, egli ci lascia quasi un progetto di governo a modo suo, che non rimane né monarchico né repubblicano, ed anche meno rappresentativo, ch’ei descrisse ma non intese né ammise. E quindi l’opere sue contribuirono a mantenere sí, e diffondere, ma non a determinare le opinioni liberali, anzi le indeterminarono e dispersero peggio che mai. Una pubblicazione mensile pubblicata per poco tempo in Milano, proibita poscia dalla polizia, ebbe, s’io non m’inganno, il medesimo vizio, il medesimo effetto. Vennero poi due scrittori, de’ quali non credo sia stato mai dacché si scrive niuno piú amabile, piú simpatico ad ogni cuor gentile, perché niuno scrisse con piú soavi tinte di gentilezza che questi due, Manzoni e Pellico, ammirabili e parchi poeti amendue, e scrittori di prosa tanto piú ammirabili, quanto piú seppero scrivere italianamente con semplicitá. Manzoni, milanese, s’illustrò con cinque canzoni, che riuscirono nuove e forse superiori a tutto, dopo il canzoniero accumulato nei sei secoli della poesia italiana; seguí con alcune tragedie storiche, o come si diceva allora, romantiche, e con alcune note ad esse ed alle storie del Sismondi; giunse al suo colmo in quel racconto de’ Promessi sposi, che fu, che diede il genere del romanzo alle lettere nostre, e lo portò d’un tratto a segno, da superar forse in fatto d’arte, e certamente in utile morale, quanti furono scritti mai in qualunque lingua antica e moderna. Pellico, piemontese, era giá amato per la Francesca, ed altre tragedie, quando, implicato nello scoppio del 1821, fu tratto allo Spielberg, vi rimase intorno a dieci anni, n’uscí poi per grazia implorata dall’Italia, dall’Europa intiera, e pubblicò nel 1833 quel rendiconto delle sue prigioni, de’ suoi patimenti, che diffuse in Italia, in Europa, nel globo intiero, i particolari della tirannia austriaca, tanto piú scandalosi, quanto piú semplicemente e pazientemente descritti. Ambi questi scrittori furono accusati di rassegnazione politica; ma il fatto sta che questa era religiosa, e non entrando in quelle distinzioni tra l’una e l’altra, che sono difficili a farsi in pratica e piú difficili in teoria, lasciavan pure a ciascuno la libertá delle applicazioni; e che anzi il sentimento profondamente religioso insieme e liberale, che presedeva tutte le opere di Manzoni e di Pellico, serví anzi molto meglio che niune delle contemporanee a determinare anche politicamente il liberalismo italiano; serví anzi, riuscí a tôrlo dalle vie empie e perciò stolte ed incivili del filosofismo del secolo decimottavo, fece cattolici molti liberali, e liberali molti cattolici, accrebbe cosí e rinforzò la parte liberale, preparò la pace tra essa e la Chiesa, tra governati e governanti. Non dirò de’ contemporanei che continuarono l’opera di questi due grandi; vengo subito a chi l’accrebbe e determinò anche piú.