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Kitabı oku: «Novelle», sayfa 13

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NUOVE NOVELLE NARRATE DA UN MAESTRO DI SCUOLA

(INEDITE.)
PREFAZIONE ALLE NUOVE NOVELLE

Post varios casus et tot discrimina rerum.

Uno scrittore a cui per la prima sua opera sia toccato in sorte tanto di favor pubblico da superare le proprie speranze, pare che dovrebbe aver poi tanta più fiducia quando ei si presenta per la seconda e terza volta al medesimo pubblico già provato così benevolo. Eppure non succede sempre così. Siamo come i capitani giovani e vecchi; che i giovani non avendo che la vita propria ed altrui da esporre, le espongono allegramente; dove i vecchi avendo una riputazione già fatta da perdere, la perdono sovente per troppo stare in pensiero di essa. Il fatto sta che le continuazioni, le appendici, le ultime sorelle delle opere favorite, hanno cattivo nome, e sovente lo meritano.

Io temo assai che tale sia il caso delle presenti Novelle. Quando feci senza pensarci le prime, ero più assai in disposizione di novellare, e tuttavia moralizzai, e forse troppo, quantunque sotto il nome del Maestro di scuola. Ora invecchiato meno dal numero che dalla qualità degli anni passati intanto, mi sono avveduto fin dalle prime pagine che il mio novellare si faceva un moralizzare perpetuo; che i fatti men numerosi e meno strani che mai nelle mie troppo semplici composizioni, non erano guari più se non come un quadro riempito poi di discorsi e pensieri serj, gravi e poco abituali alle persone le quali sogliono prendere in mano un libro di Novelle.

Pensai di mutare titolo. La prima parola di un libro è a parer mio la più importante di tutte sempre per la buona riuscita di esso. Se è scelta bene, ella ti deve dire che cosa è il libro, e per conseguenza in che disposizione l'hai da prendere o lasciare. Coloro che vivono una vita leggitrice (e se avessimo libri un po' divertenti a sufficienza, certo noi Italiani che abbiamo tant'ozio in soprabbondanza, vivremmo tutti volontieri così), coloro, dico, che vivono leggendo gran parte della loro vita, difficile è che non si trovino successivamente in tutte quelle disposizioni opportune a leggere ora l'uno ora l'altro libro più o meno serio. L'essenziale per essi è non trovarsi ingannati; e quando vorrebbero per esempio un romanzo, e dal titolo credono prenderne uno, non trovarsi in mano poi un libro di erudizione, d'economia politica o di filosofia. La colpa è allora tutta dell'autore, se il leggitore butta via indispettito il libro; ch'egli avrebbe forse letto volentieri se non ingannato l'avesse preso meno a leggere che a studiare, e in disposizione men da romanzo che d'erudizione, d'economia politica, o di filosofia. Quindi è che sentendomi cadere in simil colpa, io cercava un altro titolo al mio libro. Peccato che non lo trovai. Storie non lo sono le seguenti; narrazioni, racconti, supponeva anche più fatti che novelle; conversazioni, non era quello; pensieri, saggi, meditazioni, discorsi, ec. ec., peggio che mai, che avrebbero mostrato la pretensione contraria di dare un libro più seriamente fatto che non è questo. Lasciai dunque il titolo primitivo; riserbandomi solo di fare la presente protesta o raccomandazione: che queste son Novelle, non so se morali, ma certo moralizzanti; novelle d'un vecchio di cuor serio, mesto, e riandatore delle miserie della vita; onde che, se i leggitori miei non si trovino in disposizione un po' simile, faranno bene a lasciare questo mio rimbambito cicalare.

A quelli poi che dopo tal protesta continuassero, dirò per consolazione mutua di essi e di me: che per verità (e quanto più son vivuto in questi tempi pur così fecondi d'eventi, tanto più l'ho veduto), gli eventi strani e complicati sono in realtà molto più rari che non si crede. Quindi i racconti fondati sovr'essi mi sembrarono sempre più inverosimili. Quanti romanzi sono bellissimi e naturalissimi finchè dura l'esposizione, e si strigne il nodo con eventi usuali, ma diventano poi improbabili allo scioglimento che l'autore vuol rendere strano e inaspettato! Quindi i migliori autori di siffatti racconti hanno fuggito quelle catastrofi ricercate, ed hanno saputo trovare ne' casi più consueti, e nei termini inevitabili di questi casi, il matrimonio o la morte, un fonte ricchissimo d'interesse e d'affetti. Ma non è egli, dopo tanto scrivere esaurito oramai quel fonte? Certo sì, quando si prendono a descrivere sempre quegli stessi casi così volgari nelle stesse circostanze di luogo, di tempi, e di costumi. Ma mutando tempo o paese, non è dubbio che si muterebbero le tinte del colorito, e queste basterebbero a quel tanto di novità che è necessario oramai per li tanti leggitori contentabili facilmente. Alberi, e case, e prati, e monti, e cielo, vi sono dappertutto; ma hanno contorni e tinte diverse in ogni paese, e chi sa queste riprodur sulla tela, fa paesi molto diversi. Che più dissimile d'un Claudio e d'un Ruisdael? Benchè sì più dissimile ancora è un Rafaello da un Rubens; perchè la natura umana è anche più varia che non quella degli alberi, o delle rupi, o dei cieli. E noi scrittori buoni o cattivi della natura umana avendo il vantaggio di questa somma varietà di essa secondo i tempi e i luoghi diversi, se sapessimo profittare di tal varietà e ben descriverla, potremmo senza dubbio far quadri sempre nuovi, sempre varj, sempre interessanti.

Ma poi, a ciò vi sono le sue gravi difficoltà. Gli alberi e le rupi si lasciano ritrarre sempre con pazienza, a piacimento del paesista. Ma le nazioni, o certe classi delle nazioni, e massime le classi più ristrette e ridotte quasi ad individui, non amano i ritratti dal vero e parlanti. Vogliono, dico, un po' d'ideale, e non mancano loro argomenti, e parolone per ciò; le quali ridotte a parole semplici di buona prosa, vorrebber dire che domandano ritratti abbelliti. Non hanno tutto il torto. I ritratti non voglion essere presi dalla parte brutta d'una persona; e mal sia d'un pittore che mi voglia ritrarre dalla parte dell'occhio guercio o del naso storto, sotto pretesto di più somiglianza. Ma il pretendere a una faccia ovale quando s'ha tonda, o ad occhi neri quando s'han bigi, è pretender troppo poi da un ritrattista, o almeno da un ritratto.

Eppure i ritratti sono una gran bella cosa quando son veri. Lo specchio non è, come dicono alcune madri alle ragazze, un così cattivo consigliere. Mirati, vo' dire io alla mia; mirati ogni giorno allo specchio; vedi oggi che sei stata così buona, così dolce, così amorevole pel vecchio padre tuo, mira come sei bella, fa d'esser bella così domani e doman l'altro; fa d'essere così sempre, finchè hai ad amare il padre tuo sopra ogni cosa terrena. E poi… poi se verrà un giorno che tu ami un altro più che il padre tuo, mirati di nuovo nello specchio il giorno che ti sentirai d'amarlo più che mai; e se ti trovi allora anche più bella, fa i giorni appresso e poi sempre di rimanere bella così. Quasi che non darei altro precetto alla mia fanciulla da maritare o maritata.

Imperciocchè belle e virtuose sono le fanciulle che serbano in volto la purità e tranquillità della nostra celeste origine. Ma anche a noi uomini che abbiamo sformato e solcato il viso dalle nostre passioni, dai moti della nostra argilla animale, anche a noi potrebb'essere buon consigliero lo specchio. Quando sei infiammato d'un'ira che il tuo cuore agitato non sa discernere s'è santa o colpevole, mirati fiso e cerca a' tuoi occhi, alle due labbra, a tutta l'espressione del tuo volto, se vi sia l'odio, l'egoismo, l'invidia, il disprezzo, o solamente l'inutile dispetto; ovvero se non vi sia più che uno sdegno virtuoso contro il vizio o contro l'oppressione altrui. Credimi; il tuo specchio te lo dirà. E quando credi di amare con purità, e ti fai di te stesso un romanzo, mirati che vedrai se ne sei un degno eroe; ovvero se tutt'altro non vi scopri di quello che vorresti, e credevi forse d'avere in cuore. E quando ti perverti di giorno in giorno, quando da un sentimento qualunque, forse virtuoso all'origine, oltrepassi il segno della virtù e cadi nel vizio sempre limitrofo, mirati ogni giorno allo specchio solamente con occhi imparziali, se puoi, e procura di poterlo; e saprai meglio che con altro mezzo, a che punto tu sia di quella trista progressione.

I romanzi e le novelle sono specchi dell'età in che si scrivono ad uso dell'età immediatamente seguente. Quindi è che, passate due o tre età, l'utilità d'un romanzo, ed anche l'interesse, suol passare o almeno scemare di molto. Hanno comune questa sorte colle commedie, coi libri di ritratti (come i Caractères de La Bruyère), e con tutti i libri in generale che ritraggono le minutezze dei costumi di un tempo. Lo stesso divino Molière non s'apprezza più alla metà nemmeno da Francesi che lo tengono a ragione come la più bella perla della loro letteratura, dappoichè dopo la Rivoluzione sono di tanto o del tutto mutati i loro costumi, mutato anzi quasi il loro carattere nazionale. E se mi si conceda qui un'osservazione propria appunto del tempo, noi stessi abbiamo veduto farsi siffatta mutazione ai nostri anni. Ai tempi dell'Imperio, quando erano ancor fresche le memorie del tempo antico (l'ancien régime), ed anzi si volevano dall'imperatore risuscitare siffatte memorie, ed erano pur anco verdi ancora molti rimasugli di quel tempo, allora le commedie di Molière erano vedute e corse anzi con grande impegno da grandi e piccoli ne' palchi e alla platea. Oramai non si vanno a vedere se non per così dire istoricamente, per conoscere que' costumi invecchiati, anzi antichi del tutto. Ma in Molière, e in La Bruyère, e in Don Chisciotte, e in ogni libro fortemente fatto, oltre questa parte più speciale di pittura dei tempi, è poi anche la pittura dei grandi e costanti lineamenti della figura umana. Epperciò se piacciono meno sulla scena o ai leggitori superficiali, rimangono, e rimarranno perpetuamente per quest'altra loro più essenziale virtù. Ma quanto pochi Molière e Cervantes vi sono eglino nella universa letteratura!

Noi altri novellatori dobbiamo rimanere a mille miglia da siffatta pretensione. Il nostro genere non la può comportare, siamo giusti; la nostra fatica non è tanta da poterci meritare una fama lunga. Non abbiamo grandi sforzi d'invenzione da fare: nessuno a combinare gli accidenti; pochi a mantenere inalterati i caratteri; in pochi giorni o in un giorno vediamo il principio e il fine dell'opera nostra; scriviamo all'avventura come ci corre la penna o la dettatura. Possiamo giustamente pretendere noi alle ricompense di quelle fatiche che occupano gli anni intieri, tolgono i sonni, usurpano l'attenzione o la vita d'un uomo? Siamo giusti, non pretendiamo dai lettori più che non diamo loro. Frutto di poche ore, le nostre fatiche durino pur pochi anni. Nè è poco se in quegli anni abbiamo rivolti gli animi della nostra generazione ad alcuni pensieri che sieno utili ad essa o a quella che segue. Le generazioni s'incastrano: i pensieri dell'una lasciano l'addentellato ai pensieri d'un'altra; chi ponga un buono addentellato, o solamente qualche pietra di esso, può vivere e morire con qualche pace, con qualche soddisfazione d'avere adempiuto un debito suo. Tanto almeno come i seguaci di quella, non so più qual religione d'oriente, ai quali è raccomandato di piantare almeno un albero nella lor vita per servire ad ombreggiare i nepoti.

L'EBREA

Erano anni che il maestro non ci aveva più narrato nulla. E il maestro era invecchiato, invecchiati noi uditori suoi, ed in parte anche mutati. Mancava quella persona fra tutte che era l'anima di tutte, quella che ascoltando ispirava, e senza fare, senza dir nulla, in mezzo a tutti, spandeva su tutti come un'aura di pace e di virtù. Così fanno gli angioli del cielo intorno a noi.

Una sola volta udii il maestro tornare al suo modo antico di spiegar con un esempio la sua opinione su quello che si andava disputando. Disputavasi degli ebrei: se si debbano o no lasciare abitar cogli altri, posseder case o terreni, frammischiarsi con noi ecc. Chi diceva che son troppo cattivi, perciò che la lor legge or male intesa da essi li fa nemici nostri irrevocabilmente; chi rispondeva che noi stessi, più che le loro leggi, li facciamo tali, rigettandoli come appestati; chi replicava che debbono, che son destinati a restar tali fino alla fine del mondo, e per paura della fine del mondo non gli avrebbe, credo, convertiti quando l'avesse potuto; in somma, già si veniva alle amarezze, alle imputazioni, alle ingiurie velate, quando il maestro: «Or vedete voi che siete così imbrogliati ad accordarvi in parole, che imbroglio dovette essere il mio alcun'anni sono nel dover decidere di tutto ciò alla pratica e sul momento. Feci allora ciò che Dio mi spirava: e se volete ve ne farò come la confessione; giudicherete voi se ho fatto bene o male.» – E consentendo tutti, egli incominciò.

Io mi trovava, come sapete, nella città di… al tempo de' Francesi quando volendosi dare, anche per forza, libertà a tutti, s'erano aperti egualmente conventi e ghetti. Lo svantaggio era tutto di noi poveri frati, che, aperte le porte, ci sforzarono ad uscirne; mentre gli ebrei poterono restar dentro o fuori a piacimento. Ma stivati come baccalà là dentro, molti, facendo luogo agli altri, affrettaronsi ad uscire; naturalmente i più ricchi e più educati, e che avean meno di quell'orrore di noi cristiani che è reciproco del nostro per essi. Uno di costoro, mercante agiato, e che, se non fosse stato ebreo, avrebbero detto tutti anche onesto, lasciando il ghetto, o poco dopo, lasciò pure il commercio che gli avea fruttati grossi capitali, impiegando questi alla compra d'un bel poderetto con una casa civile nelle vicinanze della città. E fatta elegantemente, e quasi splendidamente adobbare la casa, ed ornare i giardini, e piantarne dei nuovi, e cingerli intorno d'un muro che li chiudeva gelosamente, ivi prima si ritrasse, e a poco a poco senza più nulla uscirne si rinserrò. Non ci andava nessuno nè cristiano nè ebreo, e dicevasi che ci aveva dentro anche pochissima gente di servizio. Ma giudicate che scandalo quando si seppe che fra i pochissimi abitatori di quella casa eravi da segretario, intendente, o che so io, perchè non si sapeva bene che fosse, un giovane non solamente cristiano, ma che era stato già al seminario, e poco prima aveva lasciato la vesta lunga, ed or si temeva pur troppo non lasciasse anzi indegnamente la fede. Così almeno dicevano di temere questi scandalizzati; perchè del resto se non c'è abbastanza d'ebrei che si facciano cristiani, non c'è poi mai, ch'io abbia udito dire, un cristiano che si faccia ebreo. Ma in somma lo scandalo c'era, e si faceva; avrebbero voluto che l'autorità ecclesiastica se n'impicciasse, e chi n'incolpava di non farlo, chi poi la scusava sulla miseria dei tempi, e la malvagità del governo che non la avrebbe lasciata operare. Io poi, non ci avendo che fare, udivo tutto e non dicevo nulla.

La cosa durò un anno e più, e più non se ne parlava, nemmeno dagli scandalezzati. Ma ricominciò più che mai forte il bisbiglio in città quando si seppe che uno de' principali medici era stato chiamato a curare il giovane cristiano, o apostata, o rinegato, come si diceva, il quale era gravemente infermato, e poco meno già che in punto di morte. «E ben gli sta,» dicevano; «ha il suo merito; ecco il dito di Dio.» Perchè già questo terribile dito, che dappertutto è indubitabilmente, ognuno lo vede a modo suo, e pur troppo sovente dove, con intenzioni assai meno che divine e che sante, ognuno or per odio, or per invidia, or per vendetta, ce lo vorrebbe mettere egli umanamente od anzi scelleratamente. E chi avrebbe perfino voluto che il medico non ci andasse, e chi aggiugneva poi anticipando: «Ed ora come si farà? – ci anderà egli il prete, – ci anderà il curato, il viatico… non deve andare… deve andare…» Ed erano gli stessi che avevano testè detto che il giovane non era più cristiano, non badando nè a contradizioni, nè a giudizj temerarj, per il loro zelo, per la buona opera di… calunniare.

Giudicate, amici miei, del grande impiccio in che fu tra breve il sacerdote, il quale, a malgrado di tutti quei giudizj temerarj, fu due giorni dopo chiamato alla casa dell'ebreo. E questo sacerdote… fui io. Mal dissi che fui impicciato; noiato un po' sì, per cattivo interesse proprio nel vedermi messo in questo affare, e così fatto oggetto di osservazioni e di critiche; ma, facessi bene o male, non dubitai un istante, e andai con più fretta che non avrei fatto dovunque altrove; e piovendo a dirotta quando fui chiamato, nemmeno non ebbi scrupolo di salire nel cocchio dell'ebreo ch'egli mi aveva mandato per ciò. In men d'un'ora fui entro alla cinta ed alla porta della casa solitaria.

Salii introdotto da un servitore che senza dir nulla mi precedeva mostrando la via. Una o due altre persone mi vennero vedute per gli anditi e le scale, ed una fra l'altre che scendeva com'io salivo; la quale osservai perchè passandomi a lato rapidamente parvemi arrestarsi un momento, e quasi volermisi indirizzare, e d'un balzo poi si scartò. Parvemi una giovane, e giudicai che per orrore al mio ministerio ed a me, siccome ebrea, mi volesse fuggire. Ma non ci ripensai, e quasi non ci badai se non dopo; ero allora troppo preoccupato di colui che stavo per trovare, in circostanze così penose, così difficili per lui e per me. E tanto più, che, apertamisi una porta vicina, mi trovai quasi a un tempo nella cameretta, pulita, ma modesta e ristretta, dell'infermo che a prima vista mi parve aggravato benchè non in pericolo imminente.

Era un giovane che non mostrava venticinque anni: belle fattezze nel volto, begli occhi, bella chioma; ma le fattezze mostravano non solamente l'impressione di una grave malattia, ma pur anche le orme di un lungo patire, che, fisico o morale fosse stato, mi parve esservi stato indubitabilmente. Non che ci fosse disperazione o agitazione furiosa su quel volto; il quale anzi era tutto composto a rassegnazione, e la rassegnazione mostrava un dolore fortemente combattuto. M'assisi al capezzale: «E così,» dissi, «siamo un po' malati, è vero? Molto malati forse? E pensiamo alla morte forse vicina, alla morte a cui dobbiamo pensar sempre, ma a cui siamo sempre a tempo di pensare finchè Iddio buono ce lo concede. N'è vero, dite? Già si vede che ci avete pensato, e sono qui per udirvi volontieri. E dite un po': come va che m'avete mandato a chiamar me? Benchè no: che dico io? ciò non importa; e non si vuol perder tempo. Dite su: dite ciò che spetta a voi; che io son pronto.»

Il giovane incominciò con alcune parole rotte, e con qualche ansia di petto; io risposi confortandolo; e in breve parve farsi cuore intieramente, e aver bisogno d'uno sfogo compiuto, uno sfogo in seno d'un amico prima anche di sottoporsi al giudicio del confessore. Ed io, vedendolo ancora forte e tutto in sè, lo confortai a ciò; ond'egli prese a dirmi tutta la sua storia, e incominciò.

«Rimasto da bambino orfano di padre e di madre, in tutela d'uno zio e con poca fortuna, fui senza che entrassi io nella decisione o nella deliberazione messo giovanissimo in seminario; d'onde uscendo, lo zio aveva calcolato che mi rimarrebbe appunto di che farmi il mio patrimonio ecclesiastico, e così ne avrei una condizione, una carriera sicura, e come allor pareva vantaggiosissima. Io non ebbi mai gran disposizione allo stato ecclesiastico; e quanto migliore fu l'educazione ricevuta in seminario, tanto più mi venni capacitando che quello stato rispettabile, ed anzi formidabile, non istà bene il prenderlo così per motivi puramente umani e come un'altra carriera. Dissi i miei scrupoli ai superiori, e furono ascoltati, pur confortandomi ad obbedire a chi teneva con me il luogo di padre; e dettili a questo, fui aspramente ributtato. Così venni di giorno in giorno continuando, pur col pensiero d'aspettare la vocazione, o rinunciare finalmente allo stato, se quella non veniva. La provvidenza dispose che non avessi nemmeno bisogno di prendere io la decisione. Vennero i Francesi, lo stato ecclesiastico non fu più carriera; e lo zio non si curò più altrimenti che io ci pretendessi. Quasi che mi venne allora la volontà di continuare, appunto perchè oramai non essendo carriera svaniva il mio scrupolo, e lo stato ecclesiastico diventava anzi bellissima occasione di attività e di sforzi, onde parevami essere capace. Tuttavia anche in ciò mi pareva ci fosse molto d'umano; e poi, il contradire di nuovo allo zio, ora ch'egli veniva al parer mio, mi pareva troppo male assolutamente. Ad ogni modo lasciai il seminario; ci avevo fatto buoni studj, e principalmente di lingue greca ed orientali, e parevami con ciò poter fare mia strada nel mondo. Lo zio voleva pure che io abbandonassi questi studj, che non mi porterebbero a nulla, diceva, e voleva che imprendessi la legale e l'avvocatura. Ma io avevo già compiti venti anni, e mi doleva troppo tornar da capo sui banchi, e perdere intiero il frutto degli studj fatti a gran fatica ma con amore. Avemmo nuove contese collo zio; indugiai, poi provai, poi lasciai disgustato le scuole; ed ero per lasciare la casa dello zio senza pur sapere dove o come o con che sarei poscia vivuto. E dettoci oramai tra lo zio e me quanto avevamo a dirci, e così tacendoci poco amorevolmente od anzi amaramente l'uno in faccia all'altro in quegli ultimi giorni di convivenza, ed abbreviando anzi di mutuo consenso i momenti di stare insieme, avvenne che un giorno lo zio mi fece chiamare nel suo studio e mi disse: – La tua ostinazione a non mai voler fare quello che voglio io pel tuo bene, meriterebbe che io ti lasciassi andare alla tua malora senza più impicciarmi di te. Ma non per te, ma per il mio povero fratello mi son pur risoluto di fare quanto potevo anche a malgrado della tua ostinatezza; e poichè come già non volevi fare la tua strada da prete, ed or non la vuoi fare da avvocato, che è un buon mestiere ora, come era già quello prima di queste rivoluzioni, vivi, poichè il vuoi, malamente da letterato, che è un cattivo mestiere in tutti i tempi e in tutti i luoghi. Ma ben vedi, che se t'abbandono, non vivrai da letterato nè ben nè male, perchè non hai nemmeno pensato come guadagnarti il pane; e veramente poco te ne potrai guadagnare così. Ora odi: si presenta un'occasione forse unica per ciò. Non so se durerà, nè quanto ti frutterà; ma intanto è un'occasione di non morir di fame per qualche tempo, che è molto per la strada che batti. Un pazzo, come sei tu, ti porge questa occasione. Perchè sia non lo so; ma in somma quel Samuele ebreo che ha presa quella villa, dov'egli abita come un orso tutto solo, e non so che cosa ci faccia, cerca ora d'un segretario cristiano che sappia l'ebreo; ed informatosene al seminario, ha udito di te, ed è venuto per te e per me ieri sera. Io gli ho risposto che con una testa matta, come sei tu, non gli potevo risponder nulla, e che te lo direi, e ti lascierei poi risponder da te. Ora, vuoi o non vuoi? Io non me ne impiccio. Fa da te la tua decisione, e vagliela dire; che già so per esperienza che con te i consigli non servono a nulla: questo solo ti so dire, che, come eravamo all'incirca d'accordo già, fra tre giorni tu hai ad uscire da questa casa per andare a casa dell'ebreo, o del diavolo, come vorrai. – La deliberazione mia non poteva esser lunga, secondo il termine prefisso; e nemmeno non l'aspettai. Al secondo giorno venni io stesso qui da Samuele a udire che si voleva da me. «Scrivermi e tradurmi dall'ebraico quel che vorrò,» risposemi Samuele. Ed io: «Ma voi sapete l'ebraico e…» «Questo non è affare vostro. Vediamo.» E in ciò mi porse un libro ebraico da tradurre. Lo feci per scritto, e poi di viva voce, e lo contentai. Ei riprese: «Or, se volete, fisserete voi il vostro stipendio, e avrete casa, vitto, e servizio compiuto qui, con due sole condizioni: la prima, che non uscirete di qui se non un paio d'ore ad ogni festa vostra, per seguire i doveri della vostra religione; e la seconda, che non v'impiccierete di nulla in casa mia, e massime non tenterete mai, non direte parola sulla mia o sulla vostra religione a nessuna di qua. Tornate a casa vostra, consigliatevi con voi stesso o con altri, e domani fatemi risposta.» E in ciò dire, mi riconduceva alla porta, e mi licenziava.

Al domane, naturalmente ritornai. Che avrei io fatto? L'alternativa era per me tra il non saper come vivere e il vivere agiatamente e fra i miei studj. Qui giunto, mi fu data questa cameretta, e poi uno stanzino a lato allo studio di Samuele, dove subito mi posi a lavorare, e lavorai sempre poi da otto a dieci ore al giorno; e per lo più a tradurre dall'ebraico, e massime la Bibbia. Samuele mi parlava di rado, e tutto al più per farsi spiegare qualche passo delle mie traduzioni, ch'ei soleva confrontare con altre. All'ora del pranzo, fin dal primo giorno, ei mi fece passar seco alla tavola, dove era egli solo colla sua figlia. Questa era gentile ed accarezzante con lui, tacita e poco meno che sprezzante con me: onde che, quantunque colpito alquanto a prima vista della sua bellezza, in breve non ci badai, o almeno non ci attesi. Anche a tavola la conversazione era poca e non intima. Alzandoci, e parendomi vedere che padre e figlia volessero volontieri star soli a quell'ora di tranquilla e reciproca confidenza, io li lasciavo e me ne andavo per lo più a diporto tra i viali antichi o nuovi del giardino, non mal contento d'avere anche io quel poco d'ora di solitudine e libertà. Lavoravo poi di nuovo fino a sera tarda, quando salendo nella mia cameretta prendevomi qualche ora di studio mio particolare, finchè stanco, a giornata compiuta, non malcontento di me e raccomandandomi a Dio, al Dio mio che non parevami offendere, ma che pur pregavo ogni dì più caldamente di volermi difendere da un incognito pericolo che pur temevo; finalmente ponevomi a letto ed a riposo. Durommi alcuni mesi sifatta vita.

Parvemi più volte tornando in camera ed a' miei libri che questi mi fossero stati scomposti, e raccomandai non sì facesse al servitore che attendeva a me e alle cose mie. Giurommi a modo suo di non aver posto mano mai a niuna cosa mia. Pochi dì appresso, riaprendo un volumetto tascabile d'un Nuovo Testamento greco, che solevo leggere ogni sera, vennemi tra foglio e foglio veduto un fiore di mammole, che essendo raro ancora per la stagione non ce n'erano se non pochi nel giardino, e quei pochi eran tutti per lo più colti da Regina, e portati poi nel suo seno. Potete facilmente immaginare quali sensi e pensieri si destassero in me da quella veduta, da quella fragranza, da quel che non sapevo se caso fosse, o segno, o che cosa. Questo solo parvemi chiaro, che Regina leggesse i miei libri, e probabilmente che venisse, me assente, nella camera mia. E ben potete anche immaginare che, senza far parola di ciò nè d'altro, oltre il solito io feci pure nuova attenzione, trovandomi seco, alla giovane. E non è a dire come questa mia nuova attenzione riuscisse tutta a favore, od anzi ad ammirazione di lei, quasi che non l'avessi prima veduta; mi vennero allora osservate ed ammirate le sue fine e regolari, quantunque straniere fattezze, la elegante persona, le nere e lunghissime chiome, e massime i lunghi, lenti e neri occhi, in cui, quella che m'era già paruta sprezzatura, già non parevami se non un modo tutto di loro d'alzarsi al cielo, tirandovi dietro seco l'occhio e l'animo di chi la mirava. Da quel giorno, no 'l nego, era un diletto per me il trovarmi seco; ma non me lo confessavo, e quasi non me ne accorgevo, e tiravo innanzi senz'altro pensiero.

Avevo tolto il fiore, e messomelo in seno, stavo aspettando se mai si rinnovasse quel caso o quella fortuna. Non trovai altro per molti altri giorni. Finalmente una sera che avevo lasciato il volume, sempre il medesimo, aperto tra due pagine sul tavolino, tornando e riprendendolo in mano, trovai sotto esso una fina catenella d'oro, che parevami aver veduta già stringere il collo bianchissimo della fanciulla. Oramai non era da dubitare. Non poteva guari più esser caso, e doveva esser segno… ma di che? E che poteva essere tra la fanciulla e me, se non appunto ciò che non doveva essere, amore? Ma come poi anche poteva essere? Erami paruta già altiera, sprezzatrice; e, se non parevami più tale, oramai vedevola almeno di tal celeste modestia, da non potermi persuadere che ella volesse così eccitare la mia attenzione, ed anche meno il mio affetto. Perdendomi in questi e sifatti pensieri, e tenutomi desto quella notte e forse alcune altre, risolvetti finalmente di prendere la prima occasione di restituirle la catenella, ed averne, secondo il caso, qualche spiegazione.

Non m'era riuscito ancora da più settimane di trovar quella occasione. Un giorno che, essendo già calda la stagione, io me ne andavo dopo il pranzo cercando il rezzo sotto ad alcuni folti ed antichi alberi del giardino, e sedutomi sotto uno di essi quasi mi venivo addormentando, parvemi tra fronda e fronda veder biancheggiare e passare una persona, una donna, Regina. Balzai in piedi, e le tenni dietro. Ella, vedendomi, si soffermava senza stupore nè rossore, nè timidità. Ed io, traendomi la catenella dal seno, la catenella che non avevo vedutale più attorno al collo, onde per certo era sua: «Questa» dissi, «ho trovata, per che caso non so… tra' miei libri; e essendo vostra, se non m'inganno…» ed in ciò io gliela porgevo. «È mia, e vi ringrazio,» diss'ella dolcemente. «E potrei io, senza indiscretezza, domandarvi come…» «I vostri libri hanno talora eccitata la mia curiosità. Mi perdonerete voi d'averli presi in mano tavolta?» «Certo sì; quanto è mio, anzi, è tutto a servigio vostro, come io stesso: se non che il vostro padre…» «Il mio padre,» riprese ella alquanto più seriamente, ma con uno di que' suoi alzar d'occhi al cielo, consueti, «il mio padre s'è assonnato, come gli succede talvolta a quest'ora, ed io vo a raggiugnerlo.» E in questo ella se n'andò, o sparì; che quasi non saprei dire quale dei due, tanto sorpreso e quasi stupido ed immoto ella mi lasciò.

Da quel giorno, lo confesso, non fui più io. Scuotevo l'immagine di lei da' miei occhi, dalla mente, dal cuore; e nel cuore, e nella mente, e negli occhi, e di giorno e di notte, e vegliando e dormendo, e sulle carte dove lavoravo, e tra le fronde, e tra i fiori, e tra le nubi, e nel cielo, non vedevo altra immagine mai se non di lei. Da troppo corriva che m'era già forse paruta alcun tempo, or parevami di nuovo altiera, sprezzatrice e crudele. Inesplicabili i suoi atti e contrarj l'uno all'altro. Le poche parole indifferenti che m'aveva dette mi rimanevano impresse tutte nella memoria, e le andavo ad una ad una tra me ripetendo e riesaminando, per veder di trovarci qualche significazione in bene o in male che assolutamente non avevano. A tavola continuava ad essere la medesima, amorevolissima pel padre, indifferentissima per me. Altrove non la solevo vedere. Alla passeggiata del dopo pranzo non venne mai più; ed io la stavo aspettando ogni giorno, e di soppiatto, dietro agli alberi, passavo tutto quel tempo, fissi gli occhi alla porta di casa, aspettando e talor credendo di vedere ch'ella uscisse finalmente di nuovo a me incontro. Ma tutto fu inutile; non ebbi più un'occasione di vederla; solamente i miei libri, sovente scomposti nella mia camera, mi facevano accorto ch'ella v'era stata, che s'era aggirata là intorno, e parevami riconoscere come un'aura celeste ch'ella v'avesse lasciata. La solitudine, il silenzio e le occupazioni sforzate nel rimanente della giornata, eccitavano forse in me tanto più la fantasia; e insomma, checchè si fosse, io non pensavo, nè vivevo, nè respiravo se non più per lei, e di lei.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
25 haziran 2017
Hacim:
360 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain