Kitabı oku: «I rossi e i neri, vol. 1», sayfa 30
XXXVII
Come Lorenzo andasse in traccia di Niso e dovesse far capo ad Eurialo.
Leggendo la sua parte di quel dramma intimo, che i lettori conoscono oramai per intero, Lorenzo Salvani rimase fortemente turbato. Nell'animo suo, lo sapete, era un certo che di femmineo; però egli, senza trascorrere a pronti ed acerbi giudizi, intendeva tutti i dolorosi rivolgimenti, per cui, come in altrettante filiere, aveva dovuto trascorrere, assottigliarsi, l'affetto di Lilla, giovinetta innamorata senza ardimento, donna amante senza saldezza di propositi; non abbastanza generosa per darsi tutta quanta; d'indole buona, ma di consuetudini guasta; una di quelle donne, in fine, le quali son nate per sacrificare la vita a chi le inganna, o per uccidere chi le ama davvero; povere figlie d'Eva, sì veramente, alle quali la logica diritta del cuore è offuscata da false sembianze di vero, non abbastanza notate da prima, e troppo notate e troppo ingrandite di poi.
L'orgoglio era il peccato capitale di Lilla. Dalle lettere scritte nella sua solitaria dimora campestre ella appariva soltanto una donna infelice; la puntigliosa morale che governa il mondo, o crede di governarlo, poteva condannarla; ma la logica del cuore, che non sa d'impedimenti umani, nè di patti giurati, notando nel fatto di quella donna, non già un pervertimento di sensi, sibbene l'impulso di un amor prepotente, l'assolveva, la rendeva degna di compianto. Senonchè l'anima debole era trascorsa all'eccesso dei nuovi consigli; si rifaceva al debito antico, ma rinnegando ogni senso di tenerezza umana; s'argomentava di far sentire la schietta voce della virtù sospettata, ed altro non parlava in lei che l'orgoglio offeso. La superbia aveva vinto l'amore, triste istoria, solito epilogo di tanti romanzi!
Lorenzo mise l'ultima lettera accanto alle altre nel cofanetto, lo chiuse e di bel nuovo lo depose nel cassettone. Egli conosceva finalmente l'arcano dei natali di Maria; ma che farne? come trarne giovamento per lei?
Innanzi di metter mano su quel carteggio, egli aveva fatto il disegno di raccomandare la sua sorella adottiva alle cure del generoso Assereto. Ma dopo aver letto que' fogli che in così strana e inaspettata maniera gli mostravano Maria figliuola d'un Montalto, e congiunta di sangue ad Aloise, il primo consiglio più non gli parve il migliore. Aloise, era al pari dell'Assereto uno schietto amico, un gentiluomo, un vero uomo; per giunta si chiariva esser egli l'unico protettore naturale, autorevole, della fanciulla; a lui dunque si spettava la custodia dell'arcano.
Le quali cose meditate, e diremo quasi librate sulla bilancia, Lorenzo Salvani diè di piglio alla penna, per scrivere una lettera ad Aloise di Montalto. Ma egli aveva a mala pena incominciato, che ancora mutò consiglio, parendogli meglio fatto di andare egli stesso a cercar dell'amico. Molte cose si dicono agevolmente a voce, che sulla carta richiedono eterni rigiri di frasi, e poi si teme di non averle dette per modo che altri le intenda a puntino. Suonavano in quel mentre le nove del mattino; certo, Aloise era in casa; lo andar da lui tornava più agevole e più spedito dello scrivere.
Rassettandosi in fretta per andar fuori, aperse l'uscio della camera; ma nella sala d'entrata s'imbattè in Maria che appunto veniva a chieder di lui.
– E la vostra colazione? – diss'ella, notando come Lorenzo si fosse avviato all'uscio.
– Non ne ho voglia, stamane; – rispose il giovine. – Del resto, non starò fuori più di un'ora. —
Ma in quella che Lorenzo parlava, la giovinetta aveva potuto scorgere com'egli fosse pallido in viso e turbato.
– Che avete, Lorenzo? Voi siete ammalato…
– No, buona sorella, non ho nulla; ho letto molto e ho bisogno d'aria.
Addio; tra un'ora e mezzo alla più lunga, sarò di ritorno. —
E senza aspettar altro, si volse all'uscio, lo aperse e partì. Dieci minuti dopo, era in via Balbi e scampanellava all'uscio del marchese di Montalto.
Ma Aloise, per dirla nello stile di Lucullo, non era dormito quella notte in casa di Aloise, e il servo non seppe dire a Lorenzo nè dove fosse, nè quando sarebbe ritornato; soltanto sapeva e diceva che da due giorni il suo padrone era fuori.
Che fare? A Lorenzo venne in mente il Pietrasanta, l'amico fedele del Montalto, come quegli che certo avrebbe saputo dirgli se fosse possibile, e quando, di abboccarsi con lui. E difilato si mosse per andarlo a cercare, ben sapendo ove stesse di casa. Per fortuna non doveva andare lontano, poichè il palazzo dei Pietrasanta era sulla piazza della Nunziata.
Giunto al portone e saputo che il marchesino non era uscito, Lorenzo salì al secondo piano e scampanellò all'uscio di casa. Un servo in mezza livrea venne ad aprirgli, per rispondergli asciuttamente, poi ch'ebbe udita la sua domanda, che Sua Eccellenza era a letto, e quando era a letto non si poteva scomodarla.
– Dategli questo; – soggiunse Lorenzo, sporgendogli un suo biglietto da visita, – e v'accorgerete di non aver fallito a svegliarlo, od altrimenti a disturbarlo. Io aspetterò qui. —
Il servo sì strinse nelle spalle, e lasciatolo solo nella vasta anticamera, andò, sebbene di male gambe, a far l'imbasciata. Dopo tre o quattro minuti, che Lorenzo spese a contemplare un Noè del Grechetto, che entrava nell'arca con ogni generazione d'animali, ricomparve il servitore, ma stavolta tutto inchini e sorrisi, per dirgli: – Entri, signor avocato; il mio padrone l'aspetta. —
Percorse due o tre sale sontuosamente arredate, nelle quali se ne stavano contegnosi e muti una dozzina di antenati d'ambo i sessi; sulla tela, s'intende. Lorenzo Salvani fu guidato alla camera dell'amico, più che dagli atti ossequiosi del servitore, dalla voce medesima del Pietrasanta, il quale gridava dalla sua cuccia:
– Siate il benvenuto, amico Salvani! Venite con me a deliziarvi nello spettacolo dell'alba!
– Dell'alba? – chiese Lorenzo, accompagnando le parole col suo placido sorriso, in quella che entrava nella camera del Pietrasanta: – volete dire quella de' tafani?
– Non ne conosco altre, io; sebbene pel fatto di San Nazaro, dovrei dire il contrario. Ma un fiore non fa primavera; la mia alba, eccola… __Bell'alba è questa__! —
E usando di quella dimestichezza che era tra lui e Lorenzo, il Pietrasanta si sollevò quasi in piedi sul letto, col lenzuolo ravviluppato intorno alla persona, per dare immagine dell'alfieresco personaggio a cui rubava il suo famoso emistichio.
– Ma lasciamo la tragedia in disparte; – proseguì l'allegro giovanotto, ricadendo col gomito sul guanciale. – lo vi ho fatto entrar qui, perchè non aveste ad aspettar troppo il mio scendere __dalle molli piume__. Licenziatemi quest'altra frase, vi prego, poichè stamane sono nel classico, e appunto quando giungevate voi stavo pensando a due personaggi dell'Eneide.
– Oh diamine! E chi sono, costoro?
– Ve lo dico subito. Ma, prima di tutto, sedetevi. Guardate, là, presso a voi, c'è un mazzo di spagnolette. I fiammiferi sono qui, sul tavolino. Io fumo come il Vesuvio, reggia di Vulcano, o come l'Etna, quando Encelado si fa lecito di respirare.
– Ma davvero siete classico, stamane! – disse Lorenzo, mentre, per contentare l'ospite amico, accendeva una spagnoletta.
– A proposito di fumo, Teodoro! – proseguì il Pietrasanta, chiamando il servitore, che fu sollecito a comparir sulla soglia. – Apri quella finestra, ma lascia chiusa la persiana, «perchè la brezza mattutina un varco – trovi, e il raggio del dì non ci percuota. – Vanne!» Ed eccovi ora, in disadorna prosa, a che stavo pensando, mio caro Salvani, innanzi che veniste voi. Pensavo a que' due amici inseparabili che Virgilio ha dipinti, Niso ed Eurialo. Ho tradotto dieci anni or sono quell'episodio sulle panche di retorica, e m'è rimasto impresso. Che bella cosa! dicevo tra me; che bella cosa, era l'amicizia ne' tempi andati! Niso ed Eurialo nel Lazio, Damone e Pizia a Siracusa, Oreste e Pilade in Grecia, Castore e Polluce in cielo… Mitologia, tempi eroici, bellissime cose! Ma di presente tutto è mutato! —
Lorenzo Salvani sorrideva sempre. Il sorriso era stampato, Siam per dire, sulle sue labbra, a dissimulare l'interno affanno, come dissimula il volto una maschera di carnevale.
– Ma che vuol dire tutto questo sfoggio di erudizione? – dimandò egli.
– Vuol dire che a' tempi nostri non ci sono più amici. Non mi dite di no; non parlo per voi, Salvani, che vedo così di rado, e non ne so veramente il perchè; parlo pel signor Aloise di Montalto, giovine biondo e infido, Niso che s'infischia d'Eurialo, Damone che manda Pizia a quel paese, Oreste che… Non ridete Salvani! Sono venti giorni, senza mettere in conto questo, incominciato appena, che Aloise non viene da me, e quando io vado da lui, non lo trovo in casa.
– Diamine! E così, sono venti giorni che non lo vedete?
– Oh, non dico già questo. Qualche volta lo vedo, ma è una fortuna che io debbo guadagnarmela con gravi stenti, con lunghi pellegrinaggi, come a' tempi delle crociate.
– Ah, capisco, – disse Lorenzo; – c'è qualche donna di mezzo.
– Sicuro, una donna. Oh le donne, le donne! __Gens inimica mihi tyrrhenum navigat aequor__! – gridò il Pietrasanta, con più enfasi di Giunone nel suo abboccamento con Eolo. – Ma scusatemi, Salvani; per raccontarvi i miei mali, dimentico che siete probabilmente venuto per parlarmi d'altro.
– No, appunto venivo da Eurialo perchè non avevo trovato Niso in casa.
– Ah, vedete? Ci ho gusto che vi sia toccato quello che tocca a me. Ma ditemi, può fare Eurialo quello che avrebbe fatto Niso, e con tanto piacere, per voi? Son tutto vostro, Salvani.
– Grazie; – rispose Lorenzo. – Desideravo parlargli; ma poichè non lo trovo, gli scriverò una lettera, e voi vi darete la briga…
– Di fargliela avere? – interruppe il Pietrasanta. – Sicuramente. Se oggi non viene, domani lo scoverò io. —
Un moto delle labbra di Lorenzo dimostrò ad Enrico Pietrasanta che non bastava ancora.
– Si tratta di cosa grave? – dimandò egli, mettendo la sua gaiezza mattutina in disparte.
– Gravissima; almeno per me.
– Diamine! e perchè non dirmelo subito? Ed io che stavo a ciaramellare, a ridere… Scusatemi, Lorenzo!..
– Vi pare? – interruppe Salvani, stringendo affettuosamente la mano che gli stendeva l'amico. – Voi siete un'anima nobile, Pietrasanta. Rendetemi un servizio e dimostratemi, contro la vostra opinione di quest'oggi, che l'amicizia non è un nome vano. Aloise ha da avere, oggi medesimo, una mia lettera, e da venire, da correre a Genova, appena l'avrà letta. —
Enrico stette un tratto sovra pensieri, come se misurasse in cuor suo tutte le probabilità del negozio; quindi rispose con breviloquenza cesarea:
– L'avrà, la leggerà, verrà. Teodoro!.. Ehi, dico, Teodoro!..
– Eccellenza! – esclamò il servitore, ritornando come un automa in sull'uscio.
– Fa attaccare il mio __brougham__… no, anzi il mio __landau__, per le undici in punto.
– Eccellenza, le undici son già suonate.
– Non importa; fa attaccare prima che ribattano.
– Corro subito.
– Avete già scritta la lettera? – chiese Enrico a Lorenzo.
– No, ma se permettete…
– Teodoro!
– Eccellenza!
– Condurrai il signor Salvani nel mio studio. Là troverete ogni cosa, – soggiunse il Pietrasanta, volgendosi a Lorenzo; – io intanto salto giù e mi vesto in… fretta. E bada tu, Teodoro, quando il signor Salvani avesse a venire altre volte, fallo entrare, e subito, a qualunque ora, come l'altro mio amico Aloise.
– Non ne dubiti. Eccellenza; ora che lo so… – Lorenzo sorrise mestamente, come volesse dire: sarà inutile, oramai! E seguì Teodoro che lo condusse nello studio, elegantissimo stanzino dove il Pietrasanta non istava di certo lunghe ore assorto, sebbene ci avesse una piccola libreria e due trionfi di pipe turche colle canne di gelsomino.
Rimasto solo là dentro, Lorenzo andò alla scrivania. Sullo scannello stavano preparati a ricevere il battesimo dell'inchiostro due o tre quinterni di finissima carta a filone, che portava la lettera E, sormontata da una corona marchionale, stampata d'inchiostro azzurro, sul margine dei fogli. Il primo di questi, su cui caddero gli occhi di Lorenzo, oltre quel segno stampato, recava un cominciamento di epistola, e la frase vocativa: «__Ma bien-aimée__» dinotava due cose: che Enrico Pietrasanta teneva carteggio colle donne (__gens inimica sibi__), e che non usava sempre finir le sue lettere.
– Egli è felice! – esclamò Lorenzo, leggendo involontariamente quelle due paroline. Indi, messo da banda quel foglio, incominciò a scrivere la sua lettera ad Aloise. Ma era un lavoro difficile. Scrisse, cancellò, riscrisse, e finalmente, dopo avere inchiostrati tre fogli, che andarono a pezzi nel cestino, gli venne fatto di metter insieme questi paragrafi:
«Amico,
«Forza di eventi che tornerebbe inutile ora di starvi a chiarire, mi costringe a lasciar sola, senza aiuto, senza consiglio, la mia buona e santa sorella adottiva. Io la confido alle cure di Giorgio Assereto e alle vostre, ma più assai alle vostre, per quelle ragioni che intenderete agevolmente, quando avrete letto un antico carteggio che sta chiuso in una cassettina d'ebano, segreto di famiglia che ho dovuto leggere anch'io, questa mattina medesima. Mostrate questa lettera a Maria di Montalto (ella può portare questo nome, se non forse al cospetto del mondo, certo agli occhi di un gentiluomo come suo cugino Aloise) ed ella vi dirà dove si trovi la cassettina.
«Voi e il mio vecchio compagno Assereto sarete per quella infelice due fratelli, in cambio di uno che ella perderà; sarete l'anima di Lorenzo Salvani in due; il suo consiglio di famiglia, a gran pezza migliore d'ogni altro che potrebbe darle la legge; perchè a voi non occorrono articoli di codice, e l'amicizia, l'onore, sono i più sicuri canoni di giurisprudenza del mondo.
«Addio, Aloise, mio avversario di un'ora, e mio amico di tutta la vita; e se non avessimo a vederci più, dite alla gentile Maria che mi perdoni questa diserzione della custodia che m'aveva affidato mio padre; ed ella, e voi, e l'Assereto, amate un pochino la memoria del vostro, infelice ma non immemore,
«LORENZO SALVANI.»
Ciò scritto, rasciugò due lagrime che erano venute fuori ad offuscargli la vista; chiuse il foglio nella sopraccarta, e vi scrisse sopra:
«Al marchese Aloise di Montalto. Sue mani.»
In quel mentre, capitava sull'uscio dello studio il Pietrasanta, già vestito a mezzo, anzi per due terzi, poichè aveva già fatto il nodo della cravatta, opera capitale nella acconciatura d'uno zerbinotto par suo.
– Così presto? – chiese Lorenzo.
– O che, credete ch'io non sappia fare alla svelta, quando occorre? Son venuto in maniche di camicia, temendo che aveste già finito da un pezzo e vi annoiaste ad attendermi.
– No; appunto ora ho finito di scrivere.
– Tanto meglio. Venite dunque; metto la corazza, il sorcotto, e il cimiero, e sono ai vostri comandi. —
La corazza era il panciotto, come i lettori avranno già indovinato; il sorcotto era una attillata giacca di velluto; il cimiero un cappellino di paglia, fasciato d'una larga fettuccia nera, i cui capi pendevano svolazzanti fuor della tesa, ma non tanto da nascondere la discriminatura delle chiome, che scendeva diritta e sottile fino al basso della nuca.
Come si fu vestito di tutto punto, prese dalle mani del servitore la sua mazzetta di giunco indiano, col pomo d'argento, e il fazzoletto imbevuto d'acque odorose; quindi dalle mani dell'amico la lettera, che ripose accuratamente nel portafoglio, ed ambedue uscirono sulle scale.
Giù nel portico era già la carrozza ad attendere, col suo cocchiere gallonato a cassetta, collo staffiere allo smontatoio, e una coppia di cavalli rovani che scalpitavano, aspettando il segnale del loro automedonte.
– A rivederci, dunque, se non venite anche voi per un tratto di strada con me.
– No, debbo scendere verso Banchi; a rivederci, e grazie!
– Che! che! faccio un po' di moto. A stasera, Salvani.
– Stasera! – ripetè macchinalmente Lorenzo. E fatto un ultimo saluto all'amico, se ne andò pedestre verso una delle strade inferiori della città.
– Eccellenza, dove si va? – chiese lo staffiere che era salito a cassetta, daccanto al cocchiere.
– Veh che bestia! Io, s'intende, non tu! A Quinto, villa Vivaldi; e di buon trotto! —
XXXVIII
"Amor che a nullo amato amar perdona".
Fornita quella importantissima bisogna, Lorenzo Salvani aveva da tornare a casa, sebbene per pochi minuti. Quel giorno egli fingeva di dover contentare l'amico Assereto, facendo una scampagnata con lui, e non gli rimaneva più altro a fare che accennar la cosa a Maria, perchè non avesse da attenderlo per desinare.
Il pensiero della fanciulla era l'unico rimorso che avesse in cuore Lorenzo. Quando l'angelico sembiante di Maria gli si parava dinanzi agli occhi della mente, egli bene intendeva che il suo disegno, in apparenza così generoso e tale da meritargli lode e rimpianto presso l'universale, era un delitto bello e buono al cospetto della sua coscienza, ch'egli non poteva ingannare. Ed erano allora combattimenti feroci nell'anima sua travagliata. – Ma, infine, dovrò io vivere a questo modo? Sarò io incatenato, come Prometeo, alla rupe dell'esistenza, col rostro dell'avvoltoio nel cuore, e senza il conforto di tornar utile in alcuna maniera ad anima nata? —
Quella mattina, un poco di calma gli era pur derivato, non sapremmo se più dalla istessa vicinanza della catastrofe, o dal pensiero di aver provveduto, come si poteva meglio, al futuro.
– Vivo, – pensava egli, in quella che uscito dal palazzo Pietrasanta si avviava al basso della città, – non tornavo di alcun giovamento a lei. Morto io, conosciuto l'arcano de' suoi nascimenti, un nobil parente, se non forse sua madre medesima, oggi vedova, ricca e padrona di sè, avrà cura di lei, tergerà facilmente le lagrime che la perdita di un fratello d'adozione potrà farle versare. Animo, dunque; ciò che importa oggi, è di vederla un'ultima volta, senza balenare; di poter uscire da capo, senza che ella s'insospettisca di nulla. —
Sicuro; andar tranquillamente a casa, annunziare a Maria che quel giorno egli desinava fuori, star dieci minuti a ragionar di cose da nulla, uscire da capo e buona notte; questo era il disegno, facile a concepirsi, facile a mandarsi ad effetto, tranne i casi imprevisti, od una di quelle cose da nulla, che conducono i casi a farne qualcuna delle loro, come spesso interviene.
Le cose da nulla c'erano, e attendevano in casa sua l'inconscio Salvani.
I nostri lettori non ignorano che il servo Michele era nel segreto della congiura, e rammentano certamente il suo dialogo col Bello nell'osteria della Piccina, nel qual dialogo s'eran fatte allusioni parecchie all'impresa, e alla parte che ci aveva da prendere Lorenzo. Queste cose. Michele non le sapeva soltanto dal Bello, ma dal suo padrone medesimo, il quale non avrebbe onestamente potuto tacerne a quel vecchio commilitone di suo padre, legionario d'America e veterano di Roma. Michele, sebbene in umilissimo stato, era quel che oggi si direbbe un uomo politico; e Lorenzo Salvani, se non era andato tant'oltre da lasciargli intendere che cosa aspettasse per sè dallo scoppio della congiura, aveva pur dovuto chiarire al suo fidato, com'egli ci fosse a capo fitto, per riuscire a raccomandargli di star zitto in casa, ed altresì a persuaderlo che volesse tenersi quella sera in disparte, per custodire la signorina Maria.
A questo non s'era piegato agevolmente il vecchio servitore, Le mani gli pizzicavano anche a lui, e un po' di governo provvisorio fatto con quelle sue mani, gli sarebbe parso doppiamente gustoso. Ma Lorenzo gli aveva dipinto con tanto vivi colori il pericolo di lasciar sola in casa Maria, e lo sgomento naturalissimo della fanciulla quando ella avesse udito far le schioppettate per le vie, che Michele, il quale amava la signorina quanto il signorino, anzi quanto l'Italia e la repubblica insieme, s'era finalmente rassegnato; e dopo aver promesso di starsene colle mani in tasca, aveva anche giurato di tenersi la lingua tra i denti, per non spaventare innanzi tempo la sua padroncina.
Aveva giurato, diciamo; ma serbava il giuramento a modo suo, sebbene colle migliori intenzioni del mondo, e col più saldo proponimento di non mettere la fanciulla in sospetto. Figuratevi che da parecchi giorni, in casa, mentre accudiva alle sue faccende, non faceva altro che canticchiare le canzoncine spagnuole. Ora, per Maria era segno di guerra, quando Michele cantava spagnuolo, e segno di guerra grossa, imminente, quando erano canzoni di genere gaio e soave. Michele somigliava in ciò a quel gran capitano che soleva dissimulare la gravità dei suoi disegni con qualche facile cantilena mormorata tra' denti. E più Michele era internamente agitato, più dava nell'arcadico; più era grave il sopraccapo, più gaia la canzone.
Già due o tre volte nei giorni precedenti la giovinetta aveva chiesto a Michele che cosa volessero dire quelle sue insolite riprese di canto spagnuolo.
– Nulla, nulla! – aveva risposto il servitore con aria impacciata. – Canto per distrarmi un tantino, la non ci abbadi! —
E poi, gli uscivano dette, tra una strofa e l'altra, certe frasi di colore oscuro, le quali non aveano nulla a strigare colle canzoni, nè con ciò ch'egli andava facendo. Ed ella ad interrogarlo da capo, ma senza cavarne un costrutto.
– È tempo di finirla! – aveva gridato Michele, proprio la sera innanzi, in quella che stava in cucina a rigovernare il vasellame da tavola, e non s'era addato della presenza della padroncina che passava lì presso.
– Che cosa? – aveva chiesto Maria, fermandosi sull'uscio.
– Nulla, signorina. Parlavo da solo come fanno i matti.
– Non avete detto che è tempo di finirla?
– Ah sì, certo, gli è tempo. Se comandassi io…
– Da bravo, Michele! Sempre colla politica?
– Che vuole, signorina? Il dente batte… cioè, la lingua duole… insomma, dico che se comandassi io, la finirei senza tanti discorsi… Ma già, un giorno o l'altro, l'ha da venire, la resa dei conti; e certi stancapopoli… Ma basta, acqua in bocca; se no, esco fuori dei gangheri. —
Questi discorsi non erano fatti, come i lettori argomentano, per raffidare Maria; Maria che aveva notato la crescente tristezza di Lorenzo; Maria che lo vedeva taciturno, chiuso in sè stesso, non d'altro sollecito che di sviare il discorso quando ella si faceva a chiedergli la cagione di quel suo umore malinconico; Maria infine che talvolta pregava Michele a volerla aiutare per vincere quella ritrosia di Lorenzo, e non otteneva altro da lui che diplomatici stringimenti di labbra.
Però, argomentate come fosse grande il turbamento della giovinetta, nella mattina del 29 giugno, allorquando Lorenzo fu uscito ed ella passando rasente l'uscio della camera di lui, sentì odore di bruciaticcio, ed entrata prontamente, vide ogni cosa sossopra, minuzzoli di carta ammonticchiati nel cestino, rimasugli di lettere arse in un angolo, le cassette del canterano mezzo aperte e quasi vuote, le poche carte rimaste incolumi accuratamente raccolte e legate, tutti i segni, infine, d'un lungo e paziente riordinamento, che, per la sua novità, non le presagiva nulla di buono.
Il cuore della poverina batteva, batteva forte, come se fosse ad ogni tratto per rompersi. Ella non giungeva a intendere le ragioni di quella lunga e molesta fatica; ma indovinava che una assai grave necessità l'avesse consigliata a Lorenzo.
Credete nei presentimenti? Noi sì, e abbiamo dalla nostra intelletti fortissimi; tanto è vero che al mondo c'è di molte cose oscure tuttavia, e non sempre la nuda ragione è norma ragionevole all'animale che pensa. Ora la povera Maria, alla vista di tutti quegli apprestamenti malinconici, sentì una stretta al cuore, che le diceva esser quel giorno uno dei più gravi, forse il più grave, il più triste, di tutta la sua vita!
Corse difilata da Michele; il quale, come la vide giungere con quel piglio risoluto, fece atto di non aver occhi se non per le sue faccende.
– Non mentite, Michele; – disse ella, guardandolo in faccia e costringendolo a guardarla del pari, – voi sapete qualcosa.
– Io nulla, signorina, proprio nulla.
– Nulla! di che?
– Ma… di quello che vorrà dir Lei; – ripigliò impacciato Michele.
– Guardatemi bene in viso, se potete! – soggiunse Maria. – Troppo presto vi siete provato a negare. Stamane c'è qualcosa.
– Stamane? Oh no! che vuole Ella ci abbia ad essere stamane? Di mattina fa un bel dormire per molti, e chi dorme non piglia pesci.
– Suvvia, Michele, non istate a celiare sulle parole. Oggi c'è qualcosa di grave, e Lorenzo ci ha mano. Non mi dite di no; io so tutto.
– O come? – esclamò il servitore, spalancando gli occhi le braccia. – Egli le ha detto?..
– Ah! ci siete caduto?
– Come una bestia! – aggiunse mentalmente Michele. – Maledetta lingua! Ma veda, signorina, io non so niente… cioè… qualcosa ci ha da essere, ma ragazzate, cose da nulla; il signor Lorenzo c'entra come c'entro io, che non c'entro affatto; gliene hanno parlato, ed egli ne ha parlato con me… Ma già, poi, non ne faranno niente… —
E voleva tirare innanzi su questa solfa; ma la signorina era diventata pallida, si sentiva venir meno, e cadeva su d'una scranna, in quella che colla mano tesa gli accennava di smettere quelle sue invenzioni. Qui il povero servitore perde veramente la bussola.
– Si faccia animo, padroncina! Se il signor Lorenzo giunge a risapere che mi son lasciato cavare il segreto di bocca, povero a me! Sono una talpa; anzi peggio; una talpa si sarebbe avveduta di qualche cosa. Animo, padroncina; non mi faccia quegli occhi!.. La cosa non è grave come Ella immagina; neanco il diavolo è così brutto come si dipinge…
– Ditemi tutto, Michele! – gridò la fanciulla, afferrando le mani callose del veterano. – Ditemi tutto, se non volete vedermi morire d'angoscia!
– Oh, per l'anima di… Morir lei! Ecco, le dirò ogni cosa; tanto ho cominciato, e chi ha fatto il male faccia la penitenza.
Così preso l'aire, il buon Michele ci andò proprio di punta, raccontando ogni cosa per filo e per segno a lei che stava ansiosa ad udirlo; come per quella sera medesima tutti i volenterosi avessero giurato di menar le mani, per metter Genova a tumulto, e così riuscir d'aiuto efficace a Livorno, a Napoli e ad altre regioni della penisola, le quali avevano da sollevarsi tutte, per farne una sola e libera famiglia; come una parte dei congiurati dovessero muovere all'assalto dei forti, altri impadronirsi del palazzo Ducale, costringendo le poche soldatesche del presidio ad uscir fuori le mura della città, altri piombar sulla Darsena, e ghermiti i legni da guerra che erano in porto, dar opera sollecita ad una spedizione navale per altre provincie italiane; e il resto in conseguenza. Ma Lorenzo? chiedeva Maria. Lorenzo doveva capitanare un centinaio d'uomini pronti ad ogni sbaraglio, quelli appunto che dovevano tentare il colpo dalla parte del mare, a mala pena i forti principali fossero caduti in mano del popolo; la qual cosa doveva accadere di prima sera, ed essere annunziata da un colpo di cannone dall'alto del forte Sperone, quindi… —
Quindi il discorso di Michele fu interrotto sul più bello da una scampanellata all'uscio di casa.
– Poveri a noi! – gridò il servitore, balzando al suono improvviso. – Questi è il signor Lorenzo. Se egli sa ch'io non ho tenuta la lingua a segno, sono un uomo spacciato. Padroncina, mi raccomando… —
La giovinetta lo raffidò con un gesto, e in quella ch'egli andava ad aprir l'uscio, ella si ridusse nella sua camera da lavoro. Giunta colà, si assise al suo deschetto, nel vano della finestra, e tolse tra mani il suo ricamo; ma la poverina, era cosiffattamente fuori di sè, che non potè mettere un punto, e rimase colla mussolina tra le dita, le braccia prosciolte sulle ginocchia, gli occhi sbarrati, immobile come una statua.
Pochi minuti dopo, Lorenzo entrava nella camera della fanciulla, colle labbra composte a sorriso. Maria non si addiede di quel sorriso, tanto era turbata; ma ben s'avvide Lorenzo del turbamento di lei, e il sorriso col quale s'era studiato d'ingannarla, scomparve d'un subito, cedendo il luogo alla consueta mestizia.
– Maria, – diss'egli avvicinandosi, – oggi sono a pranzo fuori… —
Voleva aggiungere: con l'Assereto; ma non ardì. Al primo vederla, aveva rapidamente, quasi istintivamente, capito che quello non era tempo da mendicar pretesti, sibbene da disporsi a gravi ragionamenti, con schiette ed aperte parole.
– Lo so; – aveva risposto la giovinetta, crollando lievemente il capo e senza alzar gli occhi verso Lorenzo.
– Come?.. sapevate…
– So tutto, io.
– Ah! Michele ha parlato…
– No, non accusate il povero Michele. Ho indovinato, la mercè di questo (e accennava il cuore) che non mi ha ingannata mai. Ditemi ora, Lorenzo, quali sono le vostre speranze? che cosa pensate di fare? —
Il giovine, andato a sedersi su d'una scranna di rincontro alla parete, rimase taciturno guardando il pavimento. La fanciulla non udendo risposta alla sua domanda, incalzò:
– Voi non siete uso a mentire, Lorenzo, fratello mio; vi ho udito sempre a dire la verità, anche se dovesse tornarvi a danno. Parlate dunque; sperate di esser utile alla patria vostra, con ciò che tentate?
– No! – rispose asciuttamente, dopo una breve pausa, il giovine Salvani, senza alzar gli occhi da terra.
– No, voi dite? E allora, perchè tentate? – L'interrogazione della fanciulla, ricisa, diritta, sibilò come uno strale all'orecchio di Lorenzo. Tremò egli, ma non rispose parola, disponendosi a sviare il discorso.
– Non parliamo di me! – disse poscia, – parliamo di voi. Stamane, rassettando le mie carte, ho dovuto aprire la cassettina d'ebano, e leggere il segreto de' vostri natali. Nè avrei dovuto ragionarvene io, sibbene un altro, stasera o dimani; cioè a dire Aloise di Montalto… vostro cugino.
– Che dite voi mai? – proruppe Maria, lasciando cadere il ricamo che aveva tra le mani sospeso.
– Sì, vostro padre era un Montalto. Vostra madre, povera donna, ha molto patito, o Maria. Ella vive; è libera, ora, e padrona di sè; quando conoscerà la sua figliuola da tanti anni perduta, l'amerà, l'amerà! —
La sospensione che s'era fatta nell'animo di Maria alle prime parole di Lorenzo, cessò tutto ad un tratto. Un altro pensiero, più grave, più urgente, le ingombrava lo spirito.