Kitabı oku: «Galatea», sayfa 4

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VII
Rinaldo a Filippo

25 luglio 18…

Che idee ti passano per la testa? Che opinione ti sei formata di me? che io sia diventato un mulino a vento, da muover le pale ad ogni soffio? un arcolaio, che quanto è più vecchio e più gira, ai capricci delle donne gentili che si trastullano a dipanare? un guancialino da aghi e da spilli, per uso delle ragazze che si addestrano a pungere? e peggio, poi, un tappeto, una pedana, un posapiedi da contesse?

Tu vuoi aver l'aria di saper molto addentro dei fatti di Corsenna; e non sai niente, lasciatelo dire, niente di niente. Se sai, perchè ti lagni che non ti scrivo io? Ma infine, è vero, non ti ho più scritto da dieci giorni, magari da quindici. Ho la malattia degli scrittori, mio caro; quella specie d'intermittenza, ch'essi hanno comune con certe fontane. Sono periodi d'inerzia. Quando non riesco ad azzeccare un'idea, ed ho nondimeno il prurito nelle mani, scrivo lettere; è giusto allora che io scriva al miglior degli amici. Ma poi le idee mi ritornano, o mi pare; e allora son tutto al lavoro. Guai se non fosse così.

Quanto al "giornale di Corsenna", checchè tu ne pensi, non si poteva tirare avanti; era vuoto di cose, ed io non potevo tesserlo tutto di ciance. Altro che articoli di fondo, come li vuoi chiamar tu, sognando ad occhi aperti. Vedo qualche volta, saluto, e da lontano, se posso: quando non posso da lontano, adempio gli obblighi di società, tirandomi fuori alla svelta, e mi rifaccio al poema. Sicuro, al poema, mio tormento e mia gloria. Rivedo più chiara l'idea madre; anzi, ti dirò che mi è cresciuta fra mani. Don Giovanni è l'uomo, nella sua bramosia insaziata d'ideale, dell'ideale che cerca da per tutto, che crede ad ogni istante di afferrare, e che da ogni parte gli sfugge. Mi dirai che questo è poi Faust, quello della seconda, e più ancora della terza parte. Vero; ma quello è veduto un po' tardi, ed espresso anche timidamente, sarei per dire fiaccamente, con ingegno sempre sveglio, ma con mano senile, del tempo triste in cui ride ancora al poeta l'immagine, ma incomincia a mancare la fantasia ordinatrice. Nè io voglio dirti che farò meglio del Goethe; mi basta assicurarti che farò diversamente da lui.

La signorina…. di cui mi parli, fu un'apparizione momentanea, ed anche, se ti degnerai di rileggermi, capitata in mal punto a romper la quiete del mio rifugio nel verde. Sei tanto curioso di lei? Perchè non mi domandi ancora del cane? Quello, per esempio, è interessante davvero; e vive oramai con me. Il padrone, dopo un'assenza un po' lunga, l'ha castigato chiudendolo in casa. Quell'altro è scappato dalla finestra; ha fatto un'assenza anche più lunga, tanto lunga che non ha più voluto ritornare. Il contadino l'ha cercato da per tutto in paese; finalmente l'ha ritrovato da me. Ma la povera bestia, che ride così volentieri, s'è messa a guaire, anche prima di ricevere il più piccolo colpo. Ne ho fatta una delle mie; ho proposto al contadino di comperargli il suo cane. A quello non parve neppur vero di buscarsi venti lire per un povero cane da pastori, non più di primo pelo, e sviato oramai, che non gli avrebbe più fatto niente di buono. Buci, a farla grossa, non val dieci lire, come cane; come amico vale un Perù. È felicissimo del trapasso. Non mi lascia un minuto; dorme accanto al mio letto sopra una sedia che fa ballar tutta la notte, dandosi poco riguardosamente alle pulci; ringhia a tutti, per via; mangia quando gli fa comodo, e mi obbedisce quando gli piace; a fartela breve, aveva un padrone, lo ha lasciato, e si è procacciato un servitore.

Ti ho date così, e non brevemente, tutte le mie notizie. In ricambio, dovresti farmi un piacere; mandarmi tre libri, che ti sarà facile ritrovare da ogni libraio: un Teocrito, un Virgilio, un Orazio, per far certi confronti che mi son necessarii. Edizioni del Teubner, mi raccomando, che hanno le varianti di tutti i codici. Il Teocrito mi pare sia quello che porta le note del Fritzche. Dell'Orazio son sicuro che ha le note del Mueller, e del Virgilio son parimente sicuro che ha quelle del Kappes.

Son venuto qua senza libri, non contando l'Orazio del Murray, un gingillo, non un libro di studio, e non contando il mio Dante, il babbo di tutti, e non se l'abbia a male nessuno. C'è tutto in lui, come nella Bibbia; ed è sempre nuovo. Dio di misericordia, non si potrà dunque far meglio? Consoliamoci, per altro; l'insuperabile è nostro italiano, e quelli che di tanto in tanto gli voglion mettere a paro possono farlo colla voglia; non hanno descritto nè contenuto un mondo come il suo, così pieno, così vario, così mirabilmente fuso, del reale e dell'ideale; perciò non reggono alla prova, cadono irreparabilmente con quella moda medesima che li aveva fatti sorgere alla gloria degli altari.

Mi raccomando, adunque: Teocrito, Virgilio, Orazio, e del Teubner, per veder tutte le varianti in quei passi che mi preme di confrontare, e fors'anche mi verrà voglia di tradurre. Non ti puoi immaginare come giovi il tradurre, come rifaccia la mano. Ci andiamo sbrandellando, sfilacciando, sbriciolando, nella facilità della nostra lingua corrente, che porta a dir tutto, anche l'inutile; e Dante ci richiama alla sobrietà efficace. Ma Dante è l'esempio: occorre l'esercizio. Allora si traduce dal latino o dal greco, si combatte a corpo a corpo coll'idea e colla espressione che le è propria, si acquista precisione, si consegue agilità, si ottiene fermezza.

Vedi bene che non ho il capo alle donne. Che idee ti passano per la testa?

30 luglio 18…

Troppo breve! Ti lagni ancora. Troppo breve! Ma che cosa dovevo io dirti di più, per allungare l'epistola? Leggi quelle di Cicerone, e vedrai che il grand'uomo ne ha scritte d'ogni misura, anche da Roma, capo del mondo, e conoscendone tutti i segreti. Da Cuma, poi, o da altro dei suoi luoghi di villeggiatura, non scriveva più lettere, ma biglietti, pagillares, come dicevano allora, da stare nel pugno; e guai a stringere, non se ne spremeva una goccia di sugo. Che cosa dovrò raccontarti io da Corsenna?

La contessa Quarneri, mi dici; e vedo che ti sta molto a cuore. Caro mio, prega il marito di morire alle sue acque di San Pellegrino; passa, da quel terribile spadaccino che sei, sopra i cadaveri fumanti della sua guardia…. del corpo, e sposala; per me, te la rinunzio. Mi ha chiesto dei versi per il suo albo, dove non scrivono che amici. Che piena! Affrèttati anche tu, perchè ci sono a mala pena due pagine bianche. Io mi sono contentato di un angolo, dove ho ricopiato per la ottantesima volta il mio famoso sonetto del cigno. Dicono che è classico; lei lo ha trovato stupendo; ma tu, che sai la storia di queste repliche, qual prova più convincente vorresti della mia innocenza e della mia indifferenza?

È bella, sì, Dio mio, fin troppo bella; è una di quelle donne che dicono alla gente: guardatemi, contemplatemi, adoratemi. In una città sono istituzioni, monumenti, musei; si va a visitarle, e si segna nel taccuino: l'ho veduta. Compiango per altro il custode di quel museo; povero custode, che ha perdute le chiavi, e deve lasciare aperto a tutti i curiosi! Non capisco veramente come sia venuta quest'anno a Corsenna, dove non ha modo di brillare…. a suo modo. Che il marito l'abbia mandata qui in punizione? o per cautela? Certo, non sarebbe stato bello che mentre egli era a curar gli acciacchi a San Pellegrino, la signora fosse a Rimini, a Livorno, a Viareggio. Si, dev'essere per questo.

Sono andato tre giorni fa a visitarla. Non tremare, facevo il quarto. Per una visita sola, può andare; ma non ci cascherei la seconda volta. Nè quarto, nè terzo, nè secondo. Cesare aveva ragione. Arrivato l'ultimo nel salotto della contessa Quarneri, ci son pure rimasto un'ora buona, per non parerle desideroso di fuggirla, o seccato dalla compagnia importuna: e nondimeno ho dovuto partirmene per il primo, tanto quei tre Anabattisti tenevano duro.

Grazie dei libri, che ho ricevuti ieri. Ho già incominciato a servirmene, traducendo una saffica di Orazio. Te ne manderò un assaggio a suo tempo, se pure sarò contento dei fatti miei.

E tu non vai in nessun luogo? Rammento la tua massima: quando tutti se ne vanno in campagna, l'uomo sapiente villeggia al largo in città. È un'idea; voglio provare un altr'anno ancor io.

4 agosto 18…

E neanche la Wilsoncina, no, niente nientissimo. Che uomo sei tu, che non ti basta neanche la parola? Fai anche le tue supposizioni sul fatto che io non la nomino. Sei troppo sospettoso. A buon conto, non son io che te ne ho scritto? Se non t'accennavo io il suo nome, un mese fa, non ne sapresti forse l'esistenza; certo, ne ignoreresti la presenza in Corsenna.

Del resto, sappi che la signorina non è il mio genere. Sono un uomo tranquillo, io, amico della pace, e quella è un argento vivo. Mi pare una giovane Baccante; ed io vorrei Diana, se mai, la tacita dea delle selve. Correre, divertirsi, giuocare, far chiasso, è il suo gusto. Ti par fatta per piacere ad un letterato, sia pure un letterato dilettante, come il tuo divotissimo servo?

Senti questa, dopo tutto, e finisci di persuaderti. L'altra sera, passando per istrada, incontrai tutta la comitiva delle signore e dei cavalieri, che tornavano dal loro eterno lavorar di racchette. Costretto a rimanere qualche minuto con loro, non mi lasciai fuggir l'occasione di dire del lawn-tennis (garbatamente, per altro) tutto ciò che ne penso. E la graziosa Wilsoncina, cinque minuti dopo, trovò il modo di dire, non so più bene a chi, ma in guisa che io potessi sentirla:

–Ho osservato che il lawn-tennis non piace ai grassi, e che la caccia non piace ai miopi.—

Applica, filosofo. Ella sa benissimo che non amo la caccia. Così m'ha dato ad un punto del grasso e del miope; m'ha fatto due offese che sarebbero mortali, se io non fossi corazzato da un pezzo contro i motteggi delle fanciulle audaci, come contro i vezzi delle signore cascanti.

Sei persuaso? Dammi pace, e lasciami tradurre da Orazio.

VIII
Si torna al memoriale

4 agosto 18…

Quel diavolo del Ferri! Non ne passa una. Ma già, per la Quarneri, si sa da tutti che è venuta in Corsenna. È uno di quei corpi luminosi che hanno tanto di strascico, e lasciano il solco dovunque trascorrano: quando non si vede più niente di loro nello spazio, si sente che mancano, e si vuol sapere ad ogni costo dove siano andati a parare; gli astronomi del marciapiede ne studiano il corso, ne determinano l'orbita, come si fa delle comete. Della Wilson, poi, ho scritto io. Che sciocco imprudente! Potevo dire: "una giovane villeggiante", e ce n'era d'avanzo. Non bisogna mai scriver nomi di donne; neanche agli amici più intimi. Quello ora s'immagina che io ne sia innamorato.

Innamorato io! io, legno stagionato, navigato, provato ad ogni vento, passato per tutte le acque. Quanti pericoli non ho affrontati, quante Cicladi, quante Sirti, e Sirene cantanti, e Scille latranti e Cariddi voraci! Forse, come il Don Giovanni del Campoamor, sono passato accanto alla felicità senza avvedermene, ed ho lasciato intatto il suggello al dolce bigliettino in cui mi era promessa.

Innamorato io! ma che? mi sento libero il cuore, calmo, tranquillo, sereno lo spirito, senza alcuno di quei turbamenti che accompagnano il nascere d'una passione. Studiamoci su, analizziamo, che è sempre il miglior modo d'intendere; la sintesi è troppo spesso una confusione. Certo, considerando il primo principio della mia conoscenza colla signorina Wilson, o, per dire più esattamente, del mio pensare a lei, un carattere dell'amore si potrebbe rinvenire; ed è il modo strano del nostro avvicinamento, la prontezza quasi fulminea, certo senza passaggi, senza gradazioni, di quella certa intimità, che ci ha condotti ridendo a dirci ogni cosa più amena. Ma già, molti giorni prima, avevo conosciuta la signorina Wilson, l'avevo riverita insieme colle altre villeggianti di qui, e non m'aveva fatto un senso particolare; tanto che trovavo carine le Berti, e di lei non avevo pensato nulla; tanto che trovavo bellissima la Quarneri, anzi pericolosissima, e per la Wilsoncina non m'era venuto in mente il più modesto superlativo, neanche un "gentilissima" che si prodiga a tutte.

Osservo che il suo genere di bellezza non è tale da colpire, e forse bisogna vederla a lungo per esserne presi. È sana, forte e fresca; ha la grazia della donna nascente, sotto la scorza della fanciullona matta. Così avviene della camelia; si annunzia male, sotto quella embriciata di ruvide brattee giallognole che ne inviluppano il calice, mentre il bocciuolo della rosa s'invermiglia delicato e piacente alla prima vista tra i sèpali verdi, che lo proteggono senza volerlo nascondere. Cerchiamo un altro paragone, e non tra i fiori; la signorina Wilson ricorda la ingenuità rusticana che tiene ancora un pochino della corteccia dei tronchi, donde gli antichi hanno fatto sbocciar le Amadriadi; le quali, poi, dispiccate dalle fibre del legno nel dolce silenzio d'una notte di primavera, frementi di gioventù, fosforescenti di bellezza, corrono per l'ombra dei boschi, escono nelle radure, danzando lietamente al queto lume della luna, timidi sussurri, intime fragranze, occhi amorosi della natura, che si rivolgono al cielo. E d'una ninfa ha la persona, snella ad un tempo e robusta; d'una ninfa il portamento altero e i movimenti non senza eleganza impetuosi; d'una ninfa la carne tra vermiglia e dorata, l'indocile capigliatura corvina, l'occhio curioso nella sua bella semplicità di nuova venuta ai misteri della vita, la bocca fiorente, umida e viva, che il piacere non ha ancora dischiusa, nè ancor suggellata il dolore.

Sì, tutto questo andrà bene, se pure non è un tantino arbitrario, come tutte le osservazioni personali: ma una cosa è fuori di dubbio, che la strana forma del nostro primo incontro è quella che mi ha colpito, e non altra ragione, non altra. Questo è senza fallo uno dei caratteri dell'amore; ma non basta, e d'un solo fiore non si può tesser ghirlanda. Sento, o piuttosto riconosco, che la signorina Wilson sarebbe una buona compagna di passeggiate. Vado con lei di qua e di là; tutte le volte che c'incontriamo si riesce a fare insieme un'ora di cammino per forre o per balze, con Buci in avanguardia. Ride volentieri, ed ha il riso piacevole, comunicativo in sommo grado. Ha poi delle scappate che mi rallegrano, come raggi di sole che splendano d'improvviso sull'erba, passando tra il fogliame d'un bosco. Dice qualche volta, confessiamolo pure, delle cose che non rallegrano affatto, e a cui bisogna far bocca da ridere per non aver aria di gente permalosa. Ma ella stessa si affretta a spiegarle. "Ho detto per celia; che uomo è Lei, che va in collera?"

"Io, signorina? No davvero, non sono andato in collera affatto; quantunque, esser chiamato grasso e miope tutto d'un colpo"… "Ah, vede? Ne aveva avuto noia. Ed è grasso, sì; almeno non può prender posto tra i magri. Ma corre, si arrampica, resiste ad ogni fatica, e questo non è da grassi. Quanto all'esser miope, l'ho creduto, sa? ma ora non ne sono più tanto persuasa, e dubito che lo faccia a posta, per ingannare la gente." "Eccone un'altra; che cosa intenderebbe di dire con questa?" "Niente, niente; ho fatto per celia." E ride, ride, e non c'è verso di cavarne più altro.

E così, come niente la trattiene, niente la spaventa, niente le pare impossibile o inammissibile, neanche l'andare attorno con un uomo che non è suo fratello, nè suo zio, e neppure suo cugino, quel buon cugino che fa tanto comodo alle altre italiane. Ma in fondo in fondo, non è italiana, lei, essendo inglese dal babbo, e tenendo assai di quelle donne inglesi, che erano già di doppia indole fin dai principii della stirpe, vaporose e pensose come Sassoni, forti e imperterrite come Angliche e Danesi; donne che ornano singolarmente la casa, e corrono così volentieri le strade maestre; donne che fanno il tè, che hanno inventata la celeste mistura delle acciughe e del burro, che hanno accolta a festa l'invenzione delle patate e ritrovato che tra i cento modi di servirle in tavola il migliore è ancora il più semplice, d'imbandirle a lesso per contorno alla carne; donne che sanno distillare il rosolio di gooseberry, come la moglie del vicario di Wakefield, e galoppare pel mondo, come lady Stanhope; terribili come Anna Radcliffe, appassionate come Carolina Lamb, calze azzurre come lady Wortley Montaigue e come la contessa di Blessington, qualche volta con un granellino di pazzia, sempre con due o tre di piacente originalità; donne soprattutto da mandar sempre uniti i pregi più disparati del loro doppio carattere, da portare in ogni luogo più inospite le confortevoli usanze della casa, da prepararvi un tè sulla piramide di Cheope o in riva al lago Tanganika, sulle sponde dell'Eufrate o sulle rovine di Tello. Ah, forse bisognerebbe che una buona e veramente efficace alleanza anglo-italiana stabilisse in due articoli il suo patto fondamentale; articolo primo: "Dal 1901 in giù, per la durata di cinquantanni, gl'Inglesi non isposeranno che donne Italiane, e gl'Italiani non isposeranno che donne Inglesi"; articolo secondo: "In capo ai cinquantanni si vedrà se sia o non sia il caso di continuare." Ma che matto son io! Io che non amo il tè, starei fresco.

Kathleen (già non la chiamerò più Kitty; ciò la rende troppo minuscola) Kathleen ha molto di Galatea. Ma di quale? della Oraziana, della Virgiliana, o della Teocritèa? La Oraziana, a ben guardare, non consiste che in due versi, quelli che son caduti, per istrana combinazione, sotto gli occhi della signorina Wilson:

 
    "Sii pur felice ovunque andar ti piaccia,
    "E di noi, Galatea, memore vivi."
 

Il resto è tutto un ripieno; il poeta ha messi quei due versi con quel noi tutto suo, tra tanta enumerazione d'animali di buono e di cattivo augurio, e una diffusa descrizione del ratto d'Europa; il qual noi è come una tenerezza nascosta, da lasciarci pensare due cose: che Lelia Galla piaceva ad Orazio, e che per piacere in quel modo ad un uomo di buon naso come lui, bisognava essere un fior di donna, possedere il quid arcanum; una cosa che a noi sfugge, poichè egli non ha stimato prudente di dircela. Tradurrò certamente tutta l'ode, e resterà una memoria dell'Acqua Ascosa, come tante e tante altre che dormono nel cassetto dei ricordi: poveri ricordi, che qualche volta (inorridisco a dirlo) non mi ricordan più nulla.

È forse la Galatea Virgiliana? Appare anch'essa in due versi di Dameta, che fa agli strambotti con Menalca, come due capri farebbero a' cozzi in un prato. Ricordando la scena del San Donato, si potrebbe tradurre così:

 
    "Un pomo in su la testa
    "Matta fanciulla, Galatea m'assesta;
    "E se ne fugge via
    "Fra i salci, ed ama esser veduta in pria."
 

Gran birichina, quella Galatea di Dameta! ma anche piena d'ingegno e di grazia nel suo discorso. Infatti il daino continua:

 
    "Oh dolci parolette
    "Che tante volte Galatea mi ha dette!
    "Vorrei che un saggio il vento
    "Ne portasse agii dei del firmamento."
 

Sì, questa è la Galatea che mi piace. Ma la mia non potrebbe esser quella di Teocrito? Amata pazzamente da Polifemo, è invaghita del giovane Aci. Sventuratissimo Polifemo! Quanti caldi sospiri, quante ardenti proteste, quante vane querele, che Ovidio ha raccolte, e non paion troppe al bisogno, in quella stemperata fuga d'esametri delle sue Metamorfosi! Che farci? Egli è la scarmigliata vecchiaia, ed Aci è la florida gioventù. Inoltre, il disgraziato Polifemo ha un occhio solo, quasi a significare la sua vita dimezzata. "Nel mezzo del cammin di nostra vita!" Non ci sono ancor io, Dante da strapazzo, ancor io? Galatea è invaghita di Aci; non può essere altrimenti. Se un Aci non è ancora capitato, mettiamo pure che non sia molto lontano.

Per fortuna, non amo Galatea. Quattro chiacchiere, più garbate e più amene che mi vengano fatte, ora e sempre; ma niente di più. Vediamo intanto; quest'Aci non potrebb'essere…. Terenzio Spazzòli! Non è bello, e ci corre. Oh Dio, e che significa ciò? È la mia opinione, dopo tutto; e si è sempre visto piacere alle donne quello che a noi pareva un becco di cutrettola, un muso di pecora, un ceffo di cane. Già, le donne badano molto al figurino; anche quelle che non lo vogliono ammettere, e quelle che non lo confessano neppure a sè stesse. Terenzio è sempre all'ultima moda; in ogni cosa, dal capo alle piante, sia fuori o in casa, in piedi o a letto, un prodigio. E poi, vecchi e giovani, per piacere, bisogna sapersi mettere a pari con quei che piacciono. Io mi lascio andar troppo giù; la mia semplicità potrebbe passare, ma a patto che non paresse negligenza. Per fortuna, ripeto, non amo Galatea; e non soffro niente a pensare che ci ha avuto un segreto in comune con Terenzio Spazzòli, anzi due segreti: il canestro del caffè e la cesta del lawn-tennis. Ah, respiro! Questa analisi mi ha fatto bene: posso andarmene a letto tranquillo.

Yaş sınırı:
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Litres'teki yayın tarihi:
16 kasım 2018
Hacim:
230 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
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