Kitabı oku: «I rossi e i neri, vol. 2», sayfa 24
XXIX
Nè vivere, nè morire.
Aloise giunse alle falde del monte su cui torreggiava la Montalda, alle cinque dopo il meriggio; mezz'ora dopo, era lassù.
Il vecchio Antonio non parve punto meravigliato del suo arrivo. Egli stava ad aspettarlo sul portone della villa, in atto di godersi la frescura del tramonto, cogliendo al varco la gente del vicinato, per scambiar quattro chiacchiere, secondo la costumanza villereccia, prima di ritirarsi.
Ma se Antonio non parve meravigliato, bene guardò di sotto alle folte sopracciglia il suo giovine padrone, in quella che rispettosamente gli faceva di cappello e si sprofondava in inchini; e quelle sue guardate significavano una cura amorevole, una sollecitudine pietosa, che contraffacevano all'umile stato e alla apparente rozzezza del vecchio gastaldo. Per verità, l'Antonio era grandemente mutato, e coloro che lo avevano in pratica avrebbero potuto avvedersene senza fatica. Il taciturno e malinconico abitatore della Montalda era più sciolto di modi, più sereno nel volto; si sarebbe detto, a guardarlo, che ci aveva meno grinze di prima: a sentirlo respirare più liberamente e dir qualche parola più del consueto, si sarebbe preso per un uomo liberato d'un gran peso che aveva sullo stomaco.
Aloise non badò a tutti questi nonnulla, e chiamando col gesto il gastaldo a venirgli da lato, gli domandò per la prima cosa di Lorenzo Salvani.
Egli da due giorni non aveva più pensato all'amico. Il suo dolore era stato così acerbamente tiranno, che non aveva patito ricordanza d'altri dolenti. Perciò egli aveva venduta la Montalda, aveva fatti i suoi ultimi apparecchi, ed era venuto a morire accanto a sua madre, senza pur rammentarsi dell'amico, dell'ospite che abbandonava a sè stesso. Senonchè, postosi in viaggio, gli era pur sovvenuto di Lorenzo, e gli cuoceva di lasciarlo così, mentre forse il povero fuggiasco aveva più che mai bisogno di amici saldi e operosi. Ma, ripensando alla lettera cortese del duca di Feira, Aloise aveva tosto fatto disegno di scrivergli, raccomandando al vecchio gentiluomo d'essere a Lorenzo, al suo avversario d'un giorno, ciò ch'egli non poteva più essergli, protettore fino a quando occorresse, amico per tutta la vita.
In questi pensieri, domandò di Lorenzo al gastaldo. E fu grande la sua maraviglia, allorquando il vecchio gli ebbe detto, che quella istessa mattina erano venuti in due, l'Assereto e il Giuliani, a cercarlo, e poco dopo erano partiti tutti e tre alla volta di Genova.
– Il signor Salvani era molto contento; – aggiunse il gastaldo. – Per la prima volta dacchè egli era quassù, l'ho veduto ridere. E se n'è pigliato una satolla, il povero giovine! Poi, s'è degnato di abbracciarmi, innanzi di andarsene, e mi ha chiesto se non mandassi a dir nulla a Vostra Eccellenza, che egli sarebbe andato a salutare in giornata. Che si ricordi del suo povero Antonio, gli ho risposto io, e della sua Montalda che non lo vede da un pezzo.
– Grazie, mio buon Antonio; tu lo vedi, sono venuto; – disse Aloise, mettendogli amorevolmente una mano sulla spalla. – Orvia, conducimi nelle mie stanze, e va tosto ad aprirmi la cappella.
– E non vuol prender nulla? Vostra Eccellenza sarà stanca.
– No, non ho bisogno di nulla; prima di tutto voglio salutare mia madre. —
Il gastaldo non disse altro di rimando, e lo precedette nel palazzo. Come furono giunti nella camera di Aloise, il vecchio notò che il suo padrone deponeva su d'una mensola una busta che aveva recato sotto la sua spolverina da viaggio.
– Che cos'è questo? armi?
– Sì, – rispose a fior di labbra Aloise, – pei ladri, se vorranno assaggiarne.
– Oh, non vengono ladri quassù, che la farebbero bassa. Antonio dorme da un occhio solo, come ebbe a dirmi una volta il signor Salvani. —
Aloise non aggiunse parola. Il suo pensiero era corso da capo a Lorenzo, e andava chiedendo come mai il fuggiasco avesse potuto così di punto in bianco tornare in città, e quali fossero le novelle del Giuliani e dell'Assereto, che lo avevano racconsolato d'un tratto.
Ora, quello che non sapeva e che non poteva indovinare Aloise, racconteremo noi brevemente, tanto che non gridino al miracolo i nostri lettori. Il miracolo, se miracolo c'era, lo aveva operato il duca di Feira, con una visita all'intendente di Genova e all'avvocato generale. Nulla c'era presso i magistrati che provasse a danno del giovane. Egli era indiziato come uno di coloro che avevano avuto mano nel tentativo; ma dalla istruttoria del processo niente era venuto fuori contro di lui. Certo, se avessero potuto mettergli l'ugne addosso, l'avrebbero fatto; l'avrebbero interrogato minutamente e messo a raffronto cogli altri carcerati. E certo il Salvani, dal canto suo, anche senza il bisogno di quest'ultimo espediente, non avrebbe negato, schietto e generoso com'era, di aver partecipato, e con ogni sua possa, a quella alzata di scudi. Ma poichè non era stato colto, poichè non c'era egli ad accusarsi, nè altri aveva detto nulla di lui, i rappresentanti del governo, i tutori dell'ordine pubblico, non avevano alcuna grave ragione per tener fermo; una in quella vece e fortissima per cedere, vogliam dire la cura che si pigliava di quel giovanotto di nessun conto un uomo di molti milioni, un pezzo grosso, come il signor duca di Feira.
Costava così poco il contentarlo! A farselo amico, un pochino d'arrendevolezza bastava; perchè si sarebbero tenuti sul niego? Siam tutti uomini, dice il proverbio; e anco a non voler dimenticare le sacrosante leggi della giustizia, che non ci hanno a far nulla, gli è posto in sodo fin da' tempi antichissimi che la nostra cortesia si spende assai più facilmente cogli uomini di vaglia, che non coi dappoco. Ora, qui non c'era proprio altro che un atto di cortesia, e il duca di Feira ne francava la spesa. Laonde i gran dignitarii furono solleciti a dirgli che il Salvani poteva liberamente tornare, e il suo nome non essendo per alcun verso venuto fuori, egli non avrebbe avuto altra molestia, da quella infuori che s'era recata di per sè, andando fuori di Genova.
La mattina vegnente Lorenzo Salvani tornava in città, chiamatovi assai più che dall'agevolezza del ritorno, dall'annunzio che Maria, la diletta Maria, non era più in monastero, ma al fianco d'una madre amorosa. Molte cose aveva fatte il duca in un giorno, e collegate per guisa che l'una tirasse l'altra, nè più il nemico avesse tempo al riparo. Egli bene intendeva come fosse pericoloso ferire il primo colpo, senza aver gli altri sicuri; laonde ordinò tutte le parti della sua grande impresa per modo che il giorno della presentazione delle cambiali d'Aloise al banco Teirasca, tutto crollasse ad un tratto il faticoso edifizio dei tristi. La stessa marchesa di Priamar, da lui veduta parecchi giorni innanzi, commossa e vinta dalle argomentazioni semplici, affettuose, di quel gentiluomo a cui la canizie consentiva lo schietto linguaggio del vero, non era andata, per suo consiglio, a trarre la fanciulla dal monastero se non all'ultimo istante, quando fosse per cominciare quella grande rovina che aveva ad involgere il gesuita e il discepolo, già inebbriati dai fumi del vicino trionfo.
Una cosa non aveva fatta; ma qui per l'appunto si chiariva com'egli fosse avveduto capitano, degno di aver raccolte in pugno le fila, già tese dall'animoso Giuliani. Egli non s'era dato pensiero del testamento del nonno d'Aloise; non era andato dal Vitali per guastare quell'altro negozio al Gallegos. E tuttavia egli avrebbe potuto andarvi, e senza mestieri d'introduttori; perchè il vecchio banchiere lo conosceva da lunga mano, ed ei gli sarebbe apparso come un fantasma, tornato dai morti regni a destargli in cuore un antico rimorso. Pure, non lo fece; quello era il lato debole del nemico; ma appunto perchè era il più debole era anche il più vigilato. Già una volta il fiero gesuita era stato colpito da quella banda, ed è noto com'egli avesse saputo pigliarsi la sua brava rivincita sui notturni visitatori pietosi della sua vittima. Il duca però si rattenne da quell'attacco, che era pericoloso ed inutile. Egli non aveva mestieri di stravincere; salvare Aloise dall'infamia, Lorenzo e Maria dalla disperazione; quello era il gran punto; il resto sarebbe venuto da sè; o non sarebbe venuto, e non ci sarebbe stato niente di male.
Aloise, del resto, non avrebbe mai fatto l'onore d'un pensiero alle ricchezze del nonno. Vero cavaliere antico, smarrito in questi bassi tempi distruttori d'ogni alto carattere, l'oro non disprezzava, nè amava. Qual fosse la sua cura, il suo struggimento, sappiamo; ora, se egli avesse avuti in balìa tutti i tesori, i regni tutti della terra, li avrebbe dati di grand'animo tutti per un bacio di quella donna che gli aveva tolta la pace del cuore. Privo di quel bacio, perduta ogni speranza, egli se ne andava tacitamente, e diremmo quasi senza rammarico, per quella china dove sono iti già tanti generosi pagatori d'un conto fallato.
– Povero Lorenzo! – andava egli dicendo tra sè, già insensibile a' suoi dolori, mentre scendeva per andare alla tomba di sua madre. – Egli almeno sarà felice, se io non son tale. Non sono? E perchè? Non me ne vado, io? – Tutto era silenzio e buio nella cappella, quando egli vi scese; ma il luogo gli era noto, ed egli corse, volò senza esitanza verso uno dei lati, dove un occhio avvezzo all'oscurità avrebbe potuto veder biancheggiare una lapide sepolcrale. Antonio, che lo aveva accompagnato fino all'uscio della sagrestia, diè tosto mano ad accendere una lampada che pendeva dall'arco dell'altare. Fornita questa bisogna, alla luce che egli stesso aveva fatta in quel mesto recinto, rimase immobile a contemplare il padrone, che era inginocchiato davanti alla tomba materna, colla fronte appoggiata sul marmo. Aloise, senza pure voltarsi a lui, gli accennò col gesto di andarsene, e il vecchio, sebbene a malincuore, e sospirando, si mosse per obbedirlo.
La cappella dei Montalto era di poca ampiezza e assai scarsa d'ornamenti, come sogliono essere tutti questi edifizi annessi alle villeggiature signorili dei nostri antichi, con un solo altare nel fondo, e due nicchie sui lati. Una di queste era vuota; nell'altra sorgeva un monumento di marmo, sormontato da un angelo in atto di preghiera. Sull'imbasamento, dintornato da semplici riquadrature, si leggeva scolpita questa iscrizione:
QUI DOVE ELLA SI SPENSE IGNOTA AL MONDO NON AL DOLORE IL GIORNO XX DI NOVEMBRE DEL MDCCCLIII RIPOSA NELLA PACE DEL SEPOLCRO LA NOBIL DONNA EUGENIA DI MONTALTO NATA DEI VITALI UNICO AMORE PERENNE MEMORIA DEL SUO POVERO FIGLIO ALOISE.
Unico amore! Aloise, che, come avranno già inteso i lettori, era l'autore dell'epigrafe, aveva proprio scritto così. Ed era vero, diffatti, allorquando la sua angelica madre era scesa nel sepolcro; perchè il giovine era stato bensì colpito dalla sovrumana bellezza di Ginevra, e così fieramente da non poter più accogliere l'immagine di un'altra donna nel cuore, ma certo non pensava allora che il giorno sarebbe venuto, in cui egli, avvicinatosi a quella divina, l'avrebbe fatta arbitra della sua esistenza. Ma se sua madre morta non era più l'unico amore, ben era durata perenne memoria nell'anima sconsolata del figlio, e presso la tomba materna egli veniva a metter l'ultimo lamento del suo cuore ferito.
Ciò ch'egli disse colà in due ore di sommesso colloquio coll'estinta adorata, non ci attenteremo noi di ripetere. I ragionamenti d'un figlio con sua madre, come quelli d'una madre col suo bambino allorchè questi incomincia a balbettare le sue prime sensazioni, hanno alcun che di teneramente infantile, che è sublime nella intimità, ma che perde ogni suo pregio ove si commetta ad orecchi profani.
In quel suo colloquio, Aloise riandava di certo quei giorni che fanciulletto aveva passati daccanto a lei; com'ella in lui solo, nelle sue infantili carezze, paresse trovar conforto ad ascose pene, sollievo a taciuti rammarichi. Sempre accigliato, burbero o noncurante il padre; ella sempre buona, sempre soave, sempre tenera, sempre pari a sè stessa; più soave, più buona, più tenera quando il padre fu morto, quasi paresse amar meglio, darsi più liberamente all'amore del figlio. Povera madre! Ella avvezza a vederlo ogni giorno, a invigilarne con occhio del pari benevolo gli studi e i trastulli, aveva un giorno veduta la necessità di ritrarsi in quella solitudine campestre, perchè il suo vivere ristretto consentisse al marchesino di Montalto una certa agiatezza patrizia. Povera madre! Come s'era ella adoperata, quante amorose e sapienti fatiche (sapienti appunto perchè amorose) aveva ella durate per farlo uomo, veramente uomo, per trasfondere in lui la severa alterezza della sua anima, la sensitiva bontà del suo cuore!
Ah il cuore! triste dono! O non sarebbe meglio averne l'apparenza soltanto? Non basterebbe all'uomo, per vivere lodato, riverito ed amato nel civile consorzio, la benevolenza misurata, la soavità tranquilla, la cortesia riguardosa, e tutto il cortéo delle mezzane virtù, che hanno bensì il nome dal lago del cuore, ma in verità derivano l'origine dalle scarse vene del raziocinio? L'uomo, così privilegiato dalla natura, riuscirebbe amabile senza danno della sua esistenza, godrebbe i frutti della sua forza senza gli smarrimenti d'uno spirito che si va logorando nell'attrito. E di tal fatta son molti, i cui pregi vanno assai facilmente per le bocche di tutti; uomini e donne la cui bontà discende da un sillogismo, la cui gentilezza sgocciola da un sorite, i cui sacrifizi, quando essi ne fanno di tali, si sprigionano, meditati a lungo, dalle corna d'un dilemma. Ma costoro, dirà taluno, non operano le grandi cose nel mondo. Che importa? Per uno, tra cento di quei grandi infelici, che meriterà una statua dai posteri, novantanove spendono vanamente il loro affetto nelle oscure battaglie della vita privata, e muoiono senza compenso di gratitudine. Qui, poi, è da vedersi se la statua sia davvero un compenso, e se l'ammirazione dei superstiti valga la felicità non ottenuta vivendo. Che importa egli chiamarsi Francesco Petrarca, Torquato Tasso, Giacomo Leopardi, e durare estinti sugli altari della fama, se vivi s'è patito dieci volte più della comune degli uomini? La gloria è come una vetta solitaria che tutti vedono e ammirano da lontano; ma lassù durano eterne le nevi; i fianchi ignudi si sfranano, corrosi dall'acque, flagellati dal fulmine.
Il colloquio d'Aloise con sua madre era finito. Baciò, ribaciò commosso quel marmo che la contendeva a' suoi occhi; tese le palme, quasi implorando una benedizione; mormorò il saluto di chi promette tornare tra breve; scoccò un ultimo bacio in quell'aria che gli pareva tutta piena di lei, e s'involò rapidamente dalla chiesuola.
Giunto a piè della scala interna che metteva al primo piano del palazzo, gli venne veduto Antonio che se ne stava accoccolato sul primo gradino, coi gomiti puntellati sulle ginocchia e la fronte sulle palme, in atto di meditazione.
– Che fai tu qui? – disse Aloise.
– Aspettavo; – rispose il vecchio gastaldo, togliendosi prontamente da quella postura. – Vostra Eccellenza avrà bisogno di qualche cosa…
– Non ho bisogno di nulla; vattene! —
Così disse asciuttamente Aloise; ma ravvedutosi tosto, pose una mano sul braccio del servo, che mogio mogio si muoveva per obbedirlo, e con accento carezzevole soggiunse:
– Va, buon Antonio, va a riposarti. È tuo costume di alzarti sempre per tempo. E poi, domattina, avrò bisogno di te. —
Dicendo queste ultime parole, non si potè trattenere dal porgli le braccia al collo. Il vecchio gastaldo diede in uno scoppio di pianto.
– E adesso, che hai? che cosa sono queste lagrime?
– Nulla, nulla, padrone! – rispose tra i singhiozzi il poveretto. – Sono vecchio, e la tristezza dei giovani mi fa male al cuore.
– Non temere; – disse Aloise, a cui quelle schiette parole facevano tenerezza; – la Montalda mi farà passare ogni cosa.
– Che Iddio ascolti Vostra Eccellenza! – soggiunse Antonio, rasciugandosi gli occhi col dosso delle sue ruvide mani.
Erano le nove di sera, quando il marchese di Montalto potè finalmente essere solo. Ridottosi nel suo quartierino, richiuse l'uscio del salotto dietro di sè, ed entrò nello studio, che precedeva la sua camera da letto. Il povero giovane era travagliato dalla febbre, a lui derivata dalle ansietà, dalle cure svariate, dai contrasti di quella negra giornata. Dal mattino egli non aveva preso alcun ristoro, e si sentiva riardere le fauci. Tracannò un bicchier d'acqua, e gli parve di sentirsi meglio; passeggiò un tratto nella camera, ventilò sottilmente il pro e il contro di ciò che stava per fare, e una serenità solenne gli si dipinse sul volto.
Andò allora alla mensola su cui era posata la busta che aveva eccitata l'attenzione del vecchio gastaldo, e aperto quell'astuccio ne cavò due pistole. Erano due armi stupende, uscite dalla riputata officina del Lepage, e da lui comperate nella sua gita a Parigi. Sorrise amaramente nell'atto di recarsele in mano e di sperimentarne il grilletto. La marchesa Ginevra si era degnata di ammirare quelle armi, e colle sue dita affusolate ne avea tocchi i congegni.
Caricò le sue armi colla tranquilla accuratezza di un padrino di duellanti, le depose quindi sulla scrivania, dinanzi la quale risedette, per vergare una lettera. Ed ecco ciò che gli uscì dalla penna.
«Mio ottimo Enrico,
«Perdonami il dolore che ti arreco; quando tu riceverai questa lettera, io avrò finito di vivere. Non ho saputo resistere all'affanno, sopportare pazientemente una vita nella quale ogni giorno è un ricordo, ogni ora, uno struggimento delle speranze perdute. È egli bene o mal fatto l'uccidersi? Siamo noi i padroni della nostra esistenza? Io credo di no; se il suicidio non è per avventura un delitto, è sempre una viltà, quando non è una follia. Ma tu non porterai, spero, un così aspro giudizio di me; ho troppo patito, non ne posso più, mi sottraggo ad una pena che supera le mie forze.
«Non mi difendere, se udrai lacerar la mia fama; è questa l'ultima grazia che io domando alla tua schietta e leale amicizia. I soliti cianciatori diranno che io mi sono ucciso pei debiti. L'accusa volgare mi duole; ma meglio così; credano costoro e facciano credere altrui ciò che loro talenta.
«A te, amico del cuore, dovrei dire la verità tutta quanta. Ma tu non hai bisogno di una confessione, tu che hai vissuto tanti anni con me. La carta è infedele. Chi sa dov'ella andrà, sotto quali occhi sarà costretta a cadere, se pure ti giungerà inviolata?
«Addio, mio ottimo Enrico. Qui, sul punto di morire, sento di averti amato come e quanto è possibile amare un fratello d'elezione. Stringi la mano per me a Lorenzo Salvani, a Giorgio Assereto, a Carlo Giuliani, nobili giovani coi quali mi sarà caro che tu parli qualche volta di me. Non mi dimenticate; è dolce il vivere nella memoria dei buoni. Ad altri non dir nulla, io non lascio un ricordo, una parola per altri.
«Ah no; dimenticavo un nome. Brutta cosa l'essere ingrati in un'ora solenne come questa! Mando un saluto al duca di Feira, a quell'uomo di cuore che mi ha stesa la mano, che m'ha sovvenuto generosamente in una trista congiuntura. Digli che muoio benedicendolo, poichè a lui sono debitore di poter morire onorato.
«Addio, fratello; desidero d'esser sepolto vicino a mia madre. Tutte le cose mie (ben poco per verità) al mio vecchio Antonio; a te un bacio e l'ultimo pensiero del tuo povero amico
«ALOISE.»
Ciò scritto, piegò la lettera; la chiuse in una sopraccarta su cui vergò il nome del marchese Pietrasanta; si alzò da sedere, levò gli occhi al cielo, e si fece scorrere la sinistra mano sulla fronte, quasi volesse cacciarne un'immagine, un pensiero molesto; indi stese la destra per impugnar la pistola.
A quell'atto, l'uscio della camera da letto, che era socchiuso, si aperse, ed una voce severa disse ad Aloise, che s'era voltato rapidamente all'improvviso rumore:
– Fermatevi, signor di Montalto; voi non avete il diritto di uccidervi. —
XXX
Come le armi di Bonaventura servissero al duca di Feira
Si turbò grandemente a quelle parole Aloise, e al turbamento tenne dietro un alto stupore, allorquando vide apparire sulla soglia un uomo dal nobile aspetto e dai capegli bianchi, nel quale riconobbe tosto il duca di Feira.
In qual modo era egli penetrato colà? Ben ricordava Aloise come la sua camera da letto avesse una uscita, che metteva ad altre camere di servizio. Ma come aveva potuto quell'uomo disporre ogni cosa per modo da giungergli addosso improvviso, nel punto che egli stava per abbandonare la vita? Certo il duca di Feira, da quel giorno padrone della Montalda, era venuto prima di lui al castello. Ma perchè Antonio aveva taciuto? Come si era fatto suo complice? E perchè poi quella persecuzione? Come aveva potuto il vecchio gentiluomo trapelare una deliberazione la quale egli, Aloise, non aveva detta ad anima viva?
Tutte queste dimande si affacciarono, si succedettero colla rapidità del lampo, nella sua mente turbata.
Ma il duca di Feira gli aveva detto una grave parola. – «Voi non avete il diritto di uccidervi».
Ora a questo bisognava rispondere. Ed Aloise, trascorsi pochi istanti, ne' quali gli avvenne di pensare tutto ciò che abbiamo tentato di significare a parole, si fece a sostenere l'assalto.
– Perchè? – domandò egli, con piglio tra curioso ed altero.
– Perchè vi amo; – rispose il vecchio gentiluomo, facendo un passo innanzi, e guardando Aloise con espressione di malinconico affetto; – perchè la vostra vita è necessaria alla mia.
– Per qual diritto? – gli disse di rimando il giovine, mentre dava indietro d'un passo, quasi volesse anche col gesto respingere quella dichiarazione amorevole.
– Lo saprete tra poco. —
Così dicendo, il duca di Feira si fece pallido in volto, come chi sia per uscir fuori dei sensi. In pari tempo sentì mancarsi le forze, e s'aggrappò vacillante alla spalliera d'una scranna, su cui venne, con un supremo sforzo, a cadere.
Un senso di alta pietà invase il cuore del giovine.
– Signor duca, che avete? – gridò egli, avvicinandosi, in atto di porgergli aiuto.
– Nulla, nulla! – rispose il gentiluomo, tentando di padroneggiarsi. – Sono vecchio, e ritorno un fanciullo. Ma che volete? Veder giovani baldi come voi, sul fior dell'età, della bellezza, della forza, prepararsi così tranquillamente, freddamente, a morire… E perchè poi? per una donna che non vi ama. —
Aloise diede un sobbalzo a quel colpo repentino, e guardò il duca di Feira con piglio sdegnato.
– Perdonate, signor di Montalto, perdonate! – soggiunse prontamente il duca. – I miei capelli bianchi non mi daranno essi alcun diritto presso di voi? Ero forte; son tale ancora per molti; dinanzi a voi mi sento debole. Ne siete stato testimone voi stesso. Io non ho potuto vedervi da vicino, parlarvi, udire la vostra voce, senza sentirmi mancare. Perdonate una schietta parola a chi vi ama, a chi non ama altri che voi! E non vi paia strano. È dei vecchi lo amare i giovani. Che altro ameremmo noi, per quale altra cosa ci terremmo aggrappati alla vita, noi logori, infiacchiti, abbandonati da tante cose care, e perfino dalla speranza, se non ci volgessimo a voi, freschi di giovinezza, ricchi di forza, pieni la mente di tutte le grandi promesse del futuro, del futuro che è vostro, sol che sappiate andargli incontro animosi? In voi, giovani, riviviamo talvolta, in voi vediamo riflessi i nostri antichi dolori, in voi ripetuti i nostri disinganni, le nostre agonie. Perchè non cercheremmo di mettere la nostra esperienza a servizio della vostra spensierata fiducia? Perchè non ci adopreremmo a farvi più lieti, che a noi non sia stato consentito di essere? Voi mi ascoltate; è buon segno. Io ne tolgo argomento a rivolgervi una preghiera qual più vorrete, d'amico, di fratello, o di padre. Date a me quelle armi che sono sulla vostra scrivania.
Il giovine titubò un tratto, scosso com'era da quelle affettuose parole. Ma tornando alla coscienza del suo stato, invece di rispondere alla preghiera del vecchio, così gli parlò con accento tranquillo ma fermo:
– Signor duca, voi avete sorpreso il mio segreto, e questo, consentite che io ve lo dica, è male. V'hanno propositi nella nostra vita, v'hanno atti, dei quali dobbiamo render ragione soltanto a Dio, e gli uomini, poniamo anche i più autorevoli, i più strettamente cari, non hanno da entrarvi. Mi credete voi un fanciullo, che possa mutare consiglio per opera altri, e solo perchè ad un ignoto è venuto in mente di dirgli: tu non farai la tal cosa?
– No, non temete! – rispose solennemente il duca. – Datemi quelle armi; io vi giuro sulla mia fede di gentiluomo che non mi opporrò alla vostra deliberazione, qualunque ella sia, quando m'avrete ascoltato. Vi chiedo assai poco, qualche ora di tempo; e voi dovete concedermela, poichè vi amo. Non mi amate voi pure? In quella lettera che sta suggellata su quella tavola, non c'è egli un ricordo per me?
– Come lo sapete voi? – chiese attonito Aloise.
– L'indovino. Voi avete un'anima nobile. Potevo io credere che avreste abbandonato la vita, senza mandare un saluto all'uomo che ha avuta la fortuna di rendervi un servigio? Oh, non mi dite nulla intorno a ciò; della vostra gratitudine, se pure ciò che ho fatto ne franca la spesa, vorrei ben altra testimonianza che vane parole. Siatene certo, io non v'ho accennato ora quel tanto che ho operato per voi, se non perchè quelle pistole sono ancor là, sebbene io ve le abbia già chieste due volte, e perchè ho bisogno di tutto per trattenervi, per richiamarvi alla vita. —
Aloise crollò lievemente il capo, e un mesto sorriso gli sfiorò le labbra, a quelle parole del duca.
– Eccovi le mie pistole, – diss'egli; – me le restituirete voi, quando vi avrò udito, quando vi avrò detto: amico, non mi sento la forza di vivere? —
Il vecchio gentiluomo gli rispose mettendosi una mano sul cuore, e, tolte le armi dalle mani di Aloise, le ripose nella busta.
– Ora aspettatemi; – soggiunse; – torno subito a voi. —
Ciò detto, si allontanò, colla busta tra mani, per quell'uscio medesimo dond'era venuto.
Rimasto solo nello studio, Aloise si lasciò cadere sfinito sulla scranna, coi gomiti sull'orlo della scrivania, la fronte nelle palme, in atto di profondo abbattimento. La novità improvvisa di quella apparizione, la stranezza di quel colloquio, la vergogna dell'essere stato còlto in quel punto, come un colpevole sull'atto di commettere un fallo, lo avevano fieramente inasprito. Le parole amorevoli dello straniero, le sue preghiere, quella sua aria misteriosa che gli prometteva inaspettate rivelazioni, avevano mutato quella irritazione in un turbamento indicibile. Nella sua mente era un tumulto di pensieri, un agitarsi confuso di dubbi, tra cui la sua ragione si smarriva. Chi è costui? Che vuole da me? Per qual modo, con quale disegno, viene egli a piantarsi tra me e il mio destino? Tutte queste dimande di già le avea volte e rivolte nell'animo, a mala pena quell'uomo gli era apparso dinanzi. E le ripeteva tuttavia, irato contro sè medesimo di non aver saputo metterle fuori, per flagellarne quel turbatore de' suoi momenti supremi. Diffatti, in quel lungo dialogo, così aspramente teso dal canto suo, non s'era detto ancor nulla; Aloise non aveva nulla capito. Il duca di Feira aveva signoreggiata la conversazione, l'aveva avviata, condotta, rigirata a suo modo. E adesso quali novità gli preparava? Qual era, e di qual fatta, l'arcano che doveva venir fuori, e da cui lo straniero si riprometteva pur tanto sull'animo suo?
Poco stante, siccome aveva promesso, tornò il duca di Feira. Egli aveva lasciata la busta delle pistole, e, in cambio di quella, teneva tra le mani un libro, che andò a deporre sulla scrivania, sotto gli occhi di Aloise.
Era un grosso volume, legato in cartapecora. La legatura non doveva essere antica, poichè la coperta era rigida e tesa; ma il colore giallastro, la superficie levigata, oleosa, lucente, dimostravano l'uso assiduo che doveva aver fatto di quel libro il suo possessore.
Aloise guardò trasognato il volume, e dal volume alzò gli occhi a guardare il duca di Feira, in atto d'interrogazione. A prima giunta aveva pensato che il duca volesse pigliarsi giuoco di lui; ma il volto del vecchio gentiluomo era così severo, i suoi sguardi si volgevano con tanta sicurezza ne' suoi, che il sospetto gli uscì tosto di mente.
– Che è ciò? – si fece egli allora a domandargli.
– Leggete, signor di Montalto; vedrete qui dentro tal cosa che non aspettavate di certo. —
Così disse il duca di Feira con accento malinconico. Una nube passò dinanzi agli occhi del giovane, e il cuore gli si strinse sgomentito. Là dentro, era dunque alcun che di grave per lui? Il suo destino riposava in quelle pagine chiuse? Quali angosce inattese gli serbava ancora la vita?
Stette alcuni istanti perplesso, guardando il libro e non osando porvi mano. Quel giovine animoso che poco dianzi stava per afferrare una pistola e voltarne la canna omicida alle tempie, era investito da un arcano terrore alla vista di quel libro chiuso. Ardimentoso al cospetto della morte che aveva meditata, che egli cercava, si sentiva debole, inerme, contro l'ignoto, che inatteso era venuto a cercarlo.
Finalmente, con mano peritosa, sollevò la coperta, e nell'alto del foglio di guardia lesse queste parole manoscritte: «__Ex libris P. Bonaventurae Gallegos, e Societate Jesu__.» Il nome del fiero gesuita, che aveva avuta tanta parte nella sua vita dolorosa, lo scosse. Voltò rapidamente la guardia, e corse cogli occhi al frontispizio. __S. Augustini Episcopi Hipponensis, Opera omnia__. Così era stampato, in caratteri rossi e neri, giusta il costume di tre secoli addietro. Il numero d'ordine del tomo era il sedicesimo, ma scritto a mano, in lettere romane, accanto al numero stampato, che si vedeva cancellato con alcuni tratti penna.
Aloise si fece da capo ad interrogare collo sguardo il duca di Feira. Il volto del vecchio gentiluomo era dipinto di mestizia; gli occhi suoi si posavano malinconicamente sul giovine, in atto di compassione profonda. Diffatti, il duca di Feira pensava in quel punto alle acerbe trafitture che quel libro avrebbe recato al cuore d'Aloise. Ma egli era costretto ad operare in quel modo; il rimedio era amaro, mia era il solo da cui potesse ripromettersi ancora la salvezza del suo giovine amico.