Kitabı oku: «Novelle», sayfa 17
E qui lascio la mia narrazione, aggiunse il Maestro, domandandovi scusa d'avervi trattenuto tanto, in una storia che ora che è fatta intendo bene che non ha sale; ma quando le cose ci hanno colpito assai, ci par sempre di poterle narrar in modo da colpirne altrui; ed è solamente dopo la pruova che uno si ravvede. – Ed essendo già stata recata la lucerna, e i tarocchi, ognuno si dispose a giuocare. E il Maestro, che, a malgrado di ciò che n'han detto taluni dal ritratto, non seppe mai tener le carte in mano, preso il cappello, s'avviò alla porta, ed io seguendovelo mentre usciva, «Maestro,» diss'io; «questa storia poi non la dite dove che sia; qui la potevate narrare senza pericolo, ma non vi sarebbe sempre prudenza.» «Che?» disse egli, «avete voi paura che mi strazino le donne come un nuovo Orfeo?» «Oltre le donne, so molti uomini che se n' offenderebbono, e…» «E s'offendano pure; così potessero le mie parole romper uno solo di questi brutti vili accoppiamenti che perdono, avviliscono, impoltroniscono tanti Italiani, che altrimenti sarebbero utili a sè, ai fratelli, al principe, alla patria: potesser massime corregger coloro che quasi scherzando li aiutano; e sarei contento di qualunque inimicizia mi procacciassi con ciò.»
IL FILOSOFO
Non so perchè, nè veramente se succeda da tutti come a me: che certi vizj m'accorano più assai, se mi ci abbatto in contado che non in città. Forse viene da quell'idea, che, giusta o falsa, tutti pur più o meno abbiamo, delle corruzioni delle città, e della innocenza della vita villereccia; onde là i vizj non ci stupiscono, e qua sì. Fra que' vizj poi che in villa mi paiono, per così dire, più contro natura, egli è quello di ogni sorta d'ipocrisia. In città, dove ognuno vuole accostarsi a una parte e per essa alzarsi a far fortuna, è naturale che si affettino da ogni uomo or queste or quelle virtù affettate dalla parte. In villa, dove si vive più solo, e dove ci è meno a perdere e meno a guadagnare a non mostrarsi quale uno è, pare che sia anche più sozzo: appunto, come un tradimento par più vile, quanto più vile è il prezzo che se ne raccoglie.
Delle ipocrisie ce ne sono tante sorta, quante sono le virtù; anzi, quante sono le qualità anche viziose ma da taluni tolte a virtù. E così ci ha non sola ipocrisia di costumatezza, ma anche di dissolutezza; e non solo affettazione d'indipendenza, ma anche di servilità e finalmente ipocrisia di religione, ed ipocrisia d'irreligione. Queste due ultime poi sono così frequenti, che tal uomo di mal umore contro il mondo avrebbe a dire ch'elle quasi se lo partono. Nol vo' dir io; e credo che Iddio buono è conosciuto ed amato da molti uomini sinceramente pii, e pur troppo anche sconosciuto da molti sinceramente miscredenti. Infelicissimi questi, nè innocenti del tutto; perchè io credo ch'Egli si faccia conoscere qualunque il cerchi con ischietto e puro cuore. Ma lasciando al buono e sommo, e misteriosamente ma certamente giusto Iddio, il giudicio di ognuno, noi, con quel cuore ch'Egli ci ha dato, non possiamo altro che compatir tanto più a qualunque è più presso alla sincerità, e tanto meno a coloro che per istolta vanità e rispetti umani affettano quell'empietà che non hanno. E' ci ha a un di presso la medesima differenza che tra un musulmano nato e sincero; ed un cristiano rinegato.
Tra le cose che mi diedero maggior pena nella mia vita, rispetto a tante altre non disgraziata, ella fu questa. Quando io venni qua, lasciando il reggimento, e ripigliai la mia antica professione di maestro di scuola, perchè erano tempi di turbamenti e guai, ed io era quasi sconosciuto nel paese, gli uni dissero bene di me, gli altri male: e benchè gli uni e gli altri sbagliassero, sovente, quando a me stesso non parlavano, io li lasciava dire. Una sera il fattore del signore che era stato fuori tutto quel giorno, incontratomi in piazza, mi si accostò e dissemi che in quella terra dov'era stato, aveva veduto il sior Domenico che gli avea domandato di me, e, benchè non mi conoscesse, gli avea imposto che molto mi salutasse, e mi dicesse ch'egli pure era filosofo. Io lo ringraziai de' saluti; ma quando alla seconda parte della commissione, non intendendo che significasse, incominciai a domandargli chi e quale fosse quel sior Domenico, a me affatto ignoto, il quale mi mandava tal ambasciata. Il fattore risposemi, il sior Domenico esser il padrone di quella casa là, una delle più cospicue del paese; e non molto innanzi lo era pur anco di molti beni or venduti: ed era poi il marito di quella signora, e padre di quella fanciulla, che dimoravano in quella medesima casa. E non bastandomi siffatti particolari, e domandandone più, seppi come il sior Domenico era già stato il più ricco signorotto della terra e de' contorni, e felice in casa ed in tutto; finchè, venti e più anni addietro, al tempo de' primi turbamenti, e' capitò in mano di alcuni mal compagni e scellerati uomini, i quali abusarono di lui, e più della sua fortuna. Ondechè, adulato da costoro, incominciò a credersi un grand'uomo, e dispregiar sua casa e sua famiglia, e a poco a poco lasciolla, e lasciò sua moglie, e tolse casa da sè, ed un'amanza. La moglie ebbe a vivere sola come vedova; e la figlia riuscì a male, che avrebbe potuto riuscir a peggio; perchè ella s'incapricciò d'un suo servitore onesto e lo sposò, che avrebbe potuto farlo di qualche scellerato uomo che l'avesse messa in piazza e rovinata. Il sior Domenico, credendosi uomo letterato e sapiente, ma non sapendo che altrimenti far di sua sapienza, fece il medico, senza aver mai studiata medicina; ma, perchè anche mezzo rovinata sua fortuna gli rimaneva onde vivere, non che farsi pagare da chi veniva a consulta, egli li pagava; e perchè i contadini, diffidenti, a' medici veri e savj, sono confidentissimi a' ciarlatani, egli non mancava mai d'accorrenti, non ostante il cattivo esito che avean avute molte delle sue cure. Intese le quali cose, incominciai finalmente ad intendere di che sorta fosse la sua filosofia, e quella che a me pure attribuiva.
E' m'era certo paruto increscevole altre volte che alcuni buoni mi avesser tolto per cattivo; ma parevami più allora l'essere da un cattivo tolto per buono, e degno compagno suo. E cattivo pur troppo io vedeva essere questo sior Domenico. Chè il lasciar andar a male i proprii negozj, ed anche la moglie e i figliuoli, e viver con cattivi compagni e le amanze, e far il ciarlatano, tutto ciò è malissimo, ma pur in qualche modo scusabile, finchè l'uomo non sel voglia egli stesso scusare; ma quando la debolezza e l'amore al vizio cresce a tanto che il colpevole, anzichè lasciar il vizio, sceglie lasciar la sua ragione e la sua religione e il suo Dio, e se ne fa di quelli da sè che possano adattarsi a que' suoi vizj, allora riman poca speranza che si ricreda, allora è colpevole di colpa maggiore; e senza giudizio temerario nè difetto di carità si può dire cattivo. Nè avrei ardito dir tale il sior Domenico, se fosse stato tacitamente vizioso e stolto; ma perchè tale essendo, invece di vergognarsene, si diceva filosofo, e nutriva il vizio e la stoltezza in abito mentito, fra me stesso decisi che pur troppo era cattivo. Restava che io scoprissi perchè, così essendo, egli mi credesse compagno suo. Ma io era uscito volontariamente dal reggimento a un tempo che molti ne furon cassati, capitato qui incognito al tempo che molti si nascondeano; io cattolico sincero, io prete, ma nemico de' bacchettoni, degli ipocriti; io gran dilettante, fatto il dovere mio, di solitudine, e di lunghe passeggiate con un libro in mano; amico delle compagnie, ma di quelle dove più si parli che non si beva o non si giuochi, dove più si ragioni che non si mormori, dove più si cerchi a farsi buoni gli uni o gli altri in particolare, che non a piagnere sulla perversità del mondo in generale: tanto bastava e forse sopravanzava, perchè molti per odio e disprezzo mi dicesser filosofo; e intendesser filosofo cattivo; ed altri poi, come il sior Domenico, il ridicessero per amore. Perdonando io volentieri a quelli, io doveva perdonar a questi con tanto più amore: e così faceva io verso il sior Domenico; e volli tentare che non gli fosse inutile il saluto ch'egli mi avea mandato.
Trovata una occasione o pretesto, feci una gita da quelle parti, e capitai a casa sua. Nè occorre ch'io dica come feci cadere il discorso a ciò ch'io voleva, nè che discorsi gli feci poi, che sarebbero cose troppo serie per istar bene qui. Del resto, o le mie parole non fossero per sè stesse feconde, o Dio buono non le volesse allora fecondare, o troppo asciutto o mal apparecchiato il terreno, certo è che allora non fruttarono nulla, nemmeno a me la speranza che rimanesse nascosto il seme da germogliare in appresso. Feci in breve al filosofo la mia professione di fede di buon cattolico apostolico romano: ma non so s'ei mi credesse, o forse non s'ostinasse a tenermi, a mio dispetto, per confratello; ed io ci guadagnassi altro che soprappiù la taccia di timido e vergognoso, non ardito a confessare le proprie nascoste opinioni. Ma queste son delle cose dove più occorre il fiat voluntas tua, nè era la prima volta che io me n'era dovuto consolare.
Un anno appresso, un giorno ch'io aveva appuntamento col detto fattore per non so che, e lo aveva aspettato tutto il giorno, l'incontrai la sera ch'egli tornava, in vista molto affaccendato, e come uomo contento di sè; e appena ei m'ebbe scorto da lungi, venne a me, e senza dirmi o lasciarmi dir parola dell'affare che avevamo insieme: «Signor Maestro, ogni cosa è andata bene; ha fatto tutto ciò che si doveva fare, ed or ora gli mando la donna, e va benissimo; ma ci vuol fretta, perchè non può passar la sera, e questa notte certo ei morrà.» Io non intendeva una parola di tutto ciò, e volli fermarlo, ma non ci fu verso; ei si fuggì e fu in casa alla moglie e alla figliuola del sior Domenico, e fecele partir pur alla volta della terra abitata da questo; ed allora di nuovo venuto a me, che non richiesto non me n'ero impacciato, mi fece sapere come essendosi gravemente ammalato il sior Domenico, egli n'era stato avvisato il mattino per tempo, e subito ci era corso; ed arrivato, e trovatolo presso a morire, l'aveva voluto far confessare, ma quegli dapprima non acconsentiva; ma che avendo poi egli, il fattore, ragionato con lui, e parlatogli come si dovea, finalmente questi s'era fatto capace, e chiamato un prete s'era confessato, e stava per fare le sue divozioni, ed avea fatto testamento; e dove prima voleva diseredar la figliuola, ora le perdonava, e lasciavala erede di ogni cosa; anzi, poi erasi risoluto di voler abbracciare moglie e figliuola, e riconciliarsi con esse. Il fattore respirava, narrato tutto ciò, e «Ei ci è pur voluto fatica assai,» aggiugnea; «ma io gli ho parlato come si deve, ed ha fatto ogni cosa bene; non ha lasciato in povertà quelle povere donne. Io ci scapito, perchè se si vendeva la casa sua, io la comprava, e già ne avea la scrittura, in pagamento di un piccolo credito che ho con lui; ed ora non avrò la bella casa, e sarò anche gran tempo a riscuotere i quattrini; ma non importa, amo meglio così; hogli restituita la scrittura, e son nominato io esecutor testamentario. Ora addio, signor Maestro; riparto in fretta, e vado a vederlo morire.» Egli diceva tuttociò in tono frettoloso ma allegro anzi che no. Io gli prendeva la mano come per ringraziarlo, o almen lodarlo; ma egli fuggiva in fretta: poi, fatti alcuni passi, rivolgevasi, tornava a me più grave e serio assai, e, ripresami la mano e tiratomi appresso, ed accostata la bocca al mio orecchio, in tono basso e questa volta veramente funerale, «Signor maestro,» disse, «egli era… C…»
Il mattino appresso vidimi comparire in camera il fattore, e disse entrando: «Egli è ito, e grazie al cielo ogni cosa par bene;» poi, scostato alquanto: «s'è abbruciato ogni cosa, libri, carte e che so io, certe minchionerie che s'è trovato. Hovvi portato solamente questo libraccio stampato, dove ci son nomi credo che ben vorrebbero ora non istar qui.» «E che ne volete far voi?» dissi, «questo prima d'ogni altro volevasi abbruciare; se no, portatelo al Curato; egli ne giudichi.» «E se vi han messo lor nomi,» riprese lo schietto contadino, «perchè non s'hanno eglino a vedere? Benchè avete ragione, e sarà bruciato.» Il libro stampato mostrava ch'egli era non C… ma M… Io meravigliavami come siffatte scelleratezze o scempiaggini fossero pervenute a infracidire anche il contado e le ville; e finiva d'intendere quale fosse la filosofia di quell'infelice; e sopra ogni cosa poi ammirava Iddio buono, che pur talora volevasi servire di tanto più rozzi stromenti, affinchè si veda ogni bene procedere direttamente da lui.
L'UFFICIALE IN RITIRO
Vidi il mutarsi del destin fugace,
Vidi che gloria in servitù declina,
Vidi che solo nella tomba è pace.
Diodata Saluzzo.
Alberto era figliuolo d'un signore ricco; ma più che ricco, nobile e potente alla corte di… al tempo dell'invasione de' Francesi in Italia. Scappato il suo Principe, deposto egli dei suoi impieghi, e rimasto in sospetto dei repubblicani possessori della potenza, fu anche in breve arrestato e tenuto in castello quasi ostaggio. Quei repubblicani utopisti, come li chiama il Botta, erano così poco sicuri del popolo sovrano, in nome di cui reggevano, che erano anzi obbligati a prendere precauzioni contra la sua indocilità a lasciarsi liberare e far felice. Alberto aveva allora di dodici in quattordici anni. Allevato signorilmente alla moda d'allora, cioè, come si dice volgarmente, nella bambagina, aveva studiato tanto bene che male; ma del resto era indietro di quattro o cinque anni in ogni cosa rispetto ai figliuoli di ogni buon borghese od artigiano, che non avessero tre o quattro persone da mettere intorno al preziosissimo erede. Usciva poco di casa, non aveva forse mai preso nè pioggia, nè vento; di rado il sole, non certo quel di febbraio o di marzo, micidiale, come si sa, ai figliuoli dei signori, quantunque cercato avidamente, e continuamente provato da quelli delle razze più grossolane. Le rivoluzioni mutando cose più gravi, mutò anche questa, che tuttavia non è forse così piccola. La madre di Alberto, ansiosa del marito ed inferma in casa, lo mandava su e giù al castello a portare e riportare le commissioni; e non c'era a pensare da mandarlo accompagnato dall'abbate o in carrozza, chè i Giacobini si sarebbero burlati di questi modi aristocratici, e gli avrebbero chiuse in faccia le porte. La rivoluzione apportò dunque ad Alberto la libertà; la libertà forse più effettiva che apportasse. E bisogna dire che tutte le regole ammettono eccezioni, perchè Alberto non ne abusò. È vero che la madre lo faceva seguire e vigilare da lungi, e che il giovane, anche quando l'avesse voluto, non avrebbe potuto fare grandi scappate. Ma i sorveglianti non poterono impedire ch'ei si trattenesse sovente a far conversazione alle porte del castello coi militari che le guardavano, conversazioni che si prolungavano sovente assai pel reciproco piacere del fanciullo avido di quelle novità, curioso e vivo per naturale, e di quei militari già vecchi di servigj ma giovani d'età, e a cui perciò era grata per qualche momento la vista, il cicaleccio d'un bello e vivace giovanetto, il quale ricordava all'uno il fratello, all'altro il figlio, lasciato come dicevano ai focolari. Tutti i maestri di studio del fanciullo, ma quelli principalmente di latino, si lamentarono d'allora in poi della svogliatezza e della dissipazione del fanciullo. La madre si lamentava del nuovo chiasso che facevasi in casa. Non era altro più che tamburi, esercizio, e bastoni rivolti in fucili, e grida di comandi militari gettati al vento.
Andate giù le repubbliche, prima per le vittorie austro-russe, poi per quelle stesse del Primo Console della repubblica francese, cattivissimo repubblicano, come si sa, il padre di Alberto rimase tranquillo ma disimpiegato, per propria volontà e fedeltà al suo principe cacciato. Ma uomo savio ed amorevole del figlio, non era di quelli che come la vecchia Elspat di Walter Scott vogliano imporre ai figliuoli i proprii odii od amori, od anche i proprii doveri che mutano colle generazioni e le età. La smania militare di Alberto era venuta crescendo cogli anni. Suo padre vedeva ciò tanto più mal volentieri, che l'entrare al servigio militare non era allora una celia come in tempo di pace, nè una carriera simile alle altre, ma anzi una successione di fatiche e pericoli gravissimi. Alberto era unico; onde che, non solo erano raccolti in lui tutti gli affetti paterni e materni, ma anche quel po' d'egoismo che entra naturalmente e debbe entrare in ogni affetto anche migliore, e che fa amare tanto più una persona che sia unico sostegno o conforto o speranza. Per altra parte, il padre di Alberto era uomo forte e domatore di ogni esagerazione o debolezza degli affetti suoi stessi; e provando egli tutto il piacere del riposo in vecchiezza, non credeva perciò l'ozio utile o nemmeno possibile alla gioventù; e vedendo il figlio vago della vita militare, dopo fattegli le dovute osservazioni e raccomandazioni, finalmente lo lasciò ingaggiarsi e partire, usando quel po' di credito che gli rimaneva a farlo raccomandare ai suoi superiori.
La vita militare di Alberto fu quella di tanti altri giovani italiani di quella età. Entrato da semplice soldato, ma con tutti i vantaggi d'una buona educazione, e con quelli anche delle raccomandazioni, utili sempre anche dove si avanza col merito, come certo era il caso nell'armata francese, Alberto passò rapidamente per tutti i gradi di sotto-ufficiale, non senza dare indietro una o due volte per qualche scappata giovanile, ma riprendendo il posto poi alla prima occasione dove ci fosse a mostrare valore, attività o intelligenza militare. Diventato ufficiale, decorato, ed avanzato a tenente e capitano, ebbe la disgrazia di perdere il padre che era venuto a vedere più volte con licenze nei brevi intervalli di pace, e che aveva consolato colla sua buona riuscita.
Ripatriato a quella funesta occasione, e giunto già ai venticinque anni, fu naturalmente pressato dalla vedova madre e dai numerosi parenti di voler lasciare il servigio ed accasarsi. Ma egli aveva preso più che mai amore a quella vita che gli era così ben riuscita; e non solo l'amava per sè stessa come prima e per isfogo dell'ardor giovanile, ma oramai anche un po' per l'ambizione che appunto incomincia a spuntare a quell'età, e che era poi così allettatrice in quel tempo, in cui, se non mancava la vita, non potevano mancare a un prode gli avanzamenti anche più grandi e quasi infiniti. E un Italiano aveva forse allora una virtuosa ragione d'ambizione, più che ogni altro. Era bello, era glorioso mostrare ai compagni francesi che non si valeva men di loro; era allettante il giungere a comandare quei prodi, il sollevarsi dalla condizione di vinti a quella di vincitori, il rivendicare, non colle parole, ma colle azioni il nome troppo vilipeso d'Italiano. Tuttavia, non volendo Alberto contradir troppo ai parenti e massime alla tenera madre, non domandava in grazia se non ancora una guerra, e prometteva tornarne poi docile al giogo matrimoniale. Eragli conceduta per forza tal condizione, pure aggiungendovene tacitamente un'altra: che intanto, e dai parenti, e dalla madre, e da lui istesso si cercherebbe tra le ragazze della città che venivano su, quella che tra i due o tre anni accordati gli potesse poi meglio convenire.
Alberto s'adattò facilmente a sifatta non troppo crudele condizione. Era il discorso che venivan facendo più sovente egli e la madre, il discorso di che mostravasi questa più consolata, quando la sera tornava il buon figliuolo appresso a lei rendendole conto della giornata e delle persone da lui vedute. La buona madre vedeva in tale abitudine come una guarentigia delle disposizioni tranquille e casalinghe del figliuolo, e si meravigliava, inesperta ch'ella era, che un giovane dissipato dalla vita militare si riducesse così facilmente a quelle tranquille e solitarie abitudini. Ma il vero è, che il maggior vantaggio dell'attività giovanile è appunto questo, di far meglio e più presto sentire la dolcezza della vita e degli affetti della famiglia. Quelli soli, i quali non hanno provato altro, rimangono inquieti e troppo giovani, per così dire, tutto la loro vita.
Fra le fanciulle della città di cui in quel dolce consiglio di famiglia s'andavano esaminando e pesando attentamente i pregj, l'educazione, la fortuna e la bellezza; era una quasi ancora bambina, ma che appunto perciò conveniva meglio, figlia di un borghese ricco ed impiegato da quel nuovo governo il quale soleva trarre a sè tutte le notabilità, e formare di esse non solo il corpo governante, ma la stessa sua nuova ed amalgamata nobiltà. Giulia era dunque figlia dell'or barone D…; e bella, ricca, bene educata, era già vagheggiata non solo da quanti giovani, ma da quante madri di giovani erano nella città, come poi invidiata e veduta di mal'occhio da alcune delle altre fanciulle, e da quasi tutte le madri di fanciulle che erano in quella. Alberto, portato dal barone che teneva una delle più splendide case che fossero colà, vi si vece osservare in breve per l'eleganza e la scioltezza de' suoi modi militari, i quali contrastavano tanto più coi modi ora impediti e goffi ora effeminati ed affettati degli altri giovani allevatisi intanto all'ombra e nell'ozio municipale. Non è meraviglia quindi che con quelle intenzioni, quantunque ancora indeterminate, di piacere, che aveva Alberto, ei piacesse alla fanciulla più degli altri che si presentavano come suoi rivali.
Or dimmi tu, lettor cortese; t'è egli succeduto mai di fare all'amore senza saperlo; di trovare sovente una persona che non ti pareva d'aver cercato; di rimanere a lungo con lei senza indovinare che ti piace, di ballare con lei quasi sola al ballo, di sedere appresso a lei nelle conversazioni, sempre a caso ti pareva; ed un bel giorno poi, ripensandoci lungi da lei e tutto solo a una passeggiata, o al canto del camino, di accorgerti a un tratto che sei e fosti da gran tempo innamorato? Questo appunto avvenne ad Alberto. Credeva non far altro che esaminare a sangue freddo la Giulia come tutte l'altre. Ma ei l'esaminava molto più sovente; e più volentieri, e con più soddisfazione dell'esame fattone. Diceva: Non son sì pazzo, d'innamorarmi due o tre anni prima, che intanto, oltre la morte mia, possono succedere le mille cose, e fra l'altre questa probabilissima, che s'innamori e ne sposi un altro. Ricca, bella, bene allevata e gentile, costei certo non aspetterà ch'io torni o non torni dalla mia guerra; e poi, io stesso chi sa alla guerra quante altre ne vedrò, e se non m'innamorerò davvero e non tornerò io stesso ammogliato. Benchè sarà difficile, lo confesso, di trovar cosa così graziosa ed avvenente. – Ma in ciò dire scuoteva il capo, come per iscuotere l'inopportuno e pressato pensiero d'amore che gli veniva; e in quell'atto, e al portare la mano alla fronte e alle chiome accorgevasi d'essere osservato da lei, quasi che arrossiva, se le appressava per non far vista di nulla… e mostrava anzi evidentemente di non aver pensato se non a lei. La giovanetta non era tarda; s'accorgeva di sì fatte cose, non dirò meglio ma quanto ogni altra; sorrideva dove un'altra più avanzata d'arte e d'età ben si sarebbe guardata di sorridere, accettava i suoi inviti senza far vista d'essere altrove impegnata; gli faceva luogo accanto a lei quando le si veniva appressando; si rallegrava e sorrideva alle sue prime parole; e in somma non mostrava di capire, nè volere, nè contraccambiare il suo amore, più che se egli fosse stato suo fratello, o più che se non ci fosse e ci dovesse mai essere amore tra una fanciulla di quindici anni, e un giovane di venticinque. Erano i più sinceri del mondo tutti e due nel non pensare ad amarsi per un mese intero; il mese appresso erano sincerissimamente innamorati tutti e due, e se l'erano fatto intendere, o forse, chè no 'l so bene, chiaramente detto l'uno all'altro.
Allora non fu piccolo imbroglio per Alberto. Stava, od andava? faceva all'amore, o la guerra? S'ammogliava, o tornava a riprendere una vita tutta stenti e pericoli? Tornò a questa, chiamato che fu da una nuova rottura di guerra che sopravvenne. Gliene dolse, ma non esitò; non erano tempi allora in che s'esitasse tanto; e chi men esita, men si duole, ognun lo sa. Era il tempo poi in che più prevalse quel proverbio, che tra due che si separano il più da compatire è quel che resta. È naturale, chi partiva allora aveva immense, veramente strepitose distrazioni. Adunque compatisci, o lettore, se vuoi, solamente la Giulia; se non che è pena persa; chi fu mai da compatire a quindici anni? E meno una bella fanciulla.
Eppure pianse di soppiatto tre o quattro giorni; ricusò un ballo; otto o dieci giorni non pensò ad abiti nuovi nè a mode; quindici o venti altri, o forse un mese intiero, prese malamente tutte le sue lezioni. Se io scrivessi un romanzo, non direi così; perchè è intenzione mia d'interessarvi alla Giulia: ma scrivo storie vere; e poi mi piace di fermarvi un momento a guardare la figura d'un'allegra e leggera giovanetta; la mestizia e la serietà degli affetti vengono pur sempre troppo presto.
La guerra a cui era stato chiamato Alberto, era quella terribile del 1812 in Russia. Alberto fu di que' pochi che ne riportarono inconcusso l'animo, salva ed intera la persona. Ma si succedevano scavalcando l'una su l'altra le campagne d'estate e d'inverno; dopo quella di Russia, quella di Polonia e Prussia, poi quella di Vestfalia, poi quella di Sassonia, poi Leipzig, e Hanau, e finalmente l'ultima campagna di Francia sempre più presso, e finalmente sotto le mura stesse di Parigi. Vorrei potervi dire che Alberto fu dei pochi che ricevettero a Fontainebleau l'ultimo addio del sommo capitano, che sparsero quelle lacrime virili, che lo videro abbracciare le aquile così gran tempo vincitrici; vorrei, dico, potere accrescere la gloria di Alberto con dirvi di lui tutto ciò. Un romanziere non lascierebbe nemmen qui passar l'occasione. Io vi dico schiettamente, che Alberto non si trovò a tutto ciò; e che stanco e ferito egli, fra molti del suo reggimento, domandò e ricevette facilmente la sua licenza col suo grado di caposquadrone per ritornarsene in Italia. Avrebbe potuto rimanere in Francia al servigio; ma molte ragioni lo fecero partire; fra l'altre questa, che mutar padrone è sempre spiacente, e gli pareva meglio non farlo, non essendoci obbligato.
Perchè del resto non avrebbe avuto ragioni urgenti di tornare a casa. Aveva in quei tre anni perduta la dolce madre, la tenera compagna e confidente delle ultime serate che aveva passate nella sua patria. E la patria gli era cara sì, ma quasi non la conosceva. Quanto poi alla Giulietta, a quest'ora, chi sa, sarebbe sposa e forse madre. In quegli ultimi rovesciamenti, e massime dopo la morte della madre, ricevendo pochissime lettere da casa, non sapeva più nulla di quanto fosse colà succeduto.
Tuttavia, giunto a casa e pur assestando i suoi affari, una delle prime cose di che s'informò, fu del padre di Giulia, del suo impiego, del suo titolo, e massime della figliuola. Seppe che l'impiego era perduto, il titolo sparito, le ricchezze scemate assai, e poi, quasi conseguenza di tutto ciò, che la figliuola era rimasta, ed oramai rimarrebbe forse gran tempo, da maritare. «L'ex-barone,» diceva l'interlocutore, «avrà ancora le pretensioni di prima per la figliuola; costoro si sono immaginati di diventar nobili davvero. Ma sì che il pover'uomo se n'avvedrà; i veri nobili non vogliono certo più della figliuola, e la povera zittella ne rimarrà in mezzo fanciulla in eterno.» L'interlocutore credeva di vedere a ciò sorridere Alberto, che in vece mordevasi sotto i baffi le labbra.
Andò di quel medesimo giorno a far visita all'ex-barone; trovollo, come uomo di senno ch'egli era, non troppo diverso nella diversa fortuna. Diversissima sì la fanciulla; più bella che mai, o almeno gli parve tale; ma seria, soda, composta, tacita, e timida. Sarebbesi avvilita della disgrazia? Alberto nè toccò delicatamente con qualche parola; la fanciulla parve alzarsi come in trono, il trono dell'avversità, dal quale non meno forse che da ogni altro si mira ogni cosa dall'alto al basso. Alberto aveva un animo gentile; è dire che rispettava sopra ogni cosa la sfortuna e la sua alterezza.
Avrebbero naturalmente avute mille cose da dirsi. Non se ne dissero una. Anche gli animi più aperti si sentono imbrogliatissimi al ritrovarsi in situazioni tutto diverse da quelle in che già si lasciarono. Alberto non poteva più trattare Giulia come una bambina, e una bambina allevantesi e sbocciante tra le felicità e gli allettamenti. Forza era trattarla bene o male da fanciulla matura d'anni e di cuore. Era forza amarla o disprezzarla. Alberto l'adorò.
Fra pochi giorni si seppe in tutta la città. Alberto non ne faceva mistero; addobbava la casa, correva i mercanti, scriveva a Parigi per far venire mode, stoffe e gioielli. Le nozze parevano dover essere delle più splendide ed allegre. Tanto più chiasso, tanto più invidia nelle cittaduzze. E quella città era tale, a malgrado della Corte. Che anzi, la Corte era quella che faceva il grande impiccio. «Come mai non ci aveva egli pensato Alberto? La sposa non era nobile. Era impossibile, sarebbe stato inudito che una pari sua, una borghese fosse presentata a Corte. Eppure entrerà ella senza poter esser presentata una donna nella casa illustre dei…? «Ma Alberto domanderà la grazia,» dicevan gli uni. E gli altri: «Non la domanderà.» E i terzi: «Quando la domandasse, non l'otterrà. Ma se vi dico ch'ei non ci ha pensato. Che s'è incapucciato come se fosse un giovanetto di diciott'anni, e n'ha pur vent'otto.» «Gli è quell'astuto ex-barone che gliel'ha fatta. Quei liberali son più furbi di noi. Ei se l'è accattato; e la fanciulla anche non sta indietro in furberia nemmen ella, e chi sa…» Questi ed altri caritatevoli generosissimi discorsi si tenevano dalle nobilissime e più brave persone della città.