Kitabı oku: «L'olmo e l'edera», sayfa 3
V
Un nuovo e più vivace elemento entrava nella vita di Guido Laurenti. Era una bella e nobile vita la sua, intelligente, studiosa, operosa, e si disponeva acconciamente a diventar feconda d'intendimenti generosi. Ma il calore non c'era; non c'era quella tal cosa che fa dire col poeta latino: «spiritus intus alit». Egli era, se posso giovarmi del paragone, come un bel disegno senza colore, o come un bel paese senza luce, il che poi torna lo stesso, imperocchè i colori non sono che le sette persone di quella santissima Settenità. Ora, quel nuovo elemento era come l'alba che rischiara il paese, facendolo nuotare dapprima in una vaghissima nebbia, tinta a gradi con tutte le più soavi temperanze della tavolozza dell'iride, e dandogli da ultimo que' toni più giusti, que' lumeggiamenti ricisi, che fanno risaltare ogni cosa in tutta la sua schietta bellezza, colla debita osservanza a tutte le leggi della prospettiva.
Tutte queste belle cose, che io dico del resto così male, non le disse a sè stesso, nè mal nè bene, il mio giovine protagonista. Egli non fece esame di coscienza allorquando, dopo aver pigliato il suo cappello dalle mani del servitore, stette ancora un pezzo immobile a guardare colà dove la bella gentildonna era sparita nel buio della sera, e non pensò neppure a farlo, quando con passi lenti e misurati rifece il viale del suo giardino per tornarsene in casa.
A che cosa pensava egli, mutando i passi dell'uomo pensieroso? A nulla, proprio a nulla. E del pari senza pensare a nulla, entrò in casa, appiccò il cappello alla prima gruccia del cappellinaio, e andò svogliato a sedersi su d'un divano del suo salotto.
Per la prima volta dopo dieci anni si sentì senza desiderio di metter mano a cosa veruna; se il servitore, vedutolo entrare colà, non si fosse affrettato ad accendere la lucerna, egli non avrebbe pensato a chiedere un po' di lume. E non pensava a nulla, non gli veniva neppure in mente di chiedere a sè stesso il perchè non pensasse a nulla.
Si alzò, e poichè si vide dinanzi il cembalo, andò a sedersi alla tastiera, su cui non metteva le dita da parecchi mesi, e accesi i torchietti, si fece a suonare quella stessa musica che vide squadernata sul leggio. La era una mazurka, ed egli suonò la mazurka; poi diede di mano ad un altro quaderno, e suonò quel che c'era, dalla prima all'ultima nota, senza nemmanco badare al genere del pezzo. Senonchè, la era musica in minore, e il minore è come le ciliegie, che una tira l'altra; e Guido Laurenti, senza metter mano ad altri quaderni, suonò una infilzata di romanze malinconiche, andando da ultimo a immorbidirsi in quella famosa del Verdi: «Quando la sera, al placido» con tutto quello che segue.
L'amore entrava, come i lettori vedono: c'era già la sera, e il placido chiarore del cielo stellato.
Egli tuttavia, ripeto, non ne sapeva nulla, e continuava a suonare come se fosse stato quello lo studio e il passatempo di tutte le sere, in cambio della Trasformazione delle specie di Darwin, o del Cosmos di Alessandro Humboldt.
Così del resto avviene mai sempre. Se l'uomo al primo mutar dell'aria fosse sollecito a mettere la sua brava flanella, non ci sarebbero più reumi nè bronchiti. E se ai primi segni di una simpatia, ma proprio ai primi, un uomo assennato facesse il suo esame di coscienza, pesasse il pro e il contro sulla bilancia, i rischi e i guadagni, io metto pegno che non andrebbe più innanzi. Ma, passano due giorni, e la flanella non è giunta a tempo per isviare la tosse; passano cinque, e i gagliardi propositi non custodiscono più dai colpi di un affetto veemente. La malattia è nei bronchi; la passione è giunta al cuore, e arrivederci col senno di poi!
Il primo pensiero di Laurenti (gli era proprio tempo che tornasse a pensare!) fu per la gentildonna veduta pur dianzi; ma era un pensiero innocente, naturale come la curiosità, legittimo come la compassione del prossimo. Ed ecco poi in che forma logica gli si dipanò nella mente, in quella che stava seduto al cembalo, cogli occhi sopra uno dei torchietti accesi:
«…..Povera donna! mi pareva molto stanca. Che male avrà? Era bianca come la cera intorno al lucignolo, e liquefatta del pari. Che la sia offesa nei polmoni? Sì certo; son queste le malattie in apparenza più dolci, che uccidono a gradi, e non c'è bisogno di starsene inchiodati in un letto per sentirsi morire. Si sfiaccola come questa candela; ci si rimette ogni giorno uno strato di vitalità; si ama sempre più la luce, il calore, quanto più vanno mancando di dentro; poi, la cera liquida, giunta all'ultimo strato, si riversa nella padellina, il lucignolo si abbatte, stride, e buona notte!
«Povera donna! Ma perchè non cura la sua salute? Le son malattie da badarci per bene. I medici le hanno sentenziate insanabili, poichè essi guardano alla interna rovina di un organismo e non alle cause morali che la guidano, come soprastanti alle opere di demolizione. Questi mali s'hanno a pigliare anch'essi pel loro verso; vuolsi curar l'anima in pari tempo del corpo. È ci vuol altro che olio di fegato di merluzzo! S'ha da svagare il malato, fargli mutare sensazioni, mutando paese, e via via. La dama è ricca. A quella palazzina e a quel magnifico giardino dee rispondere un largo censo. Perchè si lascia sgretolare a quel modo dal male!
«Chi sa? forse la ci avrà le sue millanta ragioni a non muoversi. Si è a volte legati in un paese con funi di canape, a volte con fili di seta… che tengono assai più forte del canape. E invero un marito non può essere impedimento a fare quello che la cura del proprio corpo consiglia; laddove un amante… Un amante! e perchè?…»
La supposizione dell'amante non pareva gli andasse molto a' versi. La masticò un tratto fra i denti, quindi balzò in piedi con piglio d'insofferenza.—Vadano in malora gli amanti!….. esclamò.—E le amanti!—soggiunse, ma più sommesso, come chi senta di dire una mezza bugia a sè stesso. E uscito dal salotto, andò a cangiar vestimenta, zufolando (egli che non zufolava mai); quindi uscì, dopo aver detto al servitore che sarebbe tornato tardi, poichè andava al teatro Carlo Felice; e uscì zufolando pur sempre.
Quella per fermo era serata di musica!
Il teatro Carlo Felice quella sera aveva faccia di legno. Laurenti, il quale non s'era più ricordato d'essere in lunedì, se ne addiede come fu alla porta; ma non se ne dolse; che anzi! Egli aveva detto al servitore e a sè medesimo che andava a teatro, soltanto per dire qualcosa, e gli parve una ventura di dover appiccare la voglia all'arpione.
Ha mai pensato il lettore che siamo sempre in due, dentro di noi, o, per dir meglio, che il nostro noi è composto di due persone, che una vuole e l'altra disvuole, e quella che vuole o disvuole più tenacemente non è sempre la prima per ragione di dignità? Egli avviene spesso nel nostro interno come un dialogo, un battibecco inavvertito, una sorda puntaglia, e le gambe e le mani nostre non eseguiscono sempre i comandi della parte più autorevole. La parte seconda, che è la materia, l'istinto, o quel diavolo che vorrete, pensa anco lei, e talfiata ragiona anche meglio dell'intelletto; testimone il fatto degli ubbriachi che non si rompono mai il nomine patris, e trovano sempre la toppa dell'uscio di casa, senza mestieri del lumicino della ragione.
Ora, uno dei due contendenti voleva che Guido andasse a passeggio; e fu proprio quello che si rallegrò nella mente sua, quando il capo di casa trovò chiuso il teatro.
Laurenti se n'andò dunque girelloni per la città, ma con una spasimata voglia di salire. E fu di tal guisa condotto per una strada larga, nella quale non si vedeva anima viva, e che egli per conseguenza potè popolare di morti a sua posta, vo' dire delle sue ricordanze giovanili, delle care imagini de' suoi parenti, e perfino de' suoi compagni di scuola, allorquando pigliava i primi granchi nel mare del sapere, chiamando le lettere dell'alfabeto con nome sempre diverso da quello che avevano avuto, dai Pelasgi fino al tempo presente.
Erano, in fin dei conti, innocentissime meditazioni, e non c'era nulla a ridire. Ma chi avesse potuto (come fa il lettore dietro la scorta di un minuto racconto) notare le speculazioni di Laurenti dal ciglio del muraglione, e scorgere nel suo soliloquio accanto al cembalo il germe di una simpatia per la signora della palazzina gialla, avrebbe anche notato che quella strada nella quale era ito a meditare, andava per l'appunto a far capo, indovinate dove! alla palazzina gialla.
Per la chiusa del primo giorno, non c'era male davvero!
VI
Il giorno seguente, mattiniero come al solito, il giovine botanico si diede tutto alle sue piante, e proseguì la sua opera di giardiniere accurato fino all'ora dell'asciolvere. Dopo i fiori, stando alle consuetudini, avrebbero dovuto venire gl'insetti; ma per quel giorno gl'insetti non ebbero molestia, e i trattati di entomologia dormirono sugli scaffali.
I fiori, poveretti, avevano sempre bisogno di qualche cosa; e in particolar modo quelli che stavano sul murello, sull'ultimo lembo del muraglione, che riusciva meno discosto dall'albero di pino. Laggiù c'era sempre qualche pianticella da curare, qualche mala erbuccia da sterpare, qualche ramo da tener ritto.
Tra questi lavori giunse l'ora del pranzo; poi giunse la sera. E sull'imbrunire, quando tacciono i mille rumori confusi del giorno, quando le fragranze delle erbe e dei fiori salgono come una vespertina preghiera della natura verso il cielo azzurro, una bella rosa di Torino e un magnifico garofano, che stavano vicini su quell'ultimo lembo del muraglione che ho detto, se avessero avuto parola umana, avrebbero fatto udire una conversazione curiosa. E' la fecero invero nella lingua loro, e nessuno avrebbe a risaperne verbo; ma io, costretto dal mio uffizio di romanziere a saper tutte le lingue, a origliare i soliloqui delle anime, a intendere perfino i sospiri, ho inteso anche quel dialogo, e posso riferirvelo dalla prima all'ultima parola.
–Ohè, vicino!—disse la rosa al garofano, toccandolo leggermente col sommo delle foglie agitate dalla brezza.—Dormite forse?
–Non dormo;—rispose il garofano—pensavo. E voi madonna?
–Io ho desiderio di far quattro chiacchere. Avete sentita la rugiada di quest'oggi?
–Sì, madonna, e vi so dir io che m'ha fatto un gran bene.
Tuttavia……
–Tuttavia, che cosa?
–Tuttavia, egli c'è stato un momento che mi sono provato a dir basta. S'intende acqua e non tempesta. Figuratevi, madonna, che ho preso la risciacquata per cinque volte alla fila.
–Com'io per l'appunto; ma io non me ne sono lagnata.
–Oh, voi siete buona come il carbonio di cui ci nutriamo; ma confessate che la è stata una cosa insolita. Gli altri giorni non s'è mai andati oltre le due.
–Gli è verissimo; quest'oggi il giardiniere ci ha avuto una gran sollecitudine per noi. Vedete, bel vicino, egli m'è stato attorno in un modo da dover essergli grata per tutto il tempo ch'io viva. Ci avevo già cinque o sei di que' brutti animaletti i quali s'inverdiscono del nostro sangue; ed egli, buonino, me li ha cavati con un fuscellino, che solo a sentirlo mi facea tenerezza.
–E a me, madonna, ha levato di dosso un bruco villoso…… sapete, di quelli che poi fanno i farfalloni……
–Son carine, le farfalle, con quelle loro ali screziate e asperse di polverina d'oro!
–Sì, ma i bruchi son pure le moleste bestiaccie. Io rinunzio alle farfalle, madonna, se, per vedermele poi aliare dattorno, ho da lasciarmi strofinare dall'epa di quei vermiciattoli neri. Insomma ei me lo ha tolto dai piedi, e poi mi ha strappato alcune foglioline avvizzite che mi erano uggiose.
–Gli è un bravo e bel giovinetto—disse la rosa di Torino.—Io non rifinisco mai di guardarlo, e certo il primo bottone ch'io farò, vuole rassomigliargli di molto.
–Badate, madonna! e' riuscirà troppo pallido.
–Ah, sì, gli è un giovine malinconico e sempre sovra pensieri…..
–Avete veduto—interruppe il garofano,—che cosa faceva egli quest'oggi?
–Che cosa?
–O non avete notato quell'arnese che si recava spesso davanti agli occhi, e che teneva qui sul murello, vicino al mio vaso, per averlo sempre sotto la mano?
–Sì, sì, un coso con due buchi lucidi, che devono esser fatti per guardare da lunge. E' lo alzava e lo abbassava ad ogni tratto, sempre nella direzione del giardino di sotto.
–Benissimo, ma usando sempre la precauzione di mettersi dietro le vostre foglie, o dietro le mie.
–Che cosa vorrà dire, vicino?
–Chi sa? Certo non lo avrà fatto per guardare il tempo.
–Ottimo giovine,—proseguì la bella rosa, che avea fermo il chiodo in quella considerazione.—Lo vorrei veder contento. Per me, vo' dirvela schietta, se ha da essere così impensierito, amo meglio che non mi dia da bere nemmanco un fil d'acqua.
–Oh, questo poi!—esclamò il garofano.—Io qui non mi accosto alla vostra opinione.
–Signor egoista!
–Madonna tenerina!
Un terzo interlocutore, dalla voce sonnacchiosa e burbera, venne a rompere quel dolce colloquio. Gli era un geranium triste, il quale stava lì presso, nell'angolo tra il muraglione e un muro di tramezzo, che separava il giardino di Laurenti da un camperello contiguo.
–Sì, adesso bisticciatevi ancora! La notte è fatta per dormire, e voi altri non lasciate pigliar sonno a nessuno.
–Che cos'ha quest'altro?—mormorò la rosa sbigottita al garofano.
Il garofano mulinava una risposta, ma non trovandola lì pronta e tale da offerire a madonna un alto concetto della sua dignità mascolina, non rispose un bel nulla.
Intanto il geranio proseguiva:
–Già, i contenti sono sempre incontentabili; hanno dieci e vorrebbero aver quindici, poi venti, e via discorrendo. Io che sto dietro questo muro…..
–Comodamente al riparo dalla tramontana!—interruppe beffardo il garofano, che aveva trovato la parola da dire.
–Io che sto dietro a questo muro—ripetè, senza dargli retta, il geranio—io non ho avuto uno sguardo del vostro Narciso, nè uno spruzzo d'acqua per cavarmi la sete. M'avesse detto: crepa! Già, io ci ho il peccato addosso di non essere sul murello, daccanto a voi altri. Il bruco che egli ha tolto da voi, messer garofano garbato, egli me lo ha gittato sopra di me senza neppure guardarsi da fianco. Ora voi non vi ringalluzzite tanto, madonna rosa! Io ci ho un occhio per foglia, e da qui, sporgendo il capo, ho potuto vedere che cos'è tutta la sua tenerezza per voi.
–E che cos'è?—si provò a dire sgomentita la rosa di Torino.
–Ah, ah! gelosa! C'è laggiù, in quel giardino, una bella signora, più bella di voi a gran pezza….
–Da che parte?—chiese pronto il garofano—da che parte, ch'io non l'ho veduta ancora?
–Là, dietro quella selva di magnolie e di allori. La viene qualche volta a diporto, per quel sentieruolo a manca. Ieri il vostro amico è stato per due ore a contemplarla. Oggi non la è venuta affatto, ed egli ha avuto un bell'aspettarla, e darvi da bere a voi altri, e cavarvi i bruchi, signor garofano, e spidocchiarvi, signora rosa…
–Oibò!—disse la rosa, arricciando le foglie.
–Eh! io non ve le so dire le belle parole; dico acqua all'acqua, e non so come il vostro bel giardiniere battezzi quelli sconci animaletti che ci avete voi sulla persona, bella schifiltosa! Del resto sappiatelo: la dama per tutt'oggi non s'è vista, ed egli se ne strugge… ve lo so dir io, se ne strugge!
–Adesso, crepa di rabbia!—aggiunse mentalmente il geranio a guisa di perorazione, e si messe a dormire, contento come chi pensa d'aver fatto un'opera buona.
–Povero giovine!—mormorò la bella rosa di Torino, e reclinò pensierosa le sue foglioline.
VII
Tre giorni passati a meditare di continuo su d'una cosa, la solitudine, che è potentissima esca ai vigorosi affetti, e più di tutto dieci anni di vita senza amore, avevano dato Laurenti in balia della passione, e così profondamente scolpita nel suo cuore la imagine della bella sconosciuta, da non poterla più cancellare.
Allorquando egli venne finalmente a pensare sulla natura de' suoi sentimenti, allorquando, rientrato un istante in sè medesimo, si addiede della gravezza del male, chiuse gli occhi e gridò: non è vero.
Non è vero! Frase presto detta; e intanto egli era sempre inteso a guardare la palazzina gialla e gli cuoceva di non veder più comparire quel bianco viso di donna.
Uno dei primi e dei più noti sintomi di quella affezione cardiaca che non è considerata in alcun trattato di patologia, ma che tutti conoscono, e molti conservano allo stato cronico, è il girandolare che si fa nei pressi di una certa abitazione. Si gira, si va, si viene, ma non si esce mai dai paraggi dell'Isola ignota; si bordeggia, si getta l'àncora in vista, come farebbe una fregata in crociera.
Un altro sintomo è quella curiosità di sapere un certo nome. Si adoperano, per soddisfarla, tutti i più sottili artifizi; si passeggia più volentieri coi ciceroni della cronaca cittadina; si stringe la mano con maggior piacere alle persone che hanno qualche attinenza colla Dea, ancora senza nome, e solo per farlo cascare, questo benedetto nome, a guisa di un diamante smarrito che si cerchi, tra i ritagli di una conversazione capricciosa.
E questi sintomi c'erano ambedue. Guido Laurenti, chi avesse voluto trovarlo, era in giardino, o per quella tal via che metteva alla palazzina, ma senza veder mai la bella innominata. Poi, di sera andava a teatro, in traccia di gente chiacchierina; ma senza cavarne un costrutto. E per vero, non avendo mai veduto la dama per via, nè in altro luogo di ritrovo, non sapeva da che parte incominciare, non poteva metter le mani su chi la conoscesse, o di persona, o di nome.
Un giorno la fortuna gli condusse tra piedi un conoscente, persona curiosa che andava per le vie alte della città, a dare un'occhiata ai nuovi edifizi. L'occasione non aveva che tre capegli sul cranio, ma Guido li afferrò destramente, conducendo il compare per quella tal via che sapete, e là domandandogli di chi fosse quel palazzo rosso, di chi quel bianco, di chi quella casa grigia, e via discorrendo, sempre con aria sbadata e per mo' di chiacchera.
Di tal guisa, tirando innanzi, seppe finalmente che la palazzina gialla era la villa Argellani.
–Argellani! che gente è?
–Non so;—rispose l'amico—forastieri, che l'hanno comperata, credo, dai Visdomini. L'uomo è morto, lasciando la vedova, che deve starci di casa.
E' fu tutto quanto potè sapere Laurenti; ma era già molto; una vedova ed un cognome!
La Argellani, ei l'avea già udita nominare, epperò non gli giungea nuovo il parentado; ma quando, e in che modo, non rammentava. E il nome di battesimo? quello era il busilli.
Così egli rimase senz'altro lume, a mezza strada. A chi far capo? Chiederne ai ciceroni della cronaca, gittar loro innanzi quel nome per avere tutte le altre notizie, gli parea cosa disdicevole; inoltre, siccome avviene agli innamorati, sembrava a lui che il primo venuto gli avrebbe letto il suo segreto negli occhi.
Meditò, meditò, ma non gli venne alcun partito che valesse. Parlare col giardiniere! sì, certo; quello era lo spediente migliore, anzi l'unico buono; ma come fare? La conoscenza c'era; ma non andava oltre il saluto, e la cosa era come passata in giudicato. O come avrebbe fatto per entrare in discorso con lui?
Il giardiniere diventava, issofatto, un gran personaggio, e per accontarsi ragionevolmente con esso lui, ci voleva proprio una diplomazia di quella più fine, una diplomazia da Talleyrand, e da Metternich.
Ci pensò una notte e un giorno; finalmente ebbe trovato lo spediente. Era molto arrisicato, e poteva anco non approdare; ma il nostro diplomatico non ci aveva da scegliere tra parecchi il più acconcio; gli bisognava sperimentare quel solo che avea potuto trovare.
Uscì a tarda notte in giardino. Il cielo era buio, e propizio al gran misfatto. Giunse fino al muraglione, presso ad una bella pianta di camelie, che era una rarità della specie; sollevò il vaso tra le palme, lo sospese fuori del murello, e lo lasciò spietatamente cadere nella prateria sottostante.
Quindi si allontanò sollecito da quel luogo, ma non tanto, che non udisse il tonfo del vaso.
–Povera camelia!—esclamò, affrettando il passo: e fu quella l'orazione funebre dell'uccisore alla sua vittima.
Come aspettasse impaziente il mattino, potete argomentarlo, o lettori. All'alba era già in piedi. Scese in giardino, ma senza ardir nemmanco di guardare dov'era rimasto il vuoto nella fila dei vasi, e se ne andò ad inaffiare le sue aiuole più lunge, da dove nessuno, che fosse nella prateria, avesse potuto veder spuntare il sommo della sua testa. Un'ora passò; quindi un'altra mezz'ora, e già egli pensava che la sua camelia fosse perduta senza utilità, allorquando udì levarsi dai piedi dell'olmo una voce che gridava:
–Signore! signore!
Il cuore gli balzò in petto; ma e' non si mosse. Intanto la voce ripigliava più forte: signore! ohè, signore?
Si avanzò allora fino al murello, e si provò a guardare. Gli era per l'appunto il giardiniere, che aveva rizzato la povera pianta, e stava col viso in aria a cercare di lui. I cocci del vaso erano sparsi sul terreno, ma il terriccio di castagno era agglomerato tuttavia intorno alle radici; la vittima respirava ancora.
–Signor…. signor…. La mi scusi; non so il suo riverito nome.
–Laurenti, ai vostri comandi, brav'uomo.
–Signor Laurenti, veda….. questa è roba sua;—proseguì il giardiniere, levandosi con una mano il cappello, e additando la camelia coll'altra.
–Che? come?—gridò Laurenti.—Oh la mia povera camelia! E come mai la è caduta? Forse il vento….
–Oh, non ha tirato vento, stanotte;—rispose il giardiniere.—Sarà stato quel tristo d'un Grigio. Sa Ella? un gatto bellissimo, ma e' ci ha il ticchio di scorazzar la notte, per dar la caccia ai topi. Si sarà arrampicato per l'edera fino alla fila dei vasi, e avrà fatto lui il malanno.
–Ah!—esclamò Laurenti. E siccome il Grigio non era lì per protestare, la calunnia ebbe corso.
–Mascalzone d'un Grigio!—proseguì il giardiniere,—se lo colgo, n'ha a toccare una serqua!
–Oh no; povera bestia!—disse Laurenti, che non voleva far bastonare un innocente, quantunque gli giovasse lasciarlo accusare.—Esso ha operato a fin di bene per ammazzarci i topi, e non gli s'ha a dare un castigo. Poi non è un gran male, quello che ha fatto; soltanto mi rincresce un tratto per quella pianta….
–Sicuro, una bella pianta! Camellia maculata Adhemari!—sentenziò il giardiniere dopo averne esaminati i bianchi petali chiazzati di rosso cupo.—Ma per ventura non la s'è fatta un gran male. Il peso del vaso la fece cader ritta.
–Ah, manco male.
–E purchè la sia rimessa subito in terra.. Veda, non ci ha che un ramo guasto, ma il tronco è sano, e le radici del pari; la terra non pare quasi che abbia fatto quel salto.
–Manderei a torla;—soggiunse timidamente Laurenti,—ma non ho il servitore in casa.
–Che! la porto io;—rispose il giardiniere, alzando il cespo da terra con molta accuratezza.
–Voi? Mi duole davvero che v'abbiate a pigliare questa molestia.
–Son pochi passi, signor…. signor Laurenti. C'è qui presso la postierla che mette nella viottola; due salti e sono da Vossignoria. Ah Grigio, Grigio! Ne fa sempre qualcheduna delle sue.
E così accagionando il povero Grigio, l'amico giardiniere s'incamminò per la discesa del prato, verso la postierla che aveva accennata a Laurenti.
Il nemico era dunque costretto ad accettare battaglia. Il primo colpo da gran capitano era fatto; e' bisognava saper fare il secondo; entrato in dimestichezza col giardiniere, cavargli le parole di bocca.
Laurenti andò a riceverlo sull'uscio di strada. Gli era un uomo sui cinquantacinque, piuttosto alto della persona, robusto e vegeto, dalle labbra tumide, indizio di bontà, e dagli occhi limpidi ed arguti. I capegli corti e brizzolati, in ragione dell'età; sulle guancie, sul mento e sul labbro superiore si scorgeva quella tinta turchiniccia che è segno di una folta barba, ma accuratamente rasa di fresco; e che fosse rasa di fresco, ante lucem, e per mano del suo legittimo padrone, lo dicevano cinque o sei tagli disposti in tutti i versi, con qualche goccia di sangue rappreso sui margini. Portava una camicia di tela grossolana, ma di bucato, il collare della quale si ripiegava in due lasagne sulle risvolte di un panciotto di pannolano cenericcio, partito a quadrelli, come i calzoni; ed aveva il capo coperto da un cappello di feltro nero, dalla testiera bassa e tonda, e dalla tesa larga, come usavano un tempo i cavalieri, e come usano adesso i contadini della Polcevera. Del resto, in maniche di camicia, come soleva stare tutto il giorno.
Entrò col cespo di camelia tra le braccia, salutando il giovanotto con quel sorriso che vuol dire: ci conosciamo, e non occorrono altri complimenti.
–Dove vuole Vossignoria che mettiamo questa povera ammalata?—disse egli, appena ebbero fatti pochi passi nel viale.
–Di qua, se non vi spiace, galantuomo.
–Galantuomo, sì certo, e Giacomo per sovrappiù, con licenza di Vossignoria;—aggiunse il giardiniere, che, come il lettore ha già veduto, era uomo faceto anzichenò.
–Orbene, Giacomo, venite qua, in fondo al giardino. C'è molta terra di quella che si confà alle camelie e posta a solatìo. Qui la metteremo, ed il Grigio sarà bravo, se verrà a buttarmela giù.
–Gatto indemoniato!—disse Giacomo, mentre deponeva il suo fardello sul ciglio dell'aiuola.—Se non fosse perchè distrugge i topi… Già, con licenza di Vossignoria, gatti e donne, diceva mio padre, buon'anima, nemici necessarii.
–O come, tutti a mazzo? chiese Laurenti, ridendo.
–Perchè no? Così gli uni, come le altre, debbono stare in casa; ma gli uni amano far le scappate sui tetti, e le altre….. volesse Iddio che ci andassero! In quella vece, amano andare attorno, con tanto di crinolino, e orecchini d'oro, e fanno gettare i quattrini a palate.
–Siete ammogliato, forse?
–No, per la grazia di Dio. Non nego d'essere stato lì una volta per pigliarla pur io; ma la donna ci ha avuto più giudizio di me, e n'ha sposato un altro. Baie, in fin dei conti; o dove diamine sono andato a parare?
–E chi ha cura delle vostre robe, e chi vi ammanisce il desinare?
–Che! o non ci ho le mani, io? Un po' d'acqua in pentola, poi un pizzico di sale, e il suo bravo spicchio di manzo a bollire, fino a che non sia cotto, o che il Grigio non me l'abbia cavato fuori, come fa qualche volta. Oh, non ha paura lui che la pentola scotti.
–Gli è proprio un gatto terribile, questo Grigio?
–Sicuro, ed io l'avrei già fatto correre di buone gambe, se egli non fosse il cucco, il beniamino, della signora Tonna.
Quella signora Tonna fu come una stilettata nel cuore di Laurenti. Tonna! Aspettava un nome leggiadro, e si udiva dir Tonna. Non già che, se la signora della palazzina si fosse chiamata Tonna, ei non l'avrebbe amata del pari; forse quel nome, portato da lei, sarebbe diventato anche bello. Ma per la prima volta, così alla sprovveduta, sentirsi a dire: la signora Tonna!
Chiedo scusa per Laurenti a tutte le signore Antoniette che mi leggono, se egli non potè mandar giù quel diminutivo, così poco vezzeggiativo, del loro nome, e se io pure sono costretto a pensarla come lui. Elleno poi, in nessun caso, neppure nel santuario della famiglia, non si lascino chiamar Tonna, nè Tonietta, e sarà tanto di guadagnato per tutti.
–Chi è la signora Tonna?—dimandò il giovinotto, dopo una breve sosta.—È la vostra padrona, forse?
–O che, le pare? È la donna di casa, la governante, e che so io; vecchia zitellona che biascia paternostri, legge le Vite dei Santi e mangia biscottini.
Laurenti respirò con tanto di polmoni, come dovrebbe respirare Encelado, se gli levassero l'Etna dallo stomaco.
Intanto il trapiantamento della camelia era condotto a buon fine, e il giardiniere dilettante, non volendo lasciarsi fuggire il giardiniere maestro, fino a che non si sbottonasse del tutto, lo tenne a bada col fargli vedere per ogni verso il teatro delle sue geste agronomiche e botaniche, considerate con molta attenzione, e lodate con acconcie parole dal sentenzioso orticoltore.
–Vossignoria conosce il mestiere a menadito. Già, loro signori, quando ci si mettono, vengono a capo d'ogni cosa.
Sempre intento a trovare un nuovo appicco al discorso che gli premeva, Laurenti condusse Giacomo a vedere le sue raccolte entomologiche, i suoi ofidii, i suoi batracii ed altre simiglianti bellezze della natura vertebrata. Le quali cose veggendo, e in particolar modo alcuni mostricini e pezzi patologici conservati nello spirito, il Giacomo spalancò la bocca ed inarcò le ciglia.
–Ma Vossignoria è medico!
–Medico e chirurgo;—soggiunse Laurenti—ma non ho studiato quest'arte, se non per impratichirmi in alcuni rami delle scienze naturali, e non ho mai più fatto un salasso, nè scritto una ricetta.
–Oh, non importa;—ripigliò il Giacomo.—Vossignoria ha da essere pur sempre un uomo che sa il fatto suo, da quello che vedo. Non fo per entrare nelle sue faccende, che non mi risguardano, e ricordo il proverbio dei miei vecchi: «impacciati ne' fatti tuoi;» ma Ella fa molto male a non esercitare una professione così bella. O che, mi canzona? Quel toccare il polso ad una persona, e veder subito, ad occhi chiusi, che cosa ci ha dentro di guasto; trovare per ogni male il suo rimedio, come io lo trovo per le mie piante….. E dire che le mie piante, quando hanno male, le si capiscono subito, e i rimedii si contano sulle dita; laddove per gli uomini, e per le donne, gli è un altro paio di maniche. Ma io vado fuori del seminato, con queste mie chiacchere…..
–No, caro Giacomo; amo anzi molto di barattare quattro parole colla brava gente del vostro stampo.
–Grazie della sua bontà!—rispose commosso il giardiniere, e nella commozione si lasciò andare a stendergli la sua mano callosa.—Verrò, con sua licenza, a vederla qualche volta, e per fare qualcosa, le darò anche una mano in giardino. Vossignoria, per esempio, mi scusi veh!… ma non la mi sembra aver molta pratica delle margotte.
–Avete un subbisso di ragioni; fo tutto d'inspirazione, come vedete, e avrò caro che mi correggiate. Ma… le vostre visite non dispiaceranno poi… al vostro padrone?
–Che padrone? Io non ho padroni. La mia signora, che è sola in casa e comanda lei, è una dama come va, e non sarà dolente, quando lo sappia, che io faccia qualche cosa per un così buon vicino, e sopratutto così cheto, che non lo si sente mai.