Kitabı oku: «Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni, sommario. v. 2», sayfa 15
Del Piemonte, centro e base d’operazioni militari e politiche di tutta quell’alta Italia (onde giá prendevasi prematuramente e cosí forse risibilmente il nome al nuovo regno), del Piemonte sarebbe per ciò a dir forse piú lungamente; ma ne dirò tanto meno quanto piú vi sono interessato. Il meglio del Piemonte, i nostri figli, i nostri prodi, non erano in Piemonte. Torino deserta era piú magnifica, che non sia per esser mai affollata. Nobili e plebei, liberali vecchi e nuovi e non liberali, militari in attivitá o giá in ritiro o ancora alle scuole, pregavano, supplicavano per un posto qualunque, o partivano senza posto, all’esercito. Un vecchio colonnello in ritiro portò lo schioppo, e con frutto, per tutta la campagna. Sette fratelli Brunetta fecero le due. Undici d’un nome e d’un sangue vi si trovarono il dí di Pastrengo. Chiusa l’universitá, gli studenti diventati bersaglieri. Un giovinotto quasi fanciullo lascia la famiglia e il palazzo, va bersagliare dinanzi Peschiera, ha una palla nel cappello, gli par bella cosa, corre a Torino a mostrarlo alla madre ed ai compagni, e torna bersagliare a Pastrengo. All’accademia militare giá spoglia de’ corsi superiori, si sollevano quelli de’ corsi inferiori, che avean diciotto anni, pretendendo che non la scienza ma l’etá dava diritto a combattere; e non fatti ufficiali, partono sottoufficiali. Nella guardia nazionale di Torino servono volontari i fanciulli di quattordici anni. Chi per l’Italia, chi per il Piemonte, chi per il re e casa Savoia, chi per nessuno, per battersi. Questo, e questo solo, si chiama spirito militare; questo auguro all’Italia; che non so se abbia piú o meno merito, so bene che serve alla patria piú che la passione, nobilissima sí, ma, come ogni passione, fugace, della patria stessa. In men d’un mese l’esercito fu portato da venticinque a cinquantamila uomini e piú, l’artiglieria da quarantotto pezzi a centododici, oltre del parco d’assedio, oltre i depositi, le riserve, ed una coscrizione nuova chiamata. Se s’avessero avuti ufficiali bastanti, o si fosser potuti far tali tutti i sottoufficiali, si sarebbe avuto un esercito come quello di otto mesi appresso.
Non tutte le province, per vero dire, forniron uomini in pari proporzioni. Non nominerò quelle che meno; sí quelle che piú, il Piemonte antico e l’antichissima Savoia. Spoglia di truppe, ed assalita questa ne’ primi dí d’aprile da una mano di canaglia francese che chiamavan se stessi «feroci», si sollevarono da sé i buoni savoiardi e se ne liberarono. Da diciassette o diciottomila combattenti ebbe sempre, e de’ migliori: oltremontani di sito e di lingua, furono i veri fratelli d’Italia, piú che tanti che si cantavan tali. In Torino era reggente il principe di Carignano, fremente armi come i suoi cugini, obbediente al posto assegnatogli dal suo re. Il ministero, formato, con tutti que’ primi costituzionali, di uomini d’ogni tinta liberale epperciò eterogenei, non si divise perciò, rimase unito dal sentimento comune della indipendenza; finché non furono adunate le Camere addí 9 maggio. Né in queste stesse si urtarono guari le parti, da principio, finché durò al campo la vittoria. Ma venuti gli indugi, gli errori dopo Goito, venner le accuse, giuste in parte, ingiustissime ed anche piú inopportune nelle loro esagerazioni, contro all’esercito; ed intanto poi la domanda de’ genovesi di distruggere (in mezzo alla guerra!) due de’ loro forti; e poi, dopo la fusione lombarda unanimemente pronunciata, quella coda della Consulta legislativa staccata, che i lombardi vollero fino all’adunarsi della comune Costituente; allora si divisero naturalmente ma miseramente e Camera e ministero; e fu cresciuta la confusione dalle iterate demissioni di questo e gl’indugi a formarne un altro, e finalmente dalle sconfitte dell’esercito. Due gravi, diversi, anzi opposti, rimproveri furono fatti allora e poi alla diplomazia piemontese; dall’una parte, di non avere conchiusa una confederazione o almeno una lega italiana domandata da Roma e Toscana; dall’altra, di non aver conchiusa la pace colla linea dell’Adige offerta da Schnitzer a Milano e da Himmelauer a Londra. Ma, quanto alla lega, i documenti posteriori e le narrazioni stesse fattene in senso contrario dimostrano che tali negoziati non servirono quando furon fatti, non avrebbero servito, se fatti prima, se non (come succede in ogni negoziato senza base niuna possibile), se non a divider piú. E quanto alla linea d’Adige, io concedo facilmente che il non accettarla fu error sommo per il Piemonte certamente, ed anche per l’Italia; ma fu di quegli errori che non era forse possibile non fare allora, che il non farli non avrebbe servito a salvar le sconfitte, e che ad ogni modo furono, come tutto il resto, generositá, lealtá, o se si voglia pazzie piemontesi, compensate come abbiamo giá veduto. Piú reale e nocivo errore fu forse l’avere, colle riunioni accelerate e le parole imprudenti ufficiali, spaventato l’Italia media e meridionale. – Tutto ciò in quel settentrione, che solo veramente, proporzionatamente a sue forze, epperciò degnamente, guerreggiò o almeno soffrí per l’indipendenza. Della restante Italia giá dicemmo quant’è bello a dire, quanto fecero per quella causa i pochi toscani, pontifici e napoletani, tanto piú lodevoli essi quanto piú pochi, quanto piú è bello essere operoso e prode in patrie inerti. Poche parole aggiugneremo su’ loro errori fatali e crescenti.
Se non fosse dell’inerzia militare, di che io credo colpevoli principe, popolo e grandi, volgo, governanti e governati, tutti quanti in Toscana, questa sarebbe il paese del mondo piú fatto a civiltá e libertá. Il ministero Ridolfi formato in marzo, il parlamento adunatosi in giugno, furono forse i men divisi, i piú civili, i migliori in tutto che sieno stati a quella grand’epoca iniziatrice. Se non che, come succede pur troppo soventi in tutti i paesi di governi rappresentativi, le parti a cui non s’era dato adito al ministero ed alle Camere, furono tanto piú vive e dannose fuori. Liberali estremi, o come allor si disse alla francese, «rossi», repubblicani e settari fecero capo in Livorno. Il ministero tranquillo nel parlamento, ebbe a pugnar colla piazza di Livorno e suoi rimbombi a Firenze. Né tuttavia scoppiava tuttociò, finché le vittorie piemontesi tenner fermi i governi italiani. – Cosí in Roma sotto il ministero Antonelli [nominato li 10 marzo], ma per pochi giorni appena. Ché incominciò a turbarsi l’animo di Pio IX per li tumulti, anche piú anticivili che antireligiosi, contro ai gesuiti le cui case fu ridotto a far chiudere egli stesso [30 marzo]. E si turbò piú che mai per il proclama con che Durando invitava quasi a crociata l’esercito pontificio [5 aprile]. E dicesi si turbasse per le temute ambizioni del Piemonte e per il suo indugio a trattar la confederazione; ma quelle furono posteriori ne’ lor segni, e questa avrebbe cresciuti anziché scemati i suoi scrupoli di guerreggiare. E il fatto sta che questi furono effetto principalmente delle voci che venivano d’Austria, anzi di Germania tutta, che que’ vescovi, que’ cleri, que’ cattolici si alienassero da lui parteggiante, guerreggiante contro essi per Italia, si separassero dalla Santa Sede, facessero scismi. Erano voci, timori esagerati, ma naturali. Cosí fu da Alessandro III e Gregorio VII in qua, e sará sempre; epperciò, sempre il dissi e sempre il ridirò, i papi non possono esser duci a niuna impresa d’indipendenza nostra: fattine duci l’abbandonano, il loro dovere di papi superando il loro dovere di principi italiani, e la fa loro abbandonare; e abbandonandola come duci, la rovinano. Quando, all’incontro, si saprá fare senz’essi, essi avranno anche come papi le medesime ragioni a non mettervisi contro, che ebbero a non mettersi contro a’ nostri nemici; lasceranno fare, tollereranno dapprima, e se ne contenteranno poi, indipendenti essi allora piú che mai, o indipendenti allora soltanto veramente. Ad ogni modo, tutti questi scontenti, scrupoli, timori, troppo naturalmente incitati dalla parte austriaca o retrograda, troppo stoltamente dalla liberale, scoppiarono all’ultimo in una allocuzione concistoriale del 29 aprile, nella quale Pio IX respingeva da sé ogni partecipazione alla guerra, e tanto piú la presidenza della confederazione o lega, ch’egli chiamava «una cotal nuova repubblica degli universi popoli d’Italia»3. E da quel giorno fu tolta di mezzo la forza principale della causa d’Italia, tolta ogni forza alla parte moderata, che s’appoggiava al concorso dei principi, e di questo sopra tutti. Il primo effetto fu la caduta del ministero Antonelli, e la formazione d’un nuovo [4 maggio] che fu presieduto dal cardinal Soglia, ma prese nome ed andamento dal Mamiani. Il papa scrisse e mandò un legato all’imperator d’Austria per la pace, ma inutilmente. Adunaronsi le Camere, o come si disser lá i due Consigli [5 giugno]. E subito ad ogni tratto, ad ogni fatto, per ogni piccola parola del discorso del governo, degli indirizzi delle Camere, delle orazioni dei deputati, fu un dividersi, un disputare, un non intendersi, un inasprirsi a vicenda, senza paragone maggiore che negli altri parlamenti. Era naturale, i membri del parlamento e parecchi de’ ministri stessi volevan ridurre al nulla, o come si disse «cacciar nelle nubi» il principe ecclesiastico, molto piú che non si volesse od osasse fare allora de’ principi laici; e il papa si credeva anche piú degli altri in dovere di non soffrire tale spogliazione. Tuttavia, nemmeno a Roma nulla scoppiò finché durò la fortuna piemontese. – Non cosí nella caldissima, anzi infocata Napoli. Dove, appena dato lo statuto, eransi giá succeduti due ministeri presieduti dal Serracapriola e dal Cariati, quando venute le notizie della guerra incominciata da’ piemontesi, il popolo la chiese, il re la dichiarò e fece un altro ministero presieduto da Carlo Troya [7 aprile]. Partirono alcuni volontari primamente condotti dalla principessa Triulzi-Belgioioso, poi il decimo reggimento che per via di Toscana andò ad unirsi all’esercito piemontese e vi combatté bene; poi per le Marche fino a Bologna un esercito capitanato da Guglielmo Pepe, e partí a un tempo l’armata di mare per l’Adriatico. Ma erasi adunato intanto il parlamento siciliano addí 26 marzo; e nominatosi reggente dell’isola Ruggiero Settimo, e decretata la separazione dell’isola dal Regno e la decadenza di casa Borbone da quella corona separata, si apparecchiarono e serbaron l’armi ed armati miseramente non all’indipendenza vera e nazionale d’Italia, ma, profanando il nome, a quella che s’osò chiamare indipendenza d’una provincia italiana: era diminuzione dell’unione esistente, era disunione perpetrata allora appunto che si andava proclamando l’unitá. E quando la flotta napoletana passò lo stretto per l’Adriatico, Messina le tirò contro. Né erano piú savi a Napoli. Appressandosi la convocazione del parlamento per il dí 15 maggio, non che riunirsi, come altrove, i partiti in quella speranza, in quell’effettuazione dello statuto, fosse opera delle sètte piú potenti lá che altrove, o degli emissari repubblicani francesi, o diffidenza ed odio al re, o che che sia, il fatto sta che giá gridavasi non voler Camera dei pari eletta dal re, non lo statuto qual era, non giuramento a questo senza riserva. Disputossene, fra re, ministri, deputati, pari, guardia nazionale e popolo, ne’ giorni precedenti a quello della convocazione. Nella sera de’ 14 incominciarono barricate all’incontro del palazzo regio e delle truppe che stavanvi a guardia. A mezza mattina dei 15, eran cresciute le barricate e guardie. Popolo di qua, truppe in battaglia di lá, non potevano restare oziose gran tempo. Parte un colpo: s’appiglia la zuffa, la battaglia, il macello, il saccheggio, ogni nefanditá di guerra cittadina. Le truppe rimangono vittoriose; il re muta ministero; Cariati presidente del nuovo; si sciolgon le Camere senza essersi legalmente aperte; i deputati perseveranti in lor aula, son cacciati da’ soldati; un proclama ripromette lo statuto; i repubblicani fuggono a Calabria, e vi levano guerra civile. Il re richiama l’esercito da Bologna, dismettendo Pepe. Questi con pochi disobbedisce, e vanno a Venezia. Statella sottentratogli, riconduce il resto in disordine. E cosí i pontifici di Durando abbandonati da un esercito intiero su cui contavano, furono perduti; cosí l’esercito piemontese perdette tra questi e quelli i trentamila uomini che formavano tutta la sua destra: cosí la guerra d’indipendenza, infiacchita giá il 29 aprile dalla allocuzione del papa, fu perduta intieramente il 15 maggio, mentre i piemontesi pur combattevano, morivano e vincevano per lei a Pastrengo ed a Goito. Noi non celammo gli errori che trasser questi da tali vittorie alla sconfitta di Custoza. Ma siffatti errori, al paragone, sono piccoli, sono di quelli che si fanno in ogni guerra, anche condotta da’ migliori capitani. Questi sono gli errori grossi, che causarono que’ piccoli, ed impedirono di rimediare a’ piccoli; questi, quelli che due mesi prima di Custoza avean giá perduta la guerra d’indipendenza. E con lei la parte moderata, la parte soda, sana, virtuosa, devota d’Italia.
44. L’armistizio [agosto 1848-20 marzo 1849]. – Il periodo de’ sette mesi che seguí tra la prima e la seconda campagna di nostra guerra d’indipendenza fu cosí fecondo d’errori e d’insegnamenti politici, come era stato il primo di militari; fu anzi un cumulo, un precipizio, un vero baccanale d’inciviltá. La guerra d’indipendenza aveva fatto tacere le esagerazioni di libertá, la stolta idea dell’unitá: cessata ora la prima, scoppiarono quelle e questa. Se l’Italia media o meridionale fossero state mature all’indipendenza, allora si sarebbe veduto, allora sarebber sorte sottentrando al vinto Piemonte: ma fu tutto all’opposto; d’allora in poi non sorse, non accorse un battaglione da quelle due Italie imbelli e distratte. I settari reduci dall’esilio, avevano giá nel primo periodo empite e corse le cittá d’Italia, Milano, Genova, Livorno, Roma, e Napoli principalmente; ma, fosse invidia o vergogna dell’impresa iniziata da altri, v’avean presa poca parte, ed erano i piú rimasti nell’ozio o nell’ombra: sbucarono sí allora da ogni parte, si mostrarono ne’ circoli e sulle piazze, penetrarono ne’ parlamenti e ne’ ministeri, abbatteronvi governi esistenti, ne crearono dei provvisori e vi promossero la licenza sotto nome di «libertá democratica», la unitá sotto quello di «Costituenti italiane». Cacciati di Milano dalla conquista austriaca, di Venezia dalla prudenza di Manin, di Napoli dalla controrivoluzione, s’ingrossarono tanto piú in Roma, Firenze, Livorno, Genova e Torino, vagando, come fu detto allora, quasi compagnie comiche dall’una all’altra di quelle scene aperte a lor fortune, sventura d’Italia. Alcuni uomini, nuovi o non logori dalla calunnia e dai tradimenti del primo periodo, tentarono resistere, ma invano. E non avendo noi luogo a distinguere i loro meriti, vogliamo almeno siano eccettuati da quel biasimo, del resto universale, che la severa e sola utile storia non può qui se non versare sull’Italia intiera, che sará confermato da’ posteri, se saranno migliori di noi. Se ne persuada una volta la misera Italia: ella fu perduta da’ suoi adulatori, dagli accarezzatori de’ suoi vizi e delle sue passioni, dagli scusatori delle colpe sue: finché ella dará retta a costoro ed ai successori di costoro, storici, politici, oratori di ogni sorta, ella non può riconoscere i suoi vizi; e finché ella non li abbia riconosciuti, ella non è nemmen sulla via di correggerli; e finché ella non li abbia corretti, ella vizierá, ella perderá tutte le occasioni, tutte le imprese, come ella viziò e perdette quella magnifica ed insperata del ’48.
In Torino il ministero Casati, entrato il 27 luglio, si dimise subito dopo l’armistizio, addí 13 agosto; sottentrò uno presieduto dapprima da Alfieri, poco appresso da Perrone. Tardi, ma opportunamente ancora, il parlamento die’ ogni potere al re, e fu prorogato. – A Bologna arrivarono gli austriaci addí 7 agosto, e s’accamparono per accordo intorno alla cittá tenendone le porte. Ma sollevatosi il popolo il giorno appresso, li cacciò di lá intorno; ed accorsi i campagnuoli, li forzarono a raccogliersi verso Ferrara. Fu bello e raro esempio, ma seguíto dai soliti disordini popolari che durarono tutto quel mese e fino al principio dell’altro. E Roma era turbata da questi ed altri moti delle province, e addentro dai circoli, dalle sregolatezze, dal discredito del ministero. Il quale finalmente si ricompose addí 13 settembre, sotto la medesima presidenza del cardinal Soglia, ma si rinforzò di altri uomini popolari e soprattutti di Pellegrino Rossi. Esule questi d’Italia fin dal 1815 dopo aver preso parte al governo di Bologna istituito da Murat, erasi rifuggito in Ginevra dove aveva acquistata tal fama di professore, scrittore ed uomo di Stato, che gli fu affidato il carico di proporre un nuovo patto federale per tutta la Svizzera. Non accolto questo, erasi trasferito in Francia, dove accrescendo la triplice fama sua, era stato fatto pari ed ambasciadore a Roma. E qui accresciutala di nuovo in vari negoziati, ma lasciato il posto da febbraio in qua, era pur rimasto consigliero, amico del papa, amico delle riforme e dello statuto e d’ogni liberalitá; ondeché non era uomo in Italia che desse tanta speranza di sé a’ moderati, tanto timore ed odio ai settari, ai repubblicani, ai cosí detti democratici. E quest’ire e quest’odii si accesero tanto piú ne’ due mesi che, prorogate le Camere, il nuovo ministero governò, reprimendoli ed ordinando, come si poteva, bene l’amministrazione e le finanze. – In Napoli, dove il re aveva convocato un nuovo parlamento, e le elezioni aveano rimandato il medesimo fin dal primo luglio, re e parlamento non fecer altro guari che dividersi, com’era a prevedere, piú che mai, e quindi addí 5 settembre nuova prorogazione fino a’ 30 novembre. Quasi dappertutto adunque tregua politica come militare. – Ma non nella debole Toscana, dove, fosse caso o disegno, scoppiaron le opere de’ settari.
NOTA
I
Inculcare ai suoi connazionali e contemporanei che, prima di preoccuparsi del problema, intorno a cui tanto si travagliavano, dell’unitá, o dell’altro, pur cosí variamente discusso, della forma di governo, dovessero provvedere a risolver quello, ben altrimente importante, dell’indipendenza, lasciando da banda le effusioni rettoriche, le logomachie accademiche, le dimostrazioni di piazza e le macchinazioni settarie, e procurando piuttosto di mantenersi concordi e di riacquistare, fin quanto fosse possibile, quello spirito e quell’educazione militare, che purtroppo s’eran perduti da secoli, fu lo scopo cui Cesare Balbo tenne sempre fiso l’occhio durante la sua lunga, laboriosa e onestissima vita letteraria. E sempre solo mezzo idoneo al conseguimento del fine nobilissimo gli parve un libro storico, che, narrando gli avvenimenti svoltisi nella penisola in tre millenni, mostrasse, senza sforzi di ragionamento, ma con l’evidenza d’un imparziale racconto, che, allora soltanto l’Italia fu grande, prospera e felice, quando, animata dallo spirito d’indipendenza, seppe tener lontano dalle sue fertili e agognate contrade l’aborrito straniero.
Quando si abbia innanzi a sé, fissato con nettezza che non si potrebbe maggiore, il punto donde convenga guardare il corso degli avvenimenti, e quando a ciò si accoppii una folla di requisiti, che assai raramente si trovano riuniti insieme: – animo probo, tranquillo, sereno, che è naturalmente disposto a render giustizia a tutti, anche ai propri avversari; – serio spirito scientifico, che dei fatti non sa discorrere, se non dopo averli scrupolosamente e minutamente investigati e accertati; – competenza profonda, per lungo esercizio professionale, nei pubblici affari, sia meramente amministrativi, sia politici e diplomatici, sia militari; – ingegno aristocratico, che non si appaga d’una cultura grettamente specialista, ma vuol veder chiaro anche in altri rami dello scibile (specialmente in filosofia e storia letteraria); – e finalmente vera fantasia poetica, la quale, oltre che infonder la vita negli avvenimenti del passato, sappia ritrarli in un magnifico stile «storico», serrato, conciso, aborrente sia da fronzoli e leziosaggini, sia da sciatterie e soverchia familiaritá: – si è davvero in condizioni eccezionalmente favorevoli per imprendere e condurre a termine un lavoro storico. Tutto, dunque, farebbe supporre che al Balbo, dare all’Italia quella storia, che egli vagheggiava, fosse per riuscire impresa piana e agevole. Eppure pochi libri sono costati tanto aspra e tormentosa fatica, quanto quest’aureo Sommario, che ora si ripubblica; scritto, è vero, in poco piú d’un mese, ma pensato e ripensato per trent’anni: trent’anni di lotta, trent’anni di conati, trent’anni di delusioni4.
Mille volte parve all’autore, durante cosí lunga incubazione, d’aver trovata la sua strada; e con gioia si poneva a tavolino, sperando di potersi liberare una buona volta da quel peso, che tanto l’opprimeva. Illusione! la via era cosí poco trovata, che prima questione, che gli si presentasse alla mente, era proprio quella che si poteva rimandare all’ultimo luogo; la questione, cioè, del titolo da dare al proprio lavoro. Ne adottava uno; e poi, non contento, lo mutava; e poi lo rimutava ancora una terza, una quarta, una decima, una ventesima volta5; fintanto che, sbollito, in codesto sterile e quasi pedantesco tormentarsi, l’entusiasmo e inaridita la vena, gli occorreva deporre, con gesto addolorato ma rassegnato, la penna, augurandosi di poterla riprendere in piú favorevoli circostanze.
E la riprendeva, e aveva anche la forza d’imporre a se stesso di non occuparsi, provvisoriamente, di quella questione preliminare, intorno a cui credeva suo debito cotanto travagliarsi. Ma il luogo di questa veniva preso da un’altra, che, nel modo in cui il Balbo se la proponeva e voleva risolverla, riusciva non meno oziosa e insolubile: la questione delle parti onde doveva constare il suo lavoro, ossia dei periodi principali e secondari, in cui bisognava dividere e suddividere la storia d’Italia. Questione oziosa e insolubile, perché la storia, che è continuitá, non è suscettibile di divisioni cronologiche razionali, che si possano astrattamente fissare a priori: è invece lo stesso racconto storico, giá configurato nella mente dell’autore, che può suggerirgli, a semplice scopo di chiarezza espositiva e di utilitá mnemonica, di attenersi a questa o a quella fra le tante escogitate ed escogitabili divisioni temporali (tutte piú o meno grossolane e approssimative), cui si suol dare il nome di «periodi storici». Ma pel Balbo, che pensava diversamente6, e pel quale la ripartizione della materia storica costituiva qualcosa di essenzialmente diverso dall’esposizione, la questione assurgeva a importanza capitale: a narrare gli pareva di non poter nemmeno cominciare, se non avesse preliminarmente classificati i fatti in periodi principali, secondari e via dicendo; ossia se non avesse innanzi, perfetto anche nei minimi particolari, uno schema cronologico, razionalmente e quindi astrattamente fissato, che poi conveniva sviluppare e colorire. Accadeva, naturalmente, quel che doveva accadere; cioè che il Balbo, dopo essersi procurata un’altra serie di tormenti e di ambasce, durante la quale prospetti cronologici susseguivano a prospetti cronologici, ciascuno dei quali annullava il precedente e ciascuno dei quali lo contentava meno del precedente, finiva, sgomentato e sbigottito, per deporre ancora una volta la penna e credere che la storia d’Italia non fosse impresa da lui.
Ma vi ritornava poi, con la tenace costanza, con la quale le mille volte si ritorna a una donna amata, cui le mille volte si sia giurato un eterno addio. E, accontentatosi d’un titolo e d’uno schema purchessia, cominciava finalmente a scrivere. Uno, due, tre capitoli erano rapidamente svolti: poi a poco a poco la materia, di cui si credeva cosí sicuro padrone, cominciava a sgretolarglisi nelle mani; i periodi gli riuscivano sempre meno euritmici e in pari tempo piú faticosi e difficili; l’esposizione generale perdeva di mano in mano vita e calore, diventando languida, scucita, frammentaria. Purtroppo nemmeno quella volta la via era trovata, e bisognava ricominciar daccapo a torturarsi coi titoli, i prospetti, gli schemi e via discorrendo.
Un fenomeno, ripetuto con tanta frequenza in un uomo che era uno storico nato, induce a riflettere e a domandare: era proprio un bel titolo o una soddisfacente ripartizione cronologica ciò che mancava al Balbo, o a lui faceva difetto qualcos’altro, di cui egli non riusciva a rendersi conto, e in cui tutte le torture, che s’era procurato apparentemente per questa e per quello, avevano la loro vera e profonda ragione? La risposta non può esser dubbia, e a chiunque abbia un po’ di pratica dello scrivere verrá spontanea sulle labbra l’osservazione, che il trapasso dalla mera impressione alla limpida visione artistica – quel trapasso rapidissimo e agevole in alcuni fortunati scrittori; lentissimo, faticosissimo e quasi patologico in altri – nel Balbo non aveva ancora avuto luogo. La storia d’Italia, non ostante tanti studi e tanti sforzi, era ancora per lui materia amorfa, che un lampo di genio doveva convertire in un’opera d’arte, ossia in un libro organico. In fondo all’animo suo era ancora un cantuccio buio, che quel lampo doveva illuminare. E tutti i conati da lui fatti non erano se non stimoli esterni, da lui inconsciamente adoperati per far sprizzare in modo artificiale quella divina scintilla. Ma l’arte non vuol esser conquistata né con la violenza né con sotterfugi: vuol venire ella stessa, spontaneamente, a noi, quando forse meno l’aspettiamo, e allora abbandonarsi tutta nelle nostre braccia. E cosí avvenne al Balbo.
S’era alla fine del 1845, ed egli, ormai vecchio, alla storia d’Italia aveva rinunziato, contento se altri, piú fortunato, potesse avvalersi del tesoro di ricerche e d’esperienza da lui accumulato. Un bel giorno si reca da lui il Predari e gli propone di scrivere l’articolo «Italia» per l’Enciclopedia popolare, che si pubblicava presso il Pomba7. Il buon vecchio sulle prime, spaventato, rifiutò netto: chi gli avrebbe infuso il coraggio, dopo tante delusioni, di fare un ultimo e disperato tentativo? Tuttavia quel nome «Italia» gli aveva rimescolato tutto l’animo: nome indifferente forse ad altre orecchie, ma che per lui significava non soltanto la patria adorata, ma anche il meglio della sua vita trascorsa, con le sue ansie, le sue gioie, i suoi dolori. E la possente fantasia, che sembrava addormentata, cominciò a rievocare, con colori ancora piú poetici, gli itali, osci e tusci, che si alleano per ricacciare di lá dal mare l’odiato Pelasgo; i popoli latini, che si stringono intorno a Roma per tener fronte al Gallo invasore; i comuni lombardi, che giurano fratellanza e concordia a Pontida per respingere oltre le Alpi l’aborrito Tedesco. Strano! quella materia, che il Balbo non era mai riuscito a plasmare, assumeva ora da se stessa forme e contorni. I suoi occhi finalmente vedevano. Quella via, cosí angosciosamente ricercata, brancolando nel buio, gli appariva ora piana, sfolgorante di luce meridiana, conducente diritto alla mèta. Il primitivo rifiuto si cangiò in un’entusiastica e quasi baldanzosa accettazione, e con ardore giovanile egli si rimise al lavoro. Non piú esitazioni, non piú dubbiezze, non piú pentimenti: i fatti venivano a collocarsi, senza alcuno sforzo, al posto loro dovuto; i periodi stupendi sgorgavano, come un fluido corso d’acqua, l’uno dopo l’altro e l’uno indissolubilmente legato con l’altro; l’esposizione era finalmente, quale egli l’aveva tanto vagheggiata, rapida, serrata, drammatica, piena di movimento e di vita. Quella volta, non fu una fatica e un tormento, ma una liberazione e un trionfo. Dopo otto giorni, i primi tre libri erano scritti; dopo quarantatré, tutta l’opera era compiuta. E riuscí quel che il Balbo voleva: un capolavoro.