Kitabı oku: «Il ponte del paradiso: racconto», sayfa 14
XV.
Fermi ai patti!
Stettero muti a lungo, guardandosi; Raimondo più risoluto e severo, come ne aveva diritto; l'altro quasi timido, e profondamente umiliato, come doveva. Era il duello morale che incominciava, prima del duello materiale; era la punizione anticipata, in quel fronteggiarsi di due uomini, uno dei quali si poteva dire il giudice, e l'altro era certamente il reo.
Raimondo Zuliani fu il primo a rompere quell'angoscioso silenzio.
– Ma dimmi, – incominciò, – perchè io conosca il segreto della umana ipocrisia… un segreto che non ho mai potuto comprendere, e nemmeno concepire… come hai potuto mentire così lungamente, così vilmente con me? —
Ad una domanda simile Filippo Aldini avrebbe potuto rispondere molte cose. “Non è stata menzogna, non ipocrisia volontaria, la mia; non sono stato io il colpevole, o solamente di debolezza. Trascinato, travolto, nell'ora maledetta in cui l'uomo che non cede alle lusinghe di una donna è ridicolo, ho ceduto ad un impeto di follìa. Ma il pentimento è stato pronto, come era stato improvviso l'errore. Quel pentimento io l'ho ancora dissimulato, per non offendere una debole creatura; l'ho dissimulato a lungo, mettendo innanzi un sentimento che in me era forte egualmente e profondo, il rimorso. Ho esortato, ho pregato, ho supplicato; un po' tardi, se ti parrà; ma infine, ho detto tutto ciò che consigliava l'onore, la santità della nostra amicizia. Pensa ancora, a mia scusa, che l'uomo non è spirito puro, a cui si possa chiedere l'esercizio delle più eroiche virtù; pensa soprattutto che l'obbligo di vivere così famigliarmente con te, di usare così frequentemente in tua casa, e di non potermene allontanare senza timore di peggio, fu un'altra specie di catena, che mi tenne ben duramente legato. Che credi? ch'io non vedessi il pericolo? e che ci andassi incontro di buon animo? Ho combattuto, e non ho vinto; le conseguenze della mia disfatta eccole qui. Non intendo già di sfuggirle; mi basta, per l'onor mio, di averti dimostrato che non ero un ipocrita, che potrei esser degno di scusa, non avendo tradita con deliberato proposito la tua fede, la tua amicizia.„
Questo avrebbe potuto rispondere tutt'altri, che non fosse stato Filippo Aldini, attenendosi alla verità, ma venendo meno a tutta una serie di rispetti umani e di cavalleresche virtù. Le sue difese morali avrebbero aggravata una donna; Filippo Aldini le mise da banda senz'altro.
– Non mi chieder nulla; – rispose in quella vece. – E non mi dir nulla, ti prego. Se ha da essere un rimprovero, io me lo faccio da un pezzo. Vedi la mia umiliazione? C'è più rimorsi qua dentro, che mille coscienze umane non ne possano contenere. Risparmia questo carico nuovo alla mia. Poc'anzi, quando io t'ho veduto entrare, ed ho letto nei tuoi occhi la collera dell'uomo offeso, ho anche sperato che tu fossi per cavare un'arma e freddarmi d'un colpo.
– L'ho pensato; – disse cupamente Raimondo. – Già ero per via… e sono ritornato indietro per deporre quell'arma, che sarebbe stata una tentazione troppo forte. Ucciderti qui come un cane… Lo avresti meritato. Ma io… se non son nato gentiluomo, mi sento tale nell'anima. Facciamo le cose da gentiluomini, ho detto; ed eccomi qua, disarmato.
– Sono a tua disposizione; – mormorò Filippo, inchinandosi.
Raimondo Zuliani crollò il capo, ed atteggiò le labbra ad un sorriso sardonico.
– Lo so bene; – riprese. – So come queste cose si fanno; ed anche come figurino bene in drammi e romanzi. Si sceglie la pistola, non è vero? Tu spari senza puntare, o per delicatezza cavalleresca fingendo di prender la mira; ma poi nel momento buono, sviando un tantino la canna, o in alto, o da un lato. Così, nobilmente, ti lasci uccider da me, se io ne vengo a capo nel numero stabilito di colpi. Non mi conviene. Aggiungi il chiasso che si potrà fare, e si farà certamente, intorno allo scontro. Voglio, ho il diritto di voler evitare uno scandalo, incominciato coi mezzi silenzii di quattro padrini informati a dovere, e continuato coi larghi commenti di una intiera città, che si occupi delle mie disgrazie coniugali. Nè solo a me devo pensare. – soggiunse Raimondo Zuliani, passando dall'accento amaro al solenne. – Quella donna è una disgraziata, una colpevole; ma io l'ho amata; ma essa porta ancora il mio nome; ed è infine una donna. Siamo cavalieri fino all'estremo. L'ho risparmiata stamane, quando ella mi confessò tutto, mostrandomi le tue lettere a lei… e lasciamo stare le pazze ragioni che l'hanno consigliata a guarirmi così duramente della mia cecità… l'ho risparmiata, e le ragioni mie potranno essere state pazze come le sue; ma io non le rinnego per questo. Dovrò io condannarla ad una morte più grave? dovrò farla arrossire e vergognare agli occhi del mondo? Neanche ciò mi conviene.
– Allora?.. – chiese Filippo.
– Allora, – rispose Raimondo, – rimane che stabiliamo esattamente i termini della nostra questione, e che tu ne riconosca le conseguenze legittime. Rispondi sincero ad alcune domande. Mi hai tu ferito nell'onore?
– Sì; – disse Filippo, chinando la fronte.
– Mi hai tu uccisa la felicità?
– Sì; – disse ancora Filippo, con un profondo sospiro.
– Credi che uno di noi due sia di troppo sulla terra? – Filippo stese le palme in atto supplichevole, come a scusarsi del non poter rispondere con un monosillabo; poi con accento risoluto soggiunse:
– Mi ucciderò io; sei contento?
– No; – disse Raimondo, sdegnoso. – Una morte volontaria! La tua parte sarebbe ancora troppo bella, davanti a qualche animo preoccupato, disposto a giudicare coi lumi, o coi fumi, della passione. E a me, poi, resterebbe la parte d'un tiranno da melodramma. Non mi conviene.
– Ma allora?.. – tornò a chieder Filippo.
– Allora, ecco ciò che io voglio, a pareggiare le nostre condizioni; ecco ciò che ho il diritto di pretendere. Prima di tutto, giurami di stare al patto.
– A qual patto, mio Dio! – gemette Filippo.
– A quelle che vorrò io; – rispose Raimondo inflessibile. – Non sei tu a mia disposizione?
– Sì, te l'ho detto.
– E tu dunque giura di attenerti a ciò che mi piacerà stabilire.
– Sia; te lo giuro; – conchiuse rassegnato quell'altro.
Raimondo mise la mano alla tasca di petto del suo soprabito, e ne cavò il portafogli. Insieme col portafogli era venuta fuori anche una lettera, che Filippo riconobbe sua, del giorno innanzi. Povera lettera, che doveva essere il principio della sua felicità, ed era stata in quella vece la cagione della sua rovina irreparabile! Sospirò, guardandola; sospirò ancora mentre Raimondo la ricacciava in tasca, con un gesto d'impazienza e di sdegno. Aperto il suo portafogli, Raimondo Zuliani ne cavò due foglietti quadrati, sui quali si vedeva un accenno di scritto.
– Li avevo già preparati; – diss'egli, – Guardali bene. —
Filippo li guardò. C'erano scritti due nomi; Aldini nell'uno, Zuliani nell'altro.
– Esamina attentamente; – incalzò Raimondo. – Non c'è scritto altro, nè sopra, nè sotto. Ed ora piegali in quattro. —
Filippo obbedì. Raimondo, frattanto, offriva il suo cappello: ma ravvedutosi tosto, e guardatosi attorno, aveva veduto appeso in un angolo il cappello dell'Aldini. Lasciato il suo, corse ad afferrar quello, e lo porse a Filippo, dicendogli:
– Mettili qua dentro. —
E perchè quell'altro si schermiva, riprese con accento imperioso:
– Suvvia! voglio così. —
Filippo aveva obbedito.
Oramai, si sentiva ridotto allo stato d'una macchina, in piena balìa di quell'uomo. Raimondo Zuliani agitò un tratto il cappello, perchè il caso disponesse i biglietti a sua posta.
– Ed ora, – riprese, – cavane uno.
– Perchè?
– È vero, debbo dirti il perchè. Il nome estratto dirà chi di noi due dovrà morire, in un termine stabilito di tempo. Metto il termine a sessanta giorni, da oggi. Ti parrà forse troppo lungo; – soggiunse Raimondo; – ma ti dirò poi perchè sia necessario. —
Filippo esitava sempre; ed allora più che mai.
– Raimondo! – gridò con accento supplichevole.
Ma quell'altro era implacabile.
– Hai dunque paura? – gli chiese.
Filippo Aldini si rizzò tosto sulla persona, con tutto l'orgoglio del sangue antico, con tutto l'ardore della sua gioventù, con tutta la fierezza dei freschi ricordi d'una vita onorata.
– Non per me, – gridò egli, ferito nel cuore. – Come puoi tu dimenticare che parli ad un soldato? E non ti ho offerto io poc'anzi un patto migliore del tuo? Te l'offro ancora; sarai più sicuramente vendicato, ed io l'avrò per atto di giustizia. —
Raimondo crollò sdegnosamente le spalle.
– Se lo dicevo io, che si scivola nel melodramma! – esclamò. – Debbo ripeterti ancora che tu vorresti la parte bella per te? e che questo non mi conviene? Finiamola, e resti ciò che io ho stabilito. Quanto al termine che ho posto, è forse a mio vantaggio, ma tu non devi lagnartene. Io, se ha da toccare a me, non me ne voglio andare dal mondo come un fallito. Grazie a Dio, non son tale. Voglio dar sesto alle cose mie, chiudere il banco da uomo che si è seccato degli affini, trovare un buon pretesto alla mia sparizione, ed anche portare le mie ossa condannate assai lontano di qua. Dunque siamo intesi, alla sorte! —
Così dicendo, porgeva ancora il cappello. Filippo torse il viso con un gesto di viva repugnanza.
– Non io, se mai, – diss'egli, – non io.
– Ebbene, tanto fa; – disse Raimondo; – sarò io. – E mise la destra in fondo al cappello. Il momento era solenne. Grave nell'aspetto, ma calmo, Raimondo levò la mano, tenendo un biglietto tra le dita; lo spiegò tranquillamente, e lesse:
– Zuliani! —
Filippo diede un balzo di tutta la persona. Quel balzo rispondeva ad un violento sussulto del cuore. Divento pallido, smorto nel viso; un sudor freddo gli gocciolava dalla fronte.
– Ah! Raimondo! – esclamò, tendendo le braccia in atto disperato. – Non così! non così!
– Perchè? – disse Raimondo, grave e tranquillo come prima. – Perchè, se le cose sono state fatte a dovere? Vedi l'altro biglietto; c'è pure il tuo nome, che poteva uscire, com'è uscito il mio. Fermi ai patti, dunque; non c'è stato inganno, e i patti onestamente accettati debbono essere onestamente osservati.
– Ma il colpevole sono io: perchè pagheresti tu, con la vita, per una colpa non tua? —
Raimondo fece un gesto di sublime rassegnazione; e l'accompagnò di un mesto sorriso.
– Caro, – rispose, – è la giustizia del cielo; cieca come quella degli uomini! Ma no, – soggiunse tosto, ravvedendosi, – dico male; non cieca. Guardandoci bene, non è piuttosto, da dirsi avveduta, quella di lassù, e cauta, e provvida, come l'altra di quaggiù non sarà mai? Pensaci; come potrei viver più io, se anche m'avesse favorito la sorte? – aggiunse Raimondo, rabbruscandosi in volto. – Tanto la mia sentenza era scritta; non mi avevi ucciso tu già nei miei due sentimenti più vivi e più sacri, l'amicizia e l'amore? – Va, dunque, e lascia che il destino si compia. Quanto a te, sei punito abbastanza; dal tuo rimorso, anzitutto, a cui credo… Che è ciò? – chiese egli, interrompendosi a mezzo del sua triste discorso, e volgendo gli occhi verso la vetrata di fondo, nella parete di sinistra.
Era venuto di là un piccolo rumore, breve e leggero, ma secco, come di serratura delicata, ove una stanghetta a colpo avesse battuto nella bocchetta, per chiudere un uscio. Anche Filippo lo udì, ricevendone una scossa molesta; ma non poteva mostrare di averlo notato.
– Che cosa? – domandò egli a sua volta, fingendo di non intendere il perchè di quella interruzione.
– Un rumore di là; – disse Raimondo.
– Di là? C'è un anditino; – replicò Filippo; – e la camera del servitore. Ma il servitore, di giorno, non c'è. —
Avrebbe potuto dire che il servitore non c'era neanche di notte, e che al governo del suo quartierino bastava una persona di mezzo servizio. Ma a tanta abbondanza e sincerità di ragguagli non era neanche obbligato. Bene sentì l'obbligo di assicurare il suo ospite, andando ad aprir l'uscio a vetri, ed anche di entrare nell'andito, per poter dire, tornando, che infatti non c'era nessuno; onde il rumore udito da Raimondo poteva credersi effetto di un fenomeno acustico d'una risonanza da camere e scale del vicinato. Il signor Zuliani, del resto, non si trattenne a pensarci più oltre, dovendo ritornare al fatto suo; il quale, per allora, si mutava nel fatto del suo avversario.
– Ed ora, – diss'egli, – la prima parte è assestata.
– Ma no, Raimondo, ma no! – gemeva ancora Filippo Aldini.
Quell'altro non voleva sentire piagnistei. Lo saettò d'un'occhiata severa, e riprese:
– Ai patti, ai patti, e non mi seccare. Queste ragazzate non sono degne di te, nè di me. Rimane da assestar la seconda; quella del tuo matrimonio.
– Ah sì, proprio quello! – esclamò Filippo, tentennando la testa.
– Quello, infatti; – ribadì l'altro, inflessibile. – E mi preme, perchè c'è impegnato il mio onore. Ricorda ciò che ti dicevo ieri; niente è mutato nella mia condizione delicatissima rispetto ad Anselmo Cantelli. Dunque, stammi a sentire; senza interrompermi, il che mi annoierebbe; senza opporti al mio volere, il che mi offenderebbe, e sarebbe una giunta crudelmente inutile… a tutto l'altro che sai. —
Filippo s'inchinò senza proferir parola; e Raimondo pacatamente seguitò:
– Anzitutto, niente traspiri di ciò che è seguito tra noi. Anselmo è arrivato stamane; e proprio nel punto buono! Ma io debbo mantenermi fermo nella proposta, ch'egli ha accettata, e per cui egli è venuto. Anselmo è il re dei galantuomini; non merita d'esser trattato alla leggera, e molto meno di essere canzonato da noi. Tu dunque, sposerai Margherita. Sicuro, poichè non è toccato a te il cattivo numero, la sposerai. Andrò oggi sulle quattro al Danieli; già mi sono fatto scusare, della mia assenza alla stazione, dal Brizzi; dal Brizzi, che ho pure mandato a casa… mia… – e qui Raimondo fece la pausa e l'atto di chi ingoia sforzatamente un amaro boccone, – a casa mia, dico, per avvertire che non sarei andato a far colazione, ma soltanto m'attendessero a pranzo. Così, vedi, tra le quattro e le sei avrò finito di combinare ogni cosa con Anselmo, e tu potrai fare questa sera la tua visita solenne, che io avrò debitamente annunziata. Ci sarò anch'io, per farti da padrino… o da padre. Ti va? —
Filippo aveva le lagrime agli occhi.
– Ti ho ascoltato devotamente; – rispose. – Sei un eroe. Ma se tu volessi dimenticare ciò che si è fatto qui, dianzi!.. —
Raimondo fece una spallata, in atto d'impazienza e di sdegno.
– Ma non l'hai capito ancora, che questo è impossibile, assolutamente impossibile? Io, prima di tutto, non sono un eroe. Se fossi, non ti avrei neanche invitato al giuoco di poco fa. Era il resto dell'ira, che bisognava sfogare. Ma bada, dell'andarmene da questo mondo bugiardo, non sarà stata cagione la sorte d'un bigliettino estratto in vece di un altro. Credilo, Aldini; sono caduto da troppa altezza d'illusioni, e la vita mi è un peso insopportabile. Sarei già fuori di pena, se non fosse che voglio uscirne bene, da persona pulita. Tu, certamente, sei stato la cagione di tutto, cagione immediata, per altro, e vicina; prima e lontana cagione furono le mie sciocche illusioni. Che ci vuoi fare? Sono andate al diavolo; ci restino. Dopo tutto, tu non hai fallito senza complici; e la tua complice io l'ho amata. Chi sa?.. forse l'amo ancora; ed è questo il pensiero che mi rende feroce, odioso a me stesso. Sia dunque finita così, come ho deciso. Me ne andrò, dopo che il tuo matrimonio sarà compiuto. Mi sei debitore di questo sacrifizio… se proprio ti sembrerà tale. E lagnati ancora! Infine, sacrifizio, o no, fermo ai patti, e rispetta l'onor mio, dove ancora è possibile. —
Filippo Aldini fece quello che già tante volte aveva fatto, nel corso di quel doloroso colloquio; chinò la fronte, in atto di obbedienza, e più di vergogna. Raimondo si era alzato, riprendendo il suo cappello, ch'era rimasto posato sulla tavola.
– A questa sera; – diss'egli; – sulle nove; ed anche un po' prima, non sarà male. —
Poi, con un gesto d'addio, che non giunse alla stretta di mano, si avviò all'anticamera.
Filippo Aldini lo aveva accompagnato fino all'uscio, senza parole, umile in atto, sempre coll'animo abbattuto, quasi curvando la testa sotto il peso di una grande tristezza.
– Ti obbedirò; – aveva risposto brevemente, malinconicamente, alla raccomandazione di Raimondo.
Nè altro aveva soggiunto, imitando così l'esempio severo di lui. Egli intendeva benissimo che l'amicizia era morta, e solo ne doveva restare la onesta finzione in faccia alla gente.
Ritornato nella quiete del suo studio (quiete, ahimè, già più volte così violentemente turbata!), il povero Aldini rimase lungamente pensoso. Quante cose, in due giorni! quante confusioni, quanti contrasti, e quante rovine! Ma erano veramente due giorni? non due settimane, due mesi, due anni? Ed era stato proprio il giorno innanzi, ch'egli aveva promesso a Livia un ultimo atto di resistenza, il tentativo iniquo di mandare in fumo la propria felicità? Era stato il giorno innanzi, che Raimondo Zuliani, amico più caldo ed imperioso che mai, aveva sgominato il suo tentativo, rotto d'un colpo il suo faticoso tessuto di scrupoli vani, dimostrandogli che oramai l'onor suo era impegnato, e che alla perdita dell'onor suo non avrebbe potuto sopravvivere? Povero amico Raimondo! Ben altra perdita doveva egli toccare indi a poco, perdendo tutte le sue illusioni ad un tratto! Lei infedele, la sua Livia adorata; lei pazza, e nell'impeto cieco del suo orgoglio offeso, diventata feroce, tragica come una Furia antica! Egli, il povero disilluso, giustamente irato, anelante a vendetta, incatenato ancora dall'amor suo, smarrito tra la necessità di provvedere al suo onore oltraggiato e il desiderio di salvare quella donna da una vergogna altrimenti inevitabile, non era riuscito ad altro che a scavarsi con le sue mani la fossa! Era giustizia, quella? Cieca, davvero, cieca lassù come in terra!
Ed ora? Se la signora Zuliani, che era stata a sentire, commetteva un'altra delle sue malaugurate follìe, qual nuova vergogna per lui, nel cospetto di quell'uomo infelice! Perchè certamente aveva sentito; soffermata là, dietro l'uscio a vetri, per assicurarsi che il visitatore fosse veramente Raimondo; rimasta inchiodata a quel posto da un sentimento di curiosità morbosa; partita finalmente, dopo aver ascoltato l'essenziale, il terribile, dell'infausto colloquio. Egli ne era addolorato insieme e sgomento. Ma infine, perchè sgomentarsene? perchè dolersene? L'imprudenza di lei non aveva portato lì per lì conseguenze spiacevoli; per tutto l'altro, poichè il male era fatto, bisognava commettersi in balia del destino, e tanto meglio se quella donna aveva ascoltato: ella poteva misurare l'ampiezza del male commesso con le sue smanie gelose; poteva anche riconoscere la grandezza d'animo dell'infelice Raimondo, così poco savio con le sue illusioni, ma così nobile ad un tempo, perchè quelle illusioni erano state belle come l'anima sua, e che ad ogni modo se ne riscattava con un eroismo sublime. Filippo Aldini ammirava quell'uomo, che si svelava così grande nell'orrore del suo disinganno, come era stato semplice e buono nella ingenua fede in cui lo spirito suo si era lungamente cullato: lo ammirava per ciò, lo invidiava.
Quanto a sè, dopo quanto era avvenuto tra loro in quel giorno fatale, poteva l'Aldini accettare i frutti della magnanimità di Raimondo Zuliani? Troppo bene ricordava egli che l'amico aveva pochi giorni innanzi scongiurati gli effetti di un velenoso discorso nell'animo buono della signora Eleonora Cantelli, giurando e spergiurando che nei sospetti addensati sul capo di Filippo Aldini non c'era nulla di vero. Combatteva sospetti, il povero Raimondo, forte della sua fede e dell'intima conoscenza, che s'illudeva di avere, del cuore, e degli atti del suo giovane amico. Avrebbe egli potuto parlare una seconda volta con tanta asseveranza? No, certo; la buona fama di Filippo Aldini era dunque tutta fondata sopra una vecchia testimonianza; la verità, nella mente disillusa del buon testimone, era tutt'altra, pur troppo. E non era un ingannar Margherita, presentandosi a lei puro d'ogni colpa, scevro d'ogni ombra di sospetto, sulla fede fatta per lui da Raimondo Zuliani? Filippo amava Margherita con tutte le potenze dell'anima sua; neppur egli sarebbe vissuto, perdendola; ma voleva ottenerla meritandola; meritandola almeno con la sua sincerità, con la sua lealtà. E questa, ahimè, come dimostrarla alla divina fanciulla?
Perciò avvenne ch'egli pensasse a lungo; ma finalmente la sua risoluzione fu fatta. Guardò l'orologio; era il tocco. Prese allora il suo cappello, infilò lestamente il suo pastrano, ed uscì, ma non senza aver serrato con tanto di chiavistello quell'uscio segreto nel fondo della casa, e giurato che pei pochi giorni in cui fosse rimasto ad abitarla, quell'uscio segreto non si sarebbe aperto ad anima viva. Fatta la sua risoluzione, si sentì più sollevato dell'animo; almeno quanto poteva esser tale nelle tristi circostanze di quell'aspra giornata. Andava di buon passo verso San Marco, e di là fino alla riva degli Schiavoni, giungendo in pochi minuti all'albergo Danieli, ove dimandò se il banchiere Cantelli, arrivato quella mattina a Venezia, fosse in casa, e visibile.
– Non è uscito ancora, signor conte; – gli dissero al camerino della direzione; – a mezzodì, faceva colazione.
– Avrà dunque finito; – osservò Filippo. – Abbiano la bontà di fargli giungere questo biglietto di visita. —
E consegnò il cartoncino, su cui a matita, sotto il suo nome e cognome, scrisse in aggiunta: “desidera vivamente di riverire il commendatore Anselmo Cantelli, e di ottenere da lui la grazia di un breve colloquio„.
– Breve! – soggiunse mentalmente, in quella che un servitorello minuscolo, in fantastica divisa militare tra il cacciatore e l'ussero, assaltando a quattro a quattro i gradini della scala, portava il biglietto alla sua destinazione. – Che ne so io? Ma egli capirà che vorrei parlargli da solo a solo. —
Due minuti dopo, scendeva il piccolo guerriero, più che saltando i gradini, scivolando a rovina sugli orli. E il conte Aldini, per non esser da meno, gli fece scivolare tra le dita una liretta d'argento, mentre il ragazzo gli diceva, colla precisione di linguaggio cerimonioso che è pregio dei grandi alberghi:
– Il signor commendatore Cantelli prega il signor conte Aldini di voler salire da lui. —
Bisognava dunque veder le signore! Ma infine, quella era la conseguenza più naturale del partito a cui si era appigliato. Filippo Aldini salì. Sul secondo pianerottolo, frattanto, si apriva un uscio, e ne veniva fuori un vecchio signore, colla manifesta intenzione di muovergli incontro.