Kitabı oku: «Raggio di Dio: Romanzo», sayfa 20
Sciolto l’assembramento, e chetate alla meglio le ire cittadine, venne la volta di una severa inchiesta. L’inchiesta, si sa, è sempre severa. Il capitano Fiesco, eroe della giornata, non aveva nulla da nascondere; narrò tutto per filo e per segno. Nè dal suo racconto dissentì troppo quello che narrava il Ghiglione, mostrando il suo braccio affettato. Il naso rotto del Polceverasco era andato a farsi ristagnare il sangue alla fontana di Soziglia, nè fu il caso di chiamarlo in giudizio. Degli altri feriti la prudenza del luogotenente aveva anticipatamente sottratti a quel sommario processo i guasti e le querele. La giornata era tutta a vantaggio dei Fieschi; e i Fieschi, amici del governo di Francia, non si potevano trattar troppo male; tanto più ch’erano stati provocati. Anche l’eccelso Gian Aloise, avvertito in fretta dell’accaduto, era sceso dalla sua ròcca di Vialata con un drappello di cavalieri, e portava a palazzo il peso della sua autorità. Raccomandava anch’egli concordia; voleva anch’egli giustizia; ma sopra tutto che si levasse ogni argomento di nuove dissensioni in città, insegnando a tutti il rispetto delle leggi. Intanto lodava il cugino, che non si era lasciato sopraffare, mostrando come i Fieschi si sapessero guardare da sè contro le violenze dei mascalzoni.
– Per avventura, cugino Bartolomeo, – diceva egli sottovoce al valoroso parente, mettendogli l’eccelsa mano sulla spalla, – sono stato io, con certe parole un po’ matte, che vi ho fatto saltar la mosca al naso? E non mi pento di averle dette, se mai. Per opera vostra sapranno i villani che a toccare i Fieschi ci si scottan le dita. —
Il capitano Fiesco sorrise, pensando che proprio a lui, nemico giurato d’ogni discordia, era toccato di dare il mal esempio alle turbe. Ma in verità, lo avevano tirato pei capelli.
A proposito di esempi, ce ne voleva uno, e terribile. Il luogotenente Roccabertino non ebbe ritegno a darlo, sbandendo dalla città il conte Bartolomeo Fiesco e il macellaio Ghiglione. Era la giustizia, sebbene attenuata di molto, del cadì d’Alicante, di burlesca memoria, che sentiva attentamente le ragioni dell’ebreo e quelle del cristiano; poi, chiunque avesse ragione dei due, faceva somministrar loro venticinque legnate per uno. Il Roccabertino, sangue spagnuolo, non arabo, sopprimeva le legnate, contentandosi di bandir le due parti. Per altro, non si fidassero troppo della sua grande bontà; a chi rompesse il bando era minacciata la morte. E con ragione; che i banditi del mese innanzi rientravano tutte le sere in città, e la giustizia n’aveva avuto uno smacco.
– Intendiamoci, dunque; – diceva il signor luogotenente, nell’atto di scendere dal suo tribunale. – Chi rompe paga; e a chi rompe il bando, è pena la testa.
– Per quel che mi risguarda, non dubitate; – rispose il capitano Fiesco. – Parto oggi stesso, e vado lontano, molto lontano, a condir con le lagrime il duro pane dell’esule.
– Sta bene, sta bene; – borbottò il Roccabertino, passandogli accanto accigliato.
Ma sotto voce aggiungeva:
– A Gioiosa Guardia, non è vero? Così potessi seguirvi! —
Capitolo XX.
Raggio di Dio
Gioiosa Guardia! Gioiosa Guardia! E voi stavate là, bella ròcca dalle cinque torri e dall’alta bandiera sventolante nel sereno, tra il Graveglia e l’Entella, aspettando i vostri signori, ed annoiandovi parecchio, nè più nè meno di don García, vostro grigio ed allampanato custode. Ma quando la nobile coppia fu annunziata dal frate scudiero, che faceva da battistrada, quando ella giunse alla vista delle cinque torri, che gazzarra di falconetti dai vostri bastioni! che allegro scampanío dal battifredo, e che gaio andirivieni di sagola, lunghesso l’asta della bandiera, per dare ai ritornanti il triplice saluto del drago nascente e del gatto sedente, affrontati sullo scudo bandeggiato d’azzurro e d’argento!
La veneranda madonna Bianchinetta strinse lungamente al seno i suoi figli, baciandoli e ribaciandoli. “Mi ridate dieci anni di vita„ esclamava la nobil signora, piangente di gioia. Nè a lei raccontarono tutto ciò che avevano sofferto in quei tre mesi di assenza. Perchè turbar la sua pace col racconto dei pericoli incontrati? Alla vecchiezza adorata, che abbellisce la nostra casa dopo averla fatta prosperare, noi non dobbiamo offrir altro che immagini ridenti, in tributo di devozione, in ricambio di benefizi. Un soave tramonto è così caro compenso alle nostre faticose giornate!
Ma del passato doloroso si ricordavano ben essi, che tanto ne avevano sofferto. E si guardavano in viso, quasi per assicurarsi scambievolmente della loro felicità. “Siamo noi?„ dicevano. “Proprio noi, qui, nella nostra pace, che è stata messa a così grave rischio laggiù? Tu l’hai sopportato con animo forte, o Fior d’oro! E tu l’hai scongiurato con ogni poter tuo, o Damiano, che non avresti saputo sopravvivermi! Ma confessiamo, giunti alla riva, d’esserne scampati per un vero miracolo. Anima del mio cuore, come dicono così bene di là dai Pirenei! anima dell’anima mia!„
Nè solamente pensavano a sè stessi, come fanno nel loro egoismo tante coppie felici. Si rattristavano ancora, e spesso, pensando al signor Almirante, anima grande su tutte, raggio di Dio, così dolorosamente sparito dalla faccia del mondo.
– Io gli ergerò un tempio nel mio cuore; – diceva Juana. – Egli ha data la sua vita per benefizio del genere umano; ma a nessuna creatura mortale è stato più cortese dispensatore che a me. Se egli non era, se l’ingegno suo non divinava un mondo di là dai mari sconosciuti e terribili, se la sua costanza non vinceva ogni difficoltà, se non superava ogni ostacolo, ti avrei conosciuto io, bel conte? Un po’ matto, non è vero? – soggiungeva la bellissima donna, ridendo di quel suo bel riso che invitava ai baci. – Ma io ti amo così. Troppo gravi e severi, vi fanno santi, e andate ad abitar nelle nuvole. Anch’egli, il Giocomina, di cui forse noi soli in Haiti abbiamo inteso il carattere divinamente paterno, anch’egli ha amato, come ogni mortale; e felice tra tutti, nella medesima grandezza delle sue sventure, ha meritato l’amore d’una Beatrice di Bovadilla. —
Povera Bovadilla! meritava bene di non essere dimenticata, da due cuori amanti, da due anime elette. Le avevano detto, innanzi di lasciare la Spagna: “marchesa, venite con noi; parleremo ogni giorno di lui.„ Ed ella aveva tristemente risposto: “no, amici, no; la mia vita è infranta. Laggiù, nel mio monastero di Siviglia, raccolta nell’ombra, parlerò di lui ogni giorno con Dio; con Dio che riceve i cuori afflitti, e nel dolore li affina, per renderli degni di quell’amor vero e profondo, che, non senza il suo consiglio, era nato e cresciuto.„
Dal suo convento di Santa Chiara la dolente signora scriveva nell’ottobre di quell’anno ai suoi buoni amici di Gioiosa Guardia:
“Penso che davvero non vi vedrò più in Ispagna. Il re Ferdinando trionfa: chi l’avrebbe mai detto? Sapete che dopo un colloquio con Filippo suo genero, colloquio dal quale non era uscito senza vergogna, egli aveva presa la via d’Aragona, lasciando ogni sua pretensione alla reggenza di Castiglia. Di là, s’era imbarcato per Napoli, volendo pagare Consalvo di Cordova della stessa gratitudine onde aveva pagato il nostro immortale Colombo. Ma ecco, mentre il generoso Ferdinando è in viaggio, il 25 settembre, muore a Burgos il re Filippo; Giovanna impazzisce del tutto, la poveretta! e il virtuoso Ximenes persuade i miei Castigliani a riconciliarsi col re d’Aragona, unico che possa prender le redini dello Stato. Sicuro; e si è giunti a questo, di richiamar Ferdinando. Questi, come vi ho detto, era in viaggio; i venti contrarii avevano obbligato il suo naviglio a cercare un rifugio in un punto della spiaggia di Liguria, che dovrebb’essere molto vicino a voi, e che si chiama Portofino. Avvisato laggiù, non si degna di rispondere; vuole dar tempo al tempo, il gran furbo. Arriva a Napoli, dove lo raggiungono altre preghiere; fa il sordo; ma fino a quando? Io son sicura che al terzo scongiuro si commuoverà la grande anima sua, e noi riavremo quella gioia di re.„ —
Quello che non poteva ancor dire la marchesa di Moya, scrivendo nell’ottobre del 1506, soggiungeremo noi ora. Il re Ferdinando si fece ancor pregare e scongiurare dell’altro, dando tempo al Ximenes di avvezzare i Castigliani alla nuova reggenza, e di fargliela perfino proporre dalla figliuola Giovanna; la quale, nei lucidi intervalli della sua ragione, vedeva pur troppo di non reggere al peso della corona. Ed egli non si mosse da Napoli, se non il 4 giugno dell’anno seguente. Anche qui i venti contrarii lo molestarono nel suo tragitto; di guisa che egli e la regina Germana presero terra a Genova. Era anche nei disegni del re Cattolico di avere un colloquio con suo zio il re Cristianissimo, che aveva allora allora ripigliato Genova, dopo la sua ribellione e il tragico dogato di Paolo da Novi. Il re Luigi era già in moto per ripassare le Alpi: saputo il desiderio del nipote (un nipote che aveva dieci anni più dello zio) gli diè la posta a Savona, dov’egli si volse per terra, e dove Ferdinando andò per mare a raggiungerlo, il 28 di giugno. Vi fu ricevuto con grandissima pompa, e non ci stette senza sospetto, nè senza le opportune cautele, facendo calare a terra quanta gente più potè dalle navi. Stettero i due re quattro giorni in istretti e segreti ragionamenti; parvero dimenticare le ruggini antiche, e certamente lavorarono di buzzo buono a ribadire ognuno dei due la sua parte di catene ai piedi e alle mani della povera Italia.
Ferdinando s’era condotto dietro Consalvo di Cordova, il vero conquistatore del reame di Napoli. E gliene aveva levato il comando, promettendogli in Ispagna il gran maestrato dell’ordine di Sant’Iago, che poi con la solita fede, si guardò bene di dargli. Avendolo con sè, dovette presentarlo al re Cristianissimo: il quale, pur ricordando di aver perduto Napoli pel valore del Gran Capitano, non si saziava di contemplare un tant’uomo, e con la sua bella cortesia francese impetrò dall’ospite l’onore di aver Consalvo alla loro mensa, unico suddito, messo alla pari con una regina e due re. Fu l’ultimo giorno della gloria di Consalvo, che in Ispagna non fu più adoperato dal suo signore, nè per opere, nè per consigli; e rimase ott’anni a sfiorire nell’ombra, per morire il 2 dicembre 1515. Allora, poi, scoppiò per Consalvo la gratitudine del re Ferdinando, com’era scoppiata per Cristoforo Colombo, le cui reliquie, tolte nel 1513 dal chiostro di San Francesco in Valladolid e trasferite a quello dei Certosini de las Cuevas di Siviglia, ebbero per concessione regale l’onor della scritta:
Por Castilla y por Leon
Nuevo mundo halló Colon.
Era un distico fiorito sulle labbra della riconoscente Isabella, e passato in proverbio nel popolo, prima che fosse inciso nel marmo. Ad un morto, del resto, si poteva render giustizia, purchè fosse ben morto; e sette anni erano sicuramente bastati a darne certezza. Figurarsi! Era così morto, anche nella memoria degli uomini, che il nuevo mundo da lui hallado, ossia ritrovato, non da lui prendeva nome, ma da un altro italiano, che ne aveva delineati i contorni, mettendo la sua riveritissima firma a’ piedi del foglio. Sic vos non vobis. Dicono che lo sbaglio di prendere per iscopritore del nuovo continente il modesto disegnatore d’una carta da navigare, sia stato commesso da una società di dotti. Possibilissimo; è dei dotti l’errare, come degli ignoranti l’andare sull’orma.
Abbiamo accennato di Luigi XII, che aveva ripreso Genova, ribellata al suo alto dominio; e dobbiamo dir brevemente come fosse andata la ribellione. Al tumulto del luglio, ove il capitano Fiesco, andando a casa sua col miglior proposito del mondo, aveva fatto uno sproposito madornale, altri n’erano seguiti, non più potuti sedare dal luogotenente Roccabertino, nè dal governatore di Ravenstein; i quali, lasciato Galeazzo di Salazar con un buon presidio nel Castelletto, dominante la città, andarono altrove ad attendere le risoluzioni del re; mentre i nobili si ritiravano nelle loro castella, e con essi la più parte dei popolari, poichè le Cappette avean presa la mano, fatto nuova magistratura di tribuni ed eletto un doge dei loro, che a tutto provvedesse, a restaurare l’autorità della repubblica nelle riviere, da Sarzana a Monaco, e a preparare la resistenza contro le armi di Francia. Troppa carne al fuoco; e mentre si perdevano in un vano assedio sotto Monaco, che era di Luciano Grimaldi, e in minacciose scorreríe da Rapallo a Sarzana, per abbattere la potenza di Gian Aloise Fiesco, non si rafforzavano abbastanza in città, per contenere gli assalti del re Cristianissimo. Il quale si calò nell’aprile del 1507 dal Giogo, e posto quartiere in Rivarolo, spinse tosto le sue avanguardie, coi signori di Chaumont e di La Palisse, sulla vetta di Promontorio, ch’era certamente il punto più debole della difesa di Genova. Fu accanita la resistenza del popolo, e il La Palisse ricacciato con gran perdite, egli stesso gravemente ferito d’un verrettone alla gola; ma al signore di Chaumont, dopo un primo rovescio, venne pur fatto di collocare in buona postura due cannoni, che coglievano di fianco i difensori del colle. Cedettero questi; e con essi, per tema d’esser tagliati fuori, anche i defensori del bastione si ritrassero verso il Castellaccio, lasciando sguarnito il passo di Promontorio, donde il nemico si mostrò minaccioso alla città costernata. Si venne agli accordi, e per la città trattarono i popolari, la cui partecipazione alla rivolta era andata meno oltre; ma i patti furono durissimi, e il 28 aprile il re Cristianissimo, entrato per la porta di San Tommaso in città, levando la spada, potè gridare con voce alta e minacciosa: “Genova superba, ti ho domata coll’armi„. Si rizzarono le forche in più luoghi; parecchi della plebe vi furono impiccati, ed uno dei popolari, Demetrio Giustiniano. Molti furono proscritti: si tornò il governo all’antica forma, metà degli onori ai nobili, metà ai popolari, che più non rifiatavano; onde ne facevan le grasse risa i vincitori.
Stette in Genova il re Luigi fino al 14 maggio, sfoggiatamente ricevuto e banchettato in Vialata dall’eccelso Gian Aloise Fiesco, reduce dal suo castello di Montobbio. Nè gli mancò l’omaggio delle dame, nel convito offertogli da madonna Battistina vedova di Giovanni Ceba Grimaldi, la quale avea pure un suo parente nel novero dei proscritti. Ricevuto il giuramento di fedeltà dagli anziani sulla piazza del pubblico palazzo, decretò che si mutasse il conio della moneta; e laddove era scolpito Cunradus rex Romanorum, in memoria dell’antico privilegio imperiale del 1138, fu sostituita la leggenda: Ludovicus XII rex Francorum Januae dux, con lo scudo dei tre gigli e la corona, in luogo dell’antica croce. La quale comparve bensì nel rovescio, aggiunta sull’antico castello; ma la scritta non fu più Janua come era prima, a significare la città signora di sè, ma Comunitas Januae, per dire che un comune si riconosceva, non più una città dominante, un capo di repubblica.
Tacciamo della fortezza innalzata allora a Capo di Faro, e chiamata a scherno la Briglia; di Paolo da Novi, tintore e doge, accenniamo brevemente che andato a Pisa, e imbarcato su d’un brigantino per Roma, fu riconosciuto dal capitano della nave, un Corso già stato suo soldato, e da lui venduto per ottocento ducati ai Francesi. Condotto a Genova il primo di giugno, e rinchiuso nella fortezza del Castelletto, fu il quindici di luglio condotto al patibolo, rizzato per lui sulla piazza del pubblico palazzo. Nobili e popolari assistevano al legale assassinio. Morì da eroe; il capo troncato messo in cima d’una lancia sulla torre del palazzo; del corpo fatte quattro parti, ed appese sulle porte della città. Bene ispirato sul palco, innanzi di dare il collo alla mannaia, aveva egli esortati i suoi cittadini a non fidarsi dei grandi, qualunque fosse la classe loro, di nobili, o di popolo grasso, di tetti appesi, o di cappellacci; mentre egli, per fidarsi generosamente di essi, era condotto a quel termine.
Ed anche meglio ispirato il capitano Fiesco, che si era tappato nella sua Gioiosa Guardia, nè per preghiere, nè per larghi partiti che gli facessero, voleva più spiccarsi di là. Passavano i congiunti, e li accoglieva a festa; ma non isperassero di tirarlo nei loro armeggiamenti. Che cosa aveva egli a vedere nelle ambizioni di quell’ottima gente del suo casato, egli rifatto dentro e fuori, ribattezzato e riconfermato in altre ambizioni più alte, nel nome e nella fede di Cristoforo Colombo? Più largo orizzonte vedeva egli, quantunque paresse chiuso in quel fondo di valle.
Era capitato tra gli altri messer Filippino. Il giovanotto s’era coperto di gloria in una fazione presso la Spezia, combattendo contro le forze dei commissarii mandati dal governo popolare a sommuovere la riviera di Levante. Carico di allori, non aveva saputo resistere alla tentazione di fare una visita alla Gioiosa Guardia. Il capitano Fiesco lo avrebbe tanto volentieri fatto ritornare sopra i suoi passi, e per via più spedita, come a dire per una delle grandi finestre, che davano luce alla sua caminata. Ma la contessa Juana osservò giustamente che quello non sarebbe stato un tratto da ospiti. Messer Filippino era un seccatore; ne conveniva anche lei. Ma forse era diventato tale, perchè non gli si era mai parlato chiaro; e del parlargli chiaro non c’era mai stata l’occasione.
– Mi lasci sola una mezz’ora con lui? – chiese ella al marito. – Egli parla, ed io gli rispondo.
– Che cosa gli dirai?
– Ecco il geloso!
– No, sai? non è per questo. Di’ piuttosto il curioso.
– E al curioso non posso dir niente fin d’ora. Una risposta, per esser calzante, deve conformarsi alla domanda; non ti pare?
– È giusto; – conchiuse il capitano Fiesco. – E il curioso, poichè il geloso non c’è, ti lascia libero il campo. —
Messer Filippino ebbe così il destro di parlare, e la disgrazia di dar nella pania. Amava disperatamente; voleva compiere imprese mirabili per la donna amata, come un altro Lancillotto del Lago; si sarebbe ucciso, se la nuova regina Ginevra non gli avesse dato la sua mano a baciare. La contessa Juana, che di tornar regina non voleva saperne, ribattè punto per punto, senza andare in collera, il pazzo ragionamento di messer Filippino. Baciarle la mano? Lo poteva sempre, in solenni occasioni, davanti alla corte congregata, e nel cospetto di Artù. Far grandi imprese, incontrar pericoli strani per lei? Non n’era più il caso; e quando c’era stato, non lui, Filippino, ma un altro Fiesco ci aveva messa la vita, compiendo tali prodezze, che a narrarle sarebbero parse incredibili. Ed ella amava quel prode. Quanto all’uccidersi, perchè? Non valeva niente la sua vita? E se non valeva niente, perchè l’offriva a lei? Facesse meglio, il buon cugino; vivesse per l’utile della sua patria, e per la gloria del proprio nome; fosse cavaliere con la sua parente, come ella voleva esser tenuta da tutti; e a lei ne dèsse una prova solenne, rispettandola un poco.
Il bel Filippino chinò la fronte, umiliato e contrito. Risanò del suo male, perchè era giovane, e la gioventù abbonda di forze riparatrici. Nè con questo si vuol negare che altri risanino, perchè son vecchi; ma in questo caso è forse da conchiudere che la vecchiaia non abbia più forze bastanti da nutrire a lungo i suoi mali. Del resto, giovani o vecchi, che vuol dire? È degli amori come dei semi della parabola: hanno bisogno anch’essi del terreno propizio; gittati sulla strada, non hanno tempo a metter le barbe; nei sassi non durano; nelle spine si affogano.
L’ospite rimase poco alla Gioiosa Guardia, quel giorno. Forse gli pareva che la ròcca non meritasse punto il suo nome. Aveva anche tanto da fare, il giovinotto! Di restare a cena neanche parlarne, poichè doveva ritrovarsi quella sera a Rapallo. Il capitano Fiesco lo lasciò andare, con quelle vuote parole che si smozzicano tra i denti quando non si ha niente da dire, e con quell’aria un po’ melensa, che gli uomini accorti san prendere così bene ad imprestito dagli sciocchi, quando a mostrarsi accorti non c’è nè gusto nè grazia. E se ne andò in giardino, dove la contessa non tardò molto a raggiungerlo.
– Se Dio vuole, – diss’ella, sedendo accanto a lui sopra un bel sedile di quella pietra che la vicina Lavagna mandava così gentilmente lavorata ai suoi conti, – questa volta è finita. Gran cosa, poter parlare con libertà! Filippino non torna più a far sonetti.
– Vorrai dire che non tornerà più a recitarne, del Petrarca, nè d’altri; – rispose il capitano Fiesco, che non era geloso, ma non sapeva perdonare a Filippino le sue smanie amorose. – Non è nato poeta, quel poveraccio; e ti sarà anche riuscito un cattivo oratore. Ah, non mi dir nulla; non voglio fare il curioso; mi basta d’esserne fuori. Pensiamo ad altro, Fior d’oro. Vedi che tramonto di sole! che bellezza! che gloria! Chi non sarebbe poeta, davanti ad uno spettacolo come questo? Ah, se la mia bella amica volesse!..
– Che cosa?
– Prendere il suo maguey, che dorme nella sua camera, appeso all’arpione, e improvvisare un bel canto, nella dolce lingua di Haiti, come due anni fa sulla spiaggia di Cahonana! —
A quel ricordo si commosse Fior d’oro, e si strinse fremendo al petto di lui.
– Ahimè! – mormorò ella. – Non ricordi, Damiano, come diceva l’areyto?
Triste, il sento, è questa pace,
Se il bel sol d’Haiti fu;
L’augel de’ boschi tace,
Non canta in servitù.
– Vero; – rispose Damiano; – ma l’areyto non prometteva di tacere per sempre. Il canto morrà sul labbro, dicevi allora, ma starà sepolto nel cuore che l’amò tanto.
Dolce al par d’una carezza
Dell’amor, qui poserà…
Se il cor non mi si spezza,
Rivivere potrà.
Fior d’oro rimase un istante pensosa, più stretta che mai la persona al petto del suo Damiano, e la testa mollemente inchinata sulla guancia di lui. Tutto ad un tratto si alzò, spiccandosi dall’amato, e mettendosi un dito sul labbro, come per esortarlo a star cheto; poi, rapida si dileguò tra i roseti, andando verso le sue stanze. Perchè? Damiano sperò di averlo indovinato, il perchè; e la sua speranza si mutò in una lieta certezza, quando vide Anacoana tornare a lui col tamburello haitiano.
– Adorata! – gridò, abbracciandola forte.
– Giù le mani! – diss’ella, con accento e con gesto che volevano parer molto severi. – Così si rispettano i poeti? —
Damiano, gran fanciullone un po’ viziato dalle carezze, ma cavaliere nell’anima e buon servitore della sua dolce regina, non solamente si chetò, ma si chiuse in religioso silenzio. La dolce regina, seduta daccanto a lui, stava guardando il sole, che volgeva superbo all’occaso, sotto un gran padiglione di porpora, onde frangiava i lembi d’un bel color d’oro paglierino, rutilante e vibrante come cosa viva. Scendeva il bell’astro, lento e glorioso, mandando un raggio obliquo sulla marina, la cui superficie, tinta d’azzurro carico, luccicava interrottamente per lunghe e tremule chiazze di rosso cremisi, balenando, fremendo, rabbrividendo, sotto la luminosa carezza del suo vincitore. Per le intente pupille accogliendo quella gran luce, pensava la bellissima Anacoana, mentre col sommo delle dita veniva percuotendo la pelle squammosa del maguey; pensava, e canticchiava sommessamente, ricercando insieme, alla guisa degli antichi trovieri, il suono ed il motto.
L’ispirazione era giunta; lo dissero ad un tratto il baldo sorriso delle labbra e il lampo trionfale degli occhi. E così prese a dire improvviso la Corinna di Haiti, per una volta ancora cantando nell’idioma della patria lontana; dolce e triste idioma, che doveva morire con lei!
Il sole, bel sole, discende
Al bacio dell’onda marina:
La bella le braccia gli stende,
E palpita, freme, s’inchina.
Di lividi mostri alla caccia,
Gigante, finisti il tuo dì;
Ti schiude le cerule braccia,
Ti stringe ella sempre così.
Schiere di spiriti rosei
Vigili stanno su te;
Oro sul capo ti piovono,
Perle ti spargono ai piè.
Tu pure bel raggio di Dio,
Nocchier che gran notte vincesti!
Tu giusto, tu mite, tu pio,
Tu degno dei doni celesti!
Fu dura la lunga giornata,
Gran rischio a men salde virtù!
E pace la morte invocata,
E gloria la tomba ti fu;
Mentre ripensa la vergine
Terra il tuo bacio e la fè,
Quando, già domo l’Oceano,
Lieta la festi di te.
Gran luce, su quante del mondo
Arrisero all’aspro viaggio!
Gran luce, e fu gaudio profondo
Scaldarsi al divino tuo raggio.
Così dentro spera di sole
Un nembo di vite passò;
Felice tra guizzi e carole
In gloria di luce nuotò.
Gloria sul fido manipolo
Ch’ebbe sua luce da te!
Mute dilagan le tenebre
Sopra le corti dei re.
Bel sole! nei vortici oscuri
Lo incalza de’ mostri lo sdegno:
Nell’ombra gli spiriti impuri
Anelano un’ora di regno.
Ma lui nella pompa primiera
Il novo mattino vedrà:
Nei putridi stagni la schiera
Dei mostri notturni cadrà.
Te, divin raggio, più limpide
Sfere richiamano a sè:
Questa, che l’odio contamina,
Degna non era di te.