Kitabı oku: «I rossi e i neri, vol. 2», sayfa 26
A questa lettera tenevano dietro altre parecchie, dal 1851 al 1855, nelle quali si parlava poco o punto di Aloise. Qua e là si narrava in quella vece di alcune persecuzioni mascoline, corteggiamenti spietati, e molestie di quella fatta, a cui una donna giovine e bella è sempre esposta nell'umano consorzio. Ginevra s'indispettiva; ma in fondo in fondo aveva gusto a raccontarle. E questo s'intende; che l'incenso, sia pur del peggiore, dà sempre buon fumo agli altari. A noi, che raccontiamo, venne udita una gentildonna, egregia per bellezza e per senno, la quale non sapeva dolersi d'una frase di troppo libera ammirazione che l'aveva, non salutata, flagellata, mentr'ella passava per via. «Certo, gli è un villano; ma in fine, che cosa mi ha detto? O non sarebbe peggio, se m'avesse trovata spiacente?»
Tratto tratto, nell'epistolario della bella Ginevra si riscontrava il nome di Aloise. La poca varietà delle consuetudini genovesi, il doversi raggirare mai sempre nella cerchia ristretta della vita patrizia, tiravano in campo necessariamente quel nome; ma egli ci era ricordato, bisogna pur dirlo, a testimonianza d'onore.
Tutti pregiavano il Montalto, siccome abbiam detto, uomini e donne, sciocchi e saputi; che più? lo stesso Antoniotto, il senatore, il gran diplomatico dei neri, lo aveva per un giovane di vaglia, del quale si sarebbe potuto far molto. E le sue parole, ci s'intende, si ficcavano anch'esse nell'epistolario della bella marchesa.
Una nota del copista, sotto la data del dicembre 1856, rincalzava il giudizio del nostro senatore. Lo stesso Bonaventura vedeva l'utilità di tirare quel giovinotto dalla parte loro, anche per la ragione della eredità del Vitali. Ma come venirne a capo? L'arguto occhio del gesuita aveva còlto, indovinato, attraverso i nonnulla di quel carteggio donnesco, un affetto profondo del giovine; la sua penna aveva tosto affermata, con una frase asciutta ed imperiosa, la necessità di cavarne profitto.
«Avvicinare Aloise di Montalto a Ginevra Torre Vivaldi; egli è una forza che bisognerà far nostra, o distruggere.»
Un brivido corse per l'ossa ad Aloise; quelle parole balenarono a' suoi occhi come un solco di fuoco per una notte tempestosa, e in quella luce improvvisa gli si rischiarò il suo passato. Colà, dove egli aveva creduto di vedere la mano del destino, era in quella vece la mano di Bonaventura Gallegos, che annodava le fila.
Divorò, più che non leggesse, le pagine susseguenti. Certamente doveva esserci una lettera intorno alla festa da ballo, in cui per la prima volta egli s'era avvicinato a Ginevra; gli la sentiva vicina, e con essa un nugolo di dolorose rivelazioni. Vide a mala pena un cenno dei teatri; sorvolò alcune minuzie di conversazione; notò un breve racconto del suo duello con Lorenzo Salvani, e giunse finalmente a quella pagina desiderata e temuta.
La lettera era lunga, assai lunga, tutta piacevolezze, tutta particolari intorno alle dame, ai cavalieri, alle abbigliature, ai casi svariati, ai cento nonnulla, graziosi o ridicoli, di quella splendida festa che aveva chiusa nel palazzo Vivaldi la stagione invernale. Costretta dalla sua condizione di padrona di casa, Ginevra aveva saputo, veduto ogni cosa più lieve, e ciò che aveva veduto e saputo raccontava partitamente all'amica, non dimenticando nulla, nemmeno il tacco del piccolo Riario, che s'era staccato nel fervor delle danze. Tutta la lettera era un chiacchierìo, un cinguettìo, uno scoppio di risa. L'amaro, quel che Aloise cercava, era in fondo.
«… Anche il Montalto, il contegnoso, l'altero Montalto, è venuto alla nostra festa. Egli era assai pallido, forse a cagione della ferita che ha toccata di recente in duello. Ma debbo io dirtelo? Egli m'è parso da meno della sua gran fama; impacciato, non disinvolto; più timido a gran pezza che altero. Se gli altri tutti, come sembra, lo vedono diverso, tanto meglio per lui; a me, forse per la ragione che l'hanno troppo vantato, non ha fatto gran senso. Del resto, un compito cavaliere, quantunque balli maluccio…»
Seguiva, scritta nel giugno del 1857, la lettera dalla campagna, che i nostri lettori conoscono da capo a fondo, avendola noi riferita, come una primizia del carteggio, allorquando ci occorse di chiarire come e perchè la marchesa Ginevra domandasse ai suoi ospiti un cenno di Goffredo Rudel e di Percivalle Doria. Se l'hanno letta, ricorderanno che, dopo una delle sue solite sfuriate contro i signori uomini, la bella Ginevra dagli occhi verdi narrava all'amica di Francia come il Montalto, tornato parecchie volte in casa sua, amorevolmente accolto, festeggiato, accarezzato dal marchese Antoniotto, seguitasse a fare il malinconico, e come ella avesse finalmente scoperto il suo segreto, vogliamo dire la fiamma che egli nutriva per lei. Quell'amore non l'aveva commossa. La lettera, come è noto, finiva con queste parole: «Scriva a suo talento il signorino, egli pure, ed affoghi nella consuetudine di tutti gli uomini suoi pari. Ahimè, mia bellissima! non ci sono creature perfette quaggiù; salvo te, s'intende, salvo la prediletta, la lontana dagli occhi, ma non dal cuor di Ginevra.»
Pervenuto a questo punto della lettura, Aloise si fermò, chè gli si offuscava la vista. Il povero giovine sentì come uno schianto al cuore, e le ciglia gli si inondarono di lagrime.
Il duca di Feira, che stava immobile al suo posto cogli occhi intenti su lui, si alzò per recargli conforto; ma egli, udendo il vecchio gentiluomo accostarsi, con un gesto concitato lo trattenne.
– Perdonate, – gli disse, in quella che si tergeva le lagrime, – perdonate un atto di debolezza a chi legge la sua sentenza. Vedete? – soggiunse poscia, svolgendo un'altra pagina del volume. – Ci sono ancora due lettere, e sarà tutto finito. —
Il vecchio gentiluomo non disse parola; ma rimase in piedi, poco distante da Aloise, ben vedendo che la crisi era vicina.
Intanto il giovine, con un pugno stretto, puntellato sulla scrivania, una mano aggrappata al seno, quasi volesse lacerarlo, e mormorando rotte parole di amarezza ineffabile, ripigliò la lettura.
La prima delle due lettere con cui si chiudeva il carteggio, era breve. In que' pochi versi era annunziato il viaggio imminente dei Torre Vivaldi a Parigi. «Volevo farti una improvvisata (diceva la marchesa) ma non mi riesce, poichè il signor di Montalto giungerà a Parigi di questi giorni, e Antoniotto ha voluto dargli una commendatizia per tuo marito. Or dunque, sappilo da me, innanzi che venga a dirtelo il marchese di Montalto; tra quindici giorni, a Dio piacendo, verrò a salutarti. Rimarrò un mese sulle rive della Senna, come si dice poeticamente, e vicino a te, il che è più poetico ancora e più grato. Eccotelo dunque, mentre starai aspettando il mio arrivo, eccotelo dunque, il Montalto, che ti premeva pur tanto. Vedrai questo __lion__ genovese dalla criniera arruffata, e son certa che colle tue grazie verrai a capo d'ammansarlo, e lo renderai più piacevole; che in verità non è tale gran fatto, almeno per me. E tu stessa, chi sa? potresti anche far come tanti, come quasi tutti qui in Genova, trovarlo grazioso ed amabile…»
Ora, qual sembrasse Aloise alla graziosa viscontessa di Roche Huart, i nostri lettori già sanno. A lei che d'uomini intendeva un tantino, era parso perfetto. Ciò forse era troppo; la Ginevra, dal canto suo, non aveva voluto ammetterne la minima parte. Ed era naturale; che ad intendere un cuore occorre aver cuore; non troppo, s'intende, nè aperto a troppi; ma tanto almeno da sentire nei proprii i dolori altrui, e da riconoscere per via di somiglianza le più arcane sottigliezze dell'affetto.
La bella Ginevra dagli occhi verdi non aveva dunque un briciolino di cuore? Al suo nascere, come a quello d'una principessa da leggenda, aveva assistito una fata benigna, che le aveva dato la bellezza, l'ingegno, la ricchezza, la nobiltà, tutte le grazie, insomma, e tutti i pregi che adornano la creatura; ma, fosse dimenticanza, o deliberato proposito, non le aveva altrimenti dato quel misto di sensi soavi che la nostra lingua ha così bene compendiato in quella sola parola? Ardua questione! In ogni cosa umana è da badare alla fine. Per intanto veniamo allo scritto. Ecco l'ultima lettera, che recava la data del 30 settembre, cioè a dire di quindici giorni innanzi.
«Sono finalmente a casa mia, dopo due mesi d'assenza, e ti confesso che ci sto bene. Come dopo una notte di festa si sente il piacere di rannicchiarsi sotto le coltri, io provo ora la dolcezza del riposo. Ti parrà ingratitudine, questa; ma togliti questo pensiero dal capo, mia bella Onorina, che io ho trovata più bella, più cara, più gentile, che mai; non sono ingrata alla tua amicizia, sono stanca degli ultimi trabalzamenti da Parigi a Berlino, da Berlino a Monaco, da Monaco a Venezia. Se quei due mesi li avessi passati tutti e due presso a te, se almeno si fosse potuto variar l'ordine loro, così che io avessi avuto il dolce alla fine!.. Ma no, s'è finito colla Germania, e co' suoi uomini di Stato, tutta gente cerimoniosa e stecchita che solo a vederli ti mettono i brividi.
«Ad Antoniotto, come puoi immaginarti, piacquero, e se li ha goduti per due. Ma, tu lo sai, io non amo la politica, nè la diplomazia che le fa il sordino. Tutt'al più, mi rassegnerei ad essere ambasciatrice di Sardegna alla corte delle Tuileries, ma lasciando a mio marito la cura di leggere i dispacci e di farli leggere, di tener d'occhio il corso degli eventi e di ragguagliarne i ministri. Gran bella cosa, questa ragione di Stato! I nostri mariti dicono che noi donne non ne intendiamo un ette; figùrati! Dire una cosa e pensarne un'altra, poi farne o lasciarne fare un'altra ancora, che non s'era detta nè pensata; questo è il grande arcano della nuova scienza cabalistica!
«Basta, veniamo all'essenziale. Sono a Genova, e in villeggiatura per ora non fo conto di tornare. Antoniotto ha da sbrigar qui certe sue faccende; io ci ho le mie compere di Parigi da mettere in ordine; insomma, si rimane in città. A Quinto andremo forse per due o tre settimane, prima che finisca l'ottobre. Intanto ho ripigliato le mie consuetudini, e ricevo le mie solite visite, cioè a dire quelle dei pochi che non sono in campagna, o fuori paese. Il De Salvi, gran ciambellano, il De Carli, grande oratore, anzi Demostene, innanzi la cura dei sassolini, mi sono rimasti fedeli. Io li chiamo i Propilei della mia Acropoli: un po' sciupati dal tempo, sgretolati, non belli a vedersi, ma saldi. Dei giovani, ho spesso il Riario, e il Cigàla; il Pietrasanta viene pur qualche volta, quando non è dai Monterosso, miei vicini di villeggiatura, come sai. Anche il Montalto è di sovente da noi, sempre lo stesso… Ma già, che farci? Un nostro proverbio dice: chi l'ha nell'ossa lo porta nella fossa.
«A dirtela schietta, egli mi diventa insoffribile, con quella sua aria sempre rannuvolata, con quelle sue torbide occhiate, con que' suoi tenebrosi silenzi. Che s'argomenta egli di fare? Mi ama… Roba vecchia. E sia, mi ami a sua posta; ma io non vedo il bisogno di far tante bambinerie. Tu lo hai veduto, e non te ne dico altro. Certo, egli in cuor suo m'incolpa. Dio sa di quanti misfatti; io sarò una ingrata, una tiranna, una girandola, una civettuola. Nota che non gli ho mai detto parola che gli desse diritto di accusarmi. L'ho tollerato, ecco il male; per un po' non lo nego, m'ha anche ricreata con quella sua cera da moribondo, e mi son pigliato un po' di spasso; ma me ne sono pentita, e non ci torno più, no davvero; che non vorrei s'avesse a mettere in capo che io so del suo amore e gli concedo di proseguire. Che te ne sembra delle sue pretensioni? Avrei dovuto io dimenticare a tal segno me stessa, e ciò che debbo al mio buon nome? Ed anco se questo pensiero avesse potuto girarmi un'ora per la fantasia, i modi del signorino me ne avrebbero liberata di subito. L'amore si nutre di libertà; e così lo rammentassero tante povere belle, che si comprano, come suol dirsi, la schiavitù col loro denaro.
«Ne francano davvero la spesa, questi signori! Sciocchi come un Riario; leggeri come un Pietrasanta; burbanzosi come un Nelli di Rovereto; stravaganti come un Montalto! Dei tanti che la nostra città può mettere in mostra, ne ho appena conosciuto uno, che valga un tantino più degli altri; il Cigàla. È cortese, senza aspettar mai nulla in ricambio; arguto senza malo animo; di bei modi, d'umore sereno, dovunque si trovi è sempre ornamento, non un peso. Ha fama di esser freddo, insensibile. Io penso che tutti lo credano, solo perchè egli lo dice; ma se ad una donna saltasse in mente di metterlo alla prova, lo vedremmo accendersi come il primo che capita.
«Ma già, a conti fatti, si rassomigliano tutti; ben veduti e considerati, non valgono il sacrifizio della pace del cuore, de' nostri allegri ed innocenti trionfi, della bella serenità dei nostri passatempi, nei quali essi non hanno, nè debbono avere altro ufficio che quello di comparse, come per farci il contorno…»
XXXII
Veteris vestigia flammae.
Aloise non lesse più oltre; richiuse il libro, si rannicchiò rabbrividendo contro la scranna, e si fece scorrere lentamente le palme sugli occhi, come chi si desti a mala pena, e tenti cacciare le immagini tuttavia presenti d'un orrido sogno.
Il duca di Feira si avvicinò.
– Orbene, figliuol mio; – diss'egli con accento di tenerezza paterna, – avete letto?
Aloise sollevò la fronte a guardarlo. Il povero giovine era come istupidito dal dolore, e durò fatica a riaversi. Scosse il capo più volte, trasse a stento un sospiro dal petto, e stese finalmente la mano all'amico, in quella che le sue labbra mormoravano un grazie, in cui parve mettere il fil di vita che ancora gli rimaneva.
– Vivrete? – gli domandò il duca, stringendo quella mano tra le sue.
– No; – rispose il giovine, a cui la dimanda svegliò un subito incendio nel sangue; – ora, più che mai, sono deliberato di finirla.
– Per una donna che non vi ama! – notò, crollando mestamente il capo, il vecchio gentiluomo.
– E che perciò? – proruppe impetuoso Aloise. – Non m'ama, e sia. Non lo sapevo io già? Non ero io venuto a morire per questo? Le pagine che voi, signor duca, mi avete poste pietosamente dinanzi, comunque doloroso, sono a mala pena un compendio delle amarezze che hanno abbeverato il mio cuore. Non m'ama! Dovevo prevederlo fin da quel giorno che la vidi per la prima volta; dovevo ricordarlo innanzi di avvicinarmi a lei, e di accogliere in seno una bugiarda speranza. Ma, che volete? ero un fanciullo. L'ho amata; come si vive, come si respira, per arcana necessità, senza darmene ragione, senza pure averne coscienza. Fui pazzo, a credere che un giorno ella avrebbe potuto aver compassione di me; pazzo, tre volte pazzo! L'amore è il pane degl'infelici. Bisogna aver patito, per intendere che sia, come faccia dimenticare il mondo, i suoi dolori, le sue fallite promesse, una dolce parola, un sorriso, un bacio della creatura che soffre con noi. Essa ebbe assai miglior sorte. Chi più di lei felice nel mondo? Quali venture le mancarono, quali promesse della sua gioventù le vennero meno? La sua vanità ebbe un trono, un altare; e colassù giungono i profumi: ma la nube vaporosa non consente di scorgere il volto; l'altezza non consente di udire la preghiera degli adoratori modesti. E sta bene: il mondo è vanità. A che l'amore? Questo affetto malnato, a cui non è un tormento, è una nausea. Dovevo capirla, tener chiuso il mio segreto nel profondo del cuore, affogarlo nella mia rabbia, non darlo, come ho fatto, in balìa dello scherno.
– Aloise, suvvia, siate uomo; poichè così bene conoscete il dolore, abbiate l'ardire di guardarlo in faccia. Siete giovine e forte; l'insegnamento vi giovi. Rifate la vostra vita. Aloise; provate la voluttà, amara ma nobile, dello aver vinto voi stesso. Lo avete ieri veduto; pur dianzi, in quelle tristi pagine, si sono offerte ai vostri occhi le fila sottili e lontane che vi dovevano involgere. Stringerete voi, colle vostre mani, il nodo che già stava per rompersi? Darete voi la vittoria ai vostri nemici? Vivete, Aloise, i dolori come il vostro, non devono distruggere, ma ritemprare la vita: l'uomo antico sparisce, e in noi sottentra un altr'uomo, più forte, più animoso, più sperimentato alle pugne.
– No, vi adoperate invano; – rispose il giovine, – io non valgo più a nulla; io sono mortalmente ferito. Amo, amo fieramente, disperatamente amo; non lo avete voi inteso? Questo male non ritempra le forze; di questo male si muore. Non lo credete? Ah, voi non avete amato mai al pari di me, da lunghi anni, senza speranza, colla maledizione soffocata nel cuore!..
– Ingiusto! disse il vecchio, con accento di arcana mestizia.
– Perchè? – dimandò Aloise, che lo vide impallidire ad un tratto.
Ma il duca di Feira non rispose alla sua dimanda, e dopo una breve pausa, durante la quale stette cogli occhi chiusi, come chi raccolga tutte le virtù dell'animo e dei sensi ad uno sforzo supremo, proseguì concitato:
– Ah credete voi, giovinotto, che chi di tanti anni v'ha preceduto nella vita non v'abbia preceduto ancora nel soffrire? Credete che i vostri affanni siano i soli, e i più forti che uomo provasse mai? Che basti il dire, ecco io muoio, e rompersi le tempia con un colpo di pistola, per dimostrare al mondo, a sè stessi, di avere amato davvero? Sappiatelo da un vecchio, che ne' suoi dolori ha imparato a compatire gli altrui; non ama sempre più fortemente chi muore, chi si sottragge all'angoscia. V'ha chi vive, ed è peggio. Voi avete amato fieramente, da lunghi anni, senza speranza, colla maledizione nel cuore; or che direste voi della disperazione di un uomo che, giovine, avesse amato e sperato; che fosse stato sul punto di raggiungere la felicità, e questa d'improvviso gli fosse ghermita, ed egli avesse chinato la testa, e si fosse rassegnato a rispettare il diritto di un altro; che amando fortemente, amando a tal segno da non accogliere più altro affetto nel cuore, si fosse pur tuttavia sacrificato a vivere, ad avere mai sempre davanti agli occhi della mente la felicità di un altr'uomo, a noverare i giorni colle angosce, gli istanti tutti colle trafitture del cuore, a vivere insomma di continuo nelle tenebre, dopo aver veduto il sole, desiderandolo sempre, e senza speranza di salutarlo mai più?
– Orribile martirio! – esclamò dolente Aloise.
– Ed è stato, ed è il mio! – soggiunse il duca di Feira con un accento che andò diritto al cuore del giovine. – E in nome di questo martirio, Aloise, io ve ne prego; vivete per me, se non volete per voi. Voi lo dovete, poichè ho molto patito. Siete fermo nel vostro fiero proposito? E sia; non morrete già solo; le vostre armi basteranno per due. —
A quelle inaspettate parole, il cui senso era così chiaro e riciso, il giovine balzò in piedi turbato.
– Signor duca, – diss'egli lentamente, quasi volesse scolpire le sue parole nella mente del vecchio, – questo mi fa tornare al principio del nostro dialogo. Se voi non giungevate in mio soccorso ier l'altro, io sarei morto infamato, e, sebbene senza mia colpa, come vi è noto, una brutta macchia sarebbe rimasta sul mio nome, sull'unica parte di me che dovrà soppravvivermi. Mercè vostra, io posso morire tranquillo, portare con me il mio onore nella tomba. È un ottimo guanciale, – aggiunse Aloise con funebre arguzia, – e franca la spesa di ringraziare chi ce l'ha offerto, in quella che noi eravamo sul punto di perderlo. Vedete che io vi son grato; vedete che io intendo il pregio di ciò che avete fatto per me. Ora, perchè mi vietereste voi il riposo che la mia stanca anima invoca? Perchè, dopo essermi stato cortese, mi vi fareste nemico? Chi siete voi? Qual diritto avete di porvi in tal guisa come un ostacolo, tra me e il mio destino? Qual vincolo ci unisce, perchè vogliate morire con me?
– Un vincolo, sì, l'avete detto; – rispose il duca con accento solenne, – un vincolo sacro; vostra madre! —
Vostra madre! All'urto improvviso, che tale poteva dirsi veramente la frase del duca, Aloise si scosse, diè un passo indietro, e un fremito gli corse per le vene. Il viso attonito, lo sguardo perplesso, quasi sgomentito, che volse in quel punto al vecchio gentiluomo, lasciavano indovinare che un abisso di fosche immagini, di pensieri informi, di arcane paure, s'era schiuso nella sua mente. Ma fu un lampo; Aloise si padroneggiò, risospinse nel nulla tutte le larve che quella frase aveva tratte dal nulla, e con voce tremante per commozione, ma altiera, saettò con queste parole il duca di Feira:
– Signore, io sono il figlio di Alessandro di Montalto. —
Il vecchio fu colpito a sua volta, e più fieramente che non credesse Aloise. Quante amarissime ricordanze ridestava, quante acerbe trafitture gli rinnovava in petto quel nome! Stette saldo tuttavia, e rispose con uno sguardo soave a colui che lo aveva percosso.
– Sì, figliuol suo! – si fece egli a dir poscia. – Voi potete portare altieramente il suo nome, e ricordar vostra madre come la più pura, la più santa delle creature che siano al mondo vissute. Vostra madre, Aloise, – e qui la voce del vecchio si fece tutta tremante, – vostra madre fu cosa di cielo venuta in terra perchè gli uomini non dicessero la virtù un nome vano; vostra madre… Ma venite, Aloise; qui non è luogo da ragionare di lei. Là, in quelle stanze dove ella ha udito i vostri primi vagiti, dov'ella ha vegliato su voi, bambino innocente, ignaro degli alti dolori della vita, dov'ella ha passato i suoi ultimi anni, dov'ella è morta benedicendovi, là, in quel santo luogo dove io non potrei mentire, se pure volessi, vi parlerò di lei, vi dirò chi io sia, perchè venuto a gettarmi tra voi e la morte, a dirvi: vivete, Aloise, vivete per me! —
Le lagrime brillavano sugli occhi, tremavano nella voce del duca di Feira. Aloise si lasciò pigliare per mano, e trasognato, commosso, smarrito, lo seguì verso l'uscio.
Varcarono silenziosi il salotto e la vasta anticamera, in capo alla quale, di rimpetto al quartierino d'Aloise, erano le stanze di sua madre. L'uscio era aperto, e si scorgeva lume per entro. La mano di Antonio si ravvisava colà; ma il giovine, confuso come era, non pose mente a ciò. Egli non aveva coscienza di nulla: seguiva il duca di Feira colla istintiva cura d'un fanciullo che muove i piccoli passi sull'orme di chi lo conduce.
Giunse per tal modo nel pensatoio di sua madre, e si affacciò sulla soglia della camera da letto, che era rischiarata dal fioco lume d'una lampada notturna, come se la marchesa fosse stata colà, dormente sotto il suo padiglione di damasco violetto. Il duca di Feira, che lo precedeva, come fu in mezzo alla camera, barcollò a guisa d'uomo che abbia toccata una ferita improvvisa; ma, innanzi che Aloise accorresse a sorreggerlo, come difatti colle braccia tese accennava di voler fare, raccolto quel tanto di forza che ancora gli rimaneva, giunse fino alla sponda del letto, dove cadde ginocchioni, e diede in uno scoppio di pianto.
Aloise stette tacito, ma profondamente commosso a guardarlo. Sua madre era un angelo; e quell'antico, inginocchiato, piangente, adorava sua madre. In quella vivente immagine dell'amore che vince la morte, era alcun che di così santo, di così schiettamente sublime, che il figlio di Alessandro Montalto, il superbo Aloise, sentì sciogliersi il gelo del cuore, e corrergli mutato in ardenti lagrime alle ciglia. Ma il piangere gli parve poco, al cospetto di un così alto dolore; però avvicinatosi al duca, gli pose affettuosamente le braccia al collo, e col più tenero accento che mai figlio adoprasse per parlare a un padre, gli disse:
– Voi soffrite!
– No, sono lagrime soavi, le mie; – rispose volgendosi il duca, mentre, da lui sostenuto, veniva sollevandosi a mezzo. – Da gran tempo io non ne avevo più sparse di tali. Grazie, Aloise, grazie della vostra amorevolezza! Vedete? Sono tranquillo. Oh, Dio santo, – proseguì, traendo il giovine presso la lampada. – Aloise, figliol mio d'adozione, ultimo affetto del mio cuore, come somigli a tua madre! —
Inspirato da un senso, da una voce arcana di pietà, il giovine reclinò la sua bionda testa sul petto del vecchio gentiluomo, ed un bacio, un lungo bacio frammisto di lacrime, scese a bagnargli la fronte. In quel bacio si confondeano tre spiriti.