Kitabı oku: «Terra vergine: romanzo colombiano», sayfa 3
– Si faranno ruvide quanto è necessario; – rispose Cosma, inorgoglito da quella dimostrazione di benevolenza, ma anche un pochettino turbato.
– Sta bene; – disse l'almirante, sorridendo. – Quantunque, io non domandi ciò come una qualità necessaria… a mani di cavalieri.
– Messere… – mormorò quell'altro, più turbato che mai.
– Oh, non temete, non voglio andare più in là, – rispose l'almirante. – I vostri nomi, se ben ricordo, sono…
– Cosma e Damiano; – si affrettò a rispondere Cosma.
– E Cosma è lui, e Damiano son io; – soggiunse Damiano.
– Benissimo. Due nomi di fratelli!
– Noi non siamo che amici; ma come fratelli ci amiamo.
– E perciò avete preso il nome da due santi fratelli, che erano anche colleghi di professione; – replicò l'almirante. – Erano infatti due medici, e del primo di loro mi pare di aver letto in un certo libro, che si conservi ancora una ricetta.
– Sono anche i santi protettori dei pellegrini; – disse Cosma, che pareva poco desideroso di stare sull'argomento della medicina.
– Siano dei pellegrini o dei medici, son sempre due benefattori; – conchiuse l'almirante. – E voi certamente avete assunti i lor nomi per adempimento di un voto.
– Vostra Eccellenza legge nei cuori come nei libri; – disse Damiano. – Siamo infatti legati da un voto.
– Per il quale, probabilmente, avrete lasciati gli agi della vita, venendo partecipi alle fatiche, ai pericoli di questo viaggio: non è così? —
I due marinai non risposero parola. Ma per essi rispondeva la sapienza dei popoli, stillata in proverbi: chi tace acconsente.
– Non voglio chiedervi ciò che non potete dirmi; – riprese Cristoforo Colombo. – Siete genovesi, e basta ciò, perchè io v'abbia in conto di fratelli. Ricordate soltanto che bisogna amarla, amarla molto, la terra dove si è nati; amarla tanto più, quanto essa è più sventurata. Sapete quanto abbiano fatta dolente la nostra povera patria, le discordie maledette dei suoi figliuoli!..
– Voi dite bene, messere, – rispose Cosma. – E noi lo abbiamo ricordato già molte volte, pensando a voi.
– A me?
– Certamente. Ecco un uomo insigne, dicevamo tra noi, un uomo che ha fatto un disegno sublime, e potrebbe e vorrebbe darne la gloria e il profitto alla patria; ma perchè la patria non è in condizione d'intenderlo, egli deve rivolgersi ad altre nazioni, dando ad altri il profitto e la gloria delle opere sue.
– Ah! – gridò l'almirante. – Lo intendete anche voi che dolore sia questo? e come profondo? Io non lo dico a nessuno, perchè nessuno lo intenderebbe. Pazienza, miei giovani amici! E lasciamo questo argomento tristissimo. Intanto, le vostre parole mi han detto assai più che non dicessero le vostre mani. Vorrei fare qualche cosa per voi; chiamarvi almeno tra i miei ufficiali. Ma quante invidie si desterebbero! Non per ora, adunque. Il giorno che avremo toccata la terra promessa, io sarò davvero vicerè e governatore; e quel giorno, vedremo.
– Guardatevi intanto, messere. Noi non abbiamo mestieri che di una cosa: di vedervi incolume, trionfante su tutti i vostri nemici. Laggiù avete avuto da lottare coll'invidia; qui avete da lottare coll'ignoranza.
– E sempre con la malvagità; – conchiuse Cristoforo Colombo. – Ma le vostre parole mi fanno ricordare ciò che volevo dire poc'anzi. Vi chiedevo se eravate marinai, per raccontarvi del primo capitano con cui ho imparata l'arte del navigare. Eravamo nelle acque dell'antica Cartagine, atterrati, con un vento che non si potrebbe immaginare di peggio. Non si poteva reggere al mare, bisognava ormeggiarsi e tener fermo ad ogni costo. Ma le áncore aravano, per la forza della corrente, e si temeva di andare da un momento all'altro a battere negli scogli.
– Un guaio; dei grossi – esclamò Damiano.
– Certamente; – rispose Cristoforo Colombo – e non c'era tempo da perdere. Il comandante ordinò di mettere mano all'áncora della speranza. «Credete – diss'io – che ci farà buon servizio?» Domandavo troppo, più ch'egli non potesse sapere. Ma ad ogni modo, me la trovò lui, la risposta: «Getta l'áncora e spera in Dio!» E così, come mi fu consigliato nella mia prima navigazione, ho fatto io in tutte le altre che seguirono.
– Confidiamo nel suo alto volere; – disse Cosma, inchinandosi.
– Ma pensiamo ancora, – soggiunse Damiano, – che chi s'aiuta Iddio l'aiuta.
– Oh, sicuramente! – rispose Cristoforo Colombo, non potendo trattenersi dal ridere, alla pratica ammonizione. – Vi ho già detto che farò buona guardia alla mia vita, se occorrerà; non aspetterò che mi assalgano; andrò io contro ai loro disegni. Non si compiace di sfidare i bassi pericoli, chi ha cuor d'affrontare i maggiori. Ma se è necessario di entrare in lizza coi rivoltosi, anche questo farò. Voi, frattanto abbiate per certa una cosa: che presto, con l'aiuto di Dio, saluteremo la terra.
– Con questa fede siamo venuti; – disse Cosma.
– E ci sia pure da navigare altrettanto, non ci lagneremo, noi altri; – soggiunse Damiano. – Voi dite, messere, che si serve a Dio, con questo viaggio.
– È la mia opinione.
– E bisogna dunque servirlo allegramente. Lo raccomanda perfino il Salmista. —
L'almirante sorrise e battè amorevolmente della destra sulla spalla di Damiano.
– Ottimamente, giovanotto! – esclamò. – E che Iddio vi guardi ambedue. Ma domandiamogli ancora una grazia; – soggiunse. – A persuadere questa gente che ha il furore della paura, un buon vento gagliardo, e da ponente, farebbe meglio di tutti i nostri discorsi. —
Capitolo III.
Di una bella sconosciuta che mandò a Cristoforo Colombo un ramo di spino fiorito
Cristoforo Colombo era stimato un gran dotto in materia geografica, cosmografica ed astronomica, quando non era stimato un impostore, od un pazzo. Per lui, si sa, erano stranamente mutevoli i giudizi del volgo, nobile o plebeo che si fosse; e saltavano da un estremo all'altro, come qualche volta usano saltare i venti, dal primo al terzo, o dal secondo al quarto quadrante. Si può dire, dopo aver letto attentamente la storia della sua vita fortunosa, che gli storti giudizi, i sospetti, le animosità contro di lui non posassero mai intieramente finchè egli visse, da prima volendo regalare per forza un nuovo mondo alla Spagna, poi disputando ai suoi grandi una corona di vicerè nelle terre scoperte, e da ultimo combattendo virilmente per la propria fama, per il proprio onore, per il proprio decoro, contro le invidie e le ingratitudini congiurate. Ma ci furono anche nella sua vita, e frequenti, i giorni della lode e della reverenza universale. Ci furono anche i giorni in cui egli era tenuto per un gran mago, padrone di alti segreti naturali, e capace di comandare agli elementi coll'autorità di misteriose parole. E per un negromante, di sicuro, lo avrebbero tenuto i marinai della Santa Maria, il giorno 22 settembre del 1492, se dieci o dodici ore prima, cioè nel cuor della notte che fu sopra a quel giorno, lo avessero udito domandare al cielo un vento gagliardo di ponente.
Quel vento si levò per l'appunto nella giornata, fortissimo, teso, dritto da prora; tanto che fu necessario serrare i velacci e le basse vele, prendendo i terzaruoli alle gabbie ed anche alla mezzana, per mettersi alla cappa serrata. Non si navigava più, con quel vento indiavolato al traverso; ma ne avevano anche una patente mentita le sciocche paure dei marinai.
– Ed ora direte ancora che in questi paraggi il vento fresco soffia soltanto da levante! – esclamò l'almirante, volgendosi a Perez Matteo Hernea, suo pilota.
– Non lo dirò più, ve lo giuro; – rispose umiliato l'Hernea.
Il giorno seguente, le cose mutarono. Pareva proprio che quel vento da ponente si fosse levato solamente per dar ragione a Cristoforo Colombo, contro il suo equipaggio, e che, dopo aver fatto quella buona testimonianza per lui, non avesse più motivo di soffiare. Cadde, infatti, e il 23 ripigliò la brezza di levante, con cui si poteva andare a gonfie vele per la rotta stabilita.
La Santa Maria aveva dato gloriosamente tutta la sua tela al vento. Ma non durò a lungo con quella velatura di buon tempo. L'almirante, a un certo punto della giornata, comandò di serrar fiocchi, velacci, vela di maestra e mezzana, contentandosi di navigare con la gabbia, il trinchetto e la trinchettina. Certi punti neri all'orizzonte, diventati presto nuvoloni, l'aria più fresca, un color di piombo sulle acque, gli avevano annunziato imminente un temporale.
Non si era ingannato. Il temporale si avanzò minaccioso, oscurando il cielo e sollevando il mare a tempesta. Le navi balenarono un poco, indi presero a menar la ridda sui flutti, ora balzando sulle creste spumanti che il vento incalzava, ora ascondendosi a mezzo nei profondi intervalli, per cui pareva che volesse ad ogni tratto scoprirsi il fondo degli abissi.
La tela al vento era ancor troppa; e l'almirante comandò di prendere i terzaruoli alle gabbie. Poi, rinforzando il vento, le fece serrare a dirittura, ed egualmente il trinchetto, di guisa che la nave prese a correre con la sola trinchettina.
– Che mare, Santa Vergine! – disse Damiano al compagno, mentre scendevano da serrare le gabbie. – Par quello che ha inghiottiti gli Egiziani, quando volevano dar la caccia agli Ebrei.
– E quello fu per miracolo; – rispose l'almirante, davanti a cui passavano i suoi due Genovesi. – Così credo che sia anche questo. Ci vogliono dei miracoli, per ischiodare il cervello a questa gente. Del resto, – soggiunse, – le ondate propizie al gran salto son qua; e i miei nemici hanno già troppo da fare per sè, aggrappandosi al capo di banda, o alle sartie. —
La burrasca non si chetò che verso il mattino del 24. Col sole ritornò la calma sul mare. Le caravelle, così duramente travagliate da quella collera d'elementi, ripresero la loro velatura ordinaria, e col vento più maneggevole si fecero a navigare di conserva. La Pinta, anzi, venne accostandosi quanto più poteva alla Santa Maria.
– Ecco Martino Alonzo che ha qualche cosa da dirmi; – pensò l'almirante.
Difatti il comandante della Pinta voleva parlare a Cristoforo Colombo. Questi, alcuni giorni prima, gli aveva fatta passare la carta nautica, a lui mandata da Paolo Toscanelli: una carta sulla quale era segnata la famosa isola di Cipango, ad una distanza che oramai doveva essere stata oltrepassata da loro. E di questo dubbio, che glie ne era venuto, voleva intrattenersi Martino Alonzo Pinzon coll'almirante.
– Pare anche a me, che abbiamo fatto un cammino più lungo; – gridò Cristoforo Colombo al Pinzon. – Ma forse il Toscanelli ha fallato il punto, collocando la grande isola sulla carta, o noi, ingannati dalle correnti che ci han fatto derivare, abbiamo fallata la stima.
– Potrebbe anche darsi, – ripigliò il Pinzon, – che noi ci fossimo tenuti troppo a ponente. Non credete opportuno di appoggiare un poco a garbino?
– Non credo; – disse l'almirante. – Del resto, fatemi passare la carta, e osserverò meglio ancor io. Intanto non cangiate di rombo; mi raccomando. —
La carta arrotolata e raccomandata ad una sagola fu scagliata a bordo della Santa Maria. Cristoforo Colombo la portò allora nella sua cameretta, la spiegò sul deschetto, e si fece ad osservare, insieme coi più sperimentati dei suoi ufficiali, quale potesse per allora essere la posizione delle navi.
Il lettore si maraviglierà che Cristoforo Colombo volesse rilevare il punto di stima sopra una carta fatta di suo capo da un fisico fiorentino, e nella quale era segnata l'isola di Cipango ad una distanza immaginaria. Ma pensi il lettore che quella carta, fatta avanti la scoperta delle così dette Indie occidentali, era tuttavia condotta secondo due norme, che parevano sicure a que' tempi: la divisione della circonferenza del globo terrestre in ventiquattro zone, di quindici gradi ciascuna, che formavano in tutto trecentosessanta gradi, e il passo biblico di Esdra, ov'era detto che, diviso il nostro globo in sette parti, sei sono terra, e la settima è ricoperta dalle acque. Messe a riscontro queste due nozioni, aggiunta la notizia delle parti della terra già scoperte al tempo di Tolomeo, aggiunto finalmente tutto quel tratto che Marco Polo aveva visitato ad oriente, e i Genovesi scoperto ad occidente, non era difficile tracciare lo spazio di mare che doveva intercedere fra le Azzorre, estremità occidentale di Europa, e Cipango, estremità orientale dell'Asia. Il difficile sarebbe ora di credere a quella sistematica fabbricazione di carte nautiche; ma non era difficile allora. E ad ogni modo si può considerare con benevolenza un errore, il quale, rasentando la verità, condusse un uomo ardito e intelligente a scoprirla.
Lo studio di Cristoforo Colombo e de' suoi piloti fu repentinamente interrotto da un grido d'allegrezza. Quel grido, ripetuto e rinforzato da molte voci, veniva dalla Pinta. L'almirante uscì tosto in coperta, e vide Martino Alonzo Pinzon, ritto sul castello di poppa della sua caravella, che alzava le mani al cielo, in atto di giubilo, gridando a squarciagola: terra! terra!
– Che è ciò che voi dite, Martino Alonzo? – gridò l'almirante a sua volta.
– Terra, terra! – ripetè il Pinzon. – Signor almirante, io chieggo la mia ricompensa. —
Martino Alonzo Pinzon alludeva al premio che i reali di Castiglia avevano stabilito per colui che primo scoprisse la terra. Il premio consisteva in una rendita di trenta corone, un poco più di seicento lire della nostra moneta d'oggidì.
E con la mano distesa, il comandante della Pinta accennava verso garbino, o libeccio, se meglio vi piace, dove infatti appariva una lingua di terra all'orizzonte, forse venticinque leghe distante dalle navi. I marinai della Pinta si erano lanciati come scoiattoli su per le sartie; così fecero i marinai della Santa Maria e quelli della Nina; tutti vedevano la terra, tutti confermavano con liete grida l'annuncio di Martino Alonzo Pinzon.
Cristoforo Colombo non era intimamente persuaso; ma lo scuoteva la sicurezza universale. Commosso, si buttò ginocchioni, rendendo grazie a Dio. Martino Alonzo Pinzon fece di più: intuonò ad alta voce il Gloria in excelsis, a cui tosto risposero gli equipaggi delle tre caravelle.
La terra si vedeva così chiaramente, e così vivo era l'entusiasmo di tutti, che l'almirante stimò necessario di lasciare il suo rombo, che era stato sempre il ponente, governando per tutta la notte a garbino. Ma giunse l'aurora gran dissipatrice di sogni; e dissipò anche le speranze di ricompensa che Martino Alonzo Pinzon aveva così facilmente nutrite. La terra che avevano creduto di veder tutti con lui, non era che nebbia vespertina; i primi chiarori del giorno avevano disperso il fantasma.
Alla speranza, alla fede, doveva tener dietro lo scoramento. E avevano creduto di vedere la terra! E quella immagine di terra altro non era che un inganno degli occhi, un miraggio, una fata Morgana, il solito scherno delle potenze invisibili. Costernati, abbattuti, gli equipaggi obbedirono tacitamente al comando dell'almirante, che ordinava di riprender la via di ponente; quella via ch'egli non avrebbe mai abbandonata, senza i lor chiassi importuni.
Per molti giorni si procedette al solito, con buon vento, mare tranquillo, cielo sereno e dolce temperatura. Le acque erano così chete, che parevano di lago, e i marinai, riavutisi alquanto delle loro malinconie, si pigliavano spasso a nuotare intorno al bordo. Nuovi indizi di terra si offrivano, aiutando a calmare le loro segrete inquietudini; incominciavano a mostrarsi a sciami i delfini; i pesci volanti, scagliandosi in aria sulle pinne spiegate, ricadevano a bordo delle navi.
Si giunse così fino al primo di ottobre. Quel giorno, secondo la stima di Perez Matteo Hernea, la spedizione navale del mare Oceano doveva aver compiute le sue cinquecento ottanta leghe di navigazione, a ponente dalle isole Canarie. Ma questa era la stima fatta secondo i computi apparenti di Cristoforo Colombo. L'almirante faceva una stima tutta sua, tenuta gelosamente segreta: e questa ascendeva a settecento sette leghe. Nel fatto, adunque, s'era oltrepassata di molto la distanza assegnata dal fisico Toscanelli a quella benedetta isola di Cipango.
Le mormorazioni erano ricominciate tra i marinai; e con le mormorazioni le congiure. Sarebbero trascorse un giorno o l'altro ad aperta ribellione, se di tanto in tanto qualche nuovo inganno degli occhi non avesse fatto intravvedere la terra all'orizzonte. Ma anche queste vane visioni, salutate da grida di giubilo, e seguite sempre da imprecazioni di gente disperata, annoiavano l'almirante. Il quale risolutamente dichiarò, e fece bandire su tutte le navi a suon di tromba, che chiunque gridasse terra, senza che questa si scoprisse nei tre giorni susseguenti, dovesse perdere ogni diritto di ricompensa, quand'anche un'altra volta scoprisse terra per davvero.
E terra non gridò più Martino Alonzo Pinzon. Il comandante della Pinta non credeva più alla esistenza della terra, nel rombo seguito da Cristoforo Colombo. Questa sua sfiducia crebbe tanto, che nella sera del 6 ottobre, Martino Alonzo Pinzon si fece ardito a proporre di piegare risolutamente a sinistra, cercando terra verso mezzogiorno. Inutile il dire che l'almirante non reputò conveniente di appagare il desiderio di Martino Alonzo Pinzon.
La mattina del 7 ottobre, allo spuntar del sole, molti marinai della Santa Maria credettero di veder terra a ponente. Ma temevano anche d'ingannarsi, e non dissero parola, per non avere a perdere la speranza del premio. Non furono così prudenti sulla Nina, che quel giorno veleggiava innanzi alle altre caravelle. Credette Vincenzo Yanez di veder terra, e gli parve di vederla così chiaramente, da non consentire alcun dubbio. Perciò fece innalzare lo stendardo sull'albero di maestra, e sparare un colpo di cannone. Erano quelli i segnali stabiliti, per chi primo scoprisse il lido sospirato. Fu grande la gioia su tutte le navi; ma fu anche breve. La nuova lingua di terra, comparsa all'orizzonte, svanì come quella dei giorni andati; e ripreso l'abbattimento, ricominciarono i lagni.
Per altro, i buoni indizi non facevano difetto. Numerosi stormi di passeri campagnuoli trascorrevano alti sopra le navi, spiegando il volo verso libeccio. Era dunque di là che bisognava cercare il nuovo continente? Cristoforo Colombo incominciò a dubitare di aver commesso qualche errore di latitudine; e perciò, nella sera del 7, si risolse di piegare alquanto verso la parte a cui aveva veduto avviarsi i passeri campagnuoli.
Tre giorni di seguito veleggiò verso libeccio, e crescevano sempre gl'indizi di terra. Sciami di uccelli di svariati colori svolazzavano intorno alle navi; i tonni scherzavano numerosi a fior d'acqua; passarono a breve distanza un airone, un pellicano ed un'anitra; erbe fresche e verdi galleggiavano intorno alla Santa Maria, che parevano staccate quel giorno istesso dal lido.
Ma quante volte non si erano già veduti questi segni ingannatori? Le ciurme non potevano più pascersi di quelle illusioni. Domandarono ad alta voce di ritornare indietro.
Proprio allora? C'era da perdere il lume degli occhi. Cristoforo Colombo affrontò quel giorno risolutamente la sua marinaresca. Lo facessero pure a pezzi, ma egli avrebbe resistito fino all'ultimo. La spedizione era destinata dal re e dalla regina alla scoperta delle Indie; qualunque cosa accadesse, egli, non nato Castigliano, avrebbe serbato obbedienza ai reali di Castiglia; sarebbe andato avanti nella sua intrapresa, fino a che, per grazia di Dio, non giungesse a compirla.
Cosma e Damiano si erano piantati in prima fila, non per tener bordone ai rivoltosi, intendiamoci, ma per consentire con le parole e con gli atti ad ogni frase dell'almirante, e preparati, caso mai, a menar le mani in sua difesa. Ma per allora non fu mestieri; i rivoltosi non erano andati più avanti; la fermezza di Cristoforo Colombo da un lato, l'accenno alla lealtà castigliana dall'altro, fors'anche il dubbio di non esser tutti d'accordo nel proposito di ribellarsi alla volontà dell'almirante, li rimandò indietro come un'onda di mar lungo; che si ritragga spumeggiando e brontolando da un ostacolo che non ha potuto rovesciare.
Nondimeno, la condizione di Cristoforo Colombo si faceva sempre più difficile e pericolosa. Si poteva egli durare in quello stato di contrasto, non più sordo, ma palese e a volte clamoroso, tra lui e la sua marinaresca? Per fortuna, il giorno dopo quella scena di rivolta, si fecero più frequenti e più notevoli gli indizi della terra vicina. Oltre una quantità di erbe fresche, e di quelle che nascono lungo le rive dei fiumi (e c'erano persino dei giunchi), fu colto un pesce verdognolo, di quelli che vivono solamente tra gli scogli. Su quella erba, su quei giunchi, sul pesce verdognolo, stavano almanaccando i marinai, quando ad uno dei due genovesi, a Cosma, che stava guardando sul mare, venne veduto qualche cosa, che lo persuase a spogliarsi in fretta e a tuffarsi nell'acqua.
Damiano aveva fatto voto di non spiccarsi mai dal fianco di Cosma. Si spogliò in fretta anche lui, e tenne dietro al compagno.
– Dove andate, voi altri? – chiese l'almirante, maravigliato di tanta, fretta dei due genovesi.
– Ma!.. Io non lo so; – rispose Damiano nell'atto di tuffarsi a sua volta. – Cosma va in acqua, ed io lo seguo. Egli ha un occhio di lince e l'altro di falco; due animali che vedono molto lontano. Ma io ho due braccia e due gambe che vanno più svelte delle sue. —
Cosma, per altro, aveva otto o dieci bracciate di vantaggio sull'amico, e Damiano lo raggiunse quando egli aveva già afferrato l'oggetto per cui si era tuffato nell'acqua.
– Oh bello! – gridò Damiano, vedendo la preda che Cosma teneva sollevata fuor d'acqua. – E per me nulla?
– Vedi? C'è dell'altro laggiù; – rispose Cosma. – Mi pare una canna.
– Ah, si! ed anche qualcos'altro di più nero, – disse Damiano, nuotando verso il punto che gli era stato indicato da Cosma.
Questi, frattanto, ritornava verso il bordo della Santa Maria, nuotando sul fianco destro, per poter tenere in alto, agitandola davanti agli occhi dell'equipaggio, la sua bellissima preda.
– Non è alga, per bacco! – gridò, come fu sotto al capo di banda. – Non è neanche erba, che si possa scambiare per alga. Gettatemi un cavo, da poter tirarmi a bordo, senza guastare questo raro presente. È destinato al signor almirante.
– E a me, perdiana! un cavo anche a me; – gridò Damiano, a cinque o sei braccia più indietro, – non vengo neppur io con le mani vuote. —
Il cavo era stato gittato, Cosma vi si era aggrappato, anzi attorcigliato con tutta la persona, ed era stato issato a bordo. Con la stessa manovra, fu pronto a seguirlo Damiano.
– Ebbene, che cos'è? – disse Cristoforo Colombo, verso di cui s'inoltrava Cosma, tutto grondante d'acqua salata.
– Signor almirante, – gridò Cosma, levando nel pugno un bel ramo di spino fiorito, – questo è il presente che manda a voi una bella sconosciuta. —
Cristoforo Colombo prese il ramo di spino fiorito dalle mani di Cosma, ammirò i bei fiori del color dell'oro che ne adornavano le vette, e sorridendo rispose:
– Conosco la bella dama, quantunque non abbia ancora avuto l'onore di vederla.
– Ma ella, signor almirante, – replicò prontamente Cosma, – vi dice con questo ramo fiorito che voi la scoprirete fra poco. Fregiatevi intanto dei colori di lei, come suo cavaliere.
– Così farò; – rispose Cristoforo Colombo. – Ma ecco dell'altro; – soggiunse, vedendo Damiano, che si avanzava anch'egli col suo donativo. – Questo non è un presente della dama. Potrebb'essere del marito, figliuoli miei, ed ammonir tutti noi a guardarci ben bene. —
Damiano, infatti, oltre una canna verde, offriva un lungo bastone di legno, di colore tra il rosso e il nero, tutto tagliato a rozzi disegni geometrici. Cristoforo Colombo osservò lungamente anche questo, e poi lo concesse alla curiosità de' suoi ufficiali di bordo.
– La terra è vicina, signori; – diss'egli poscia. – Con un ramo di spino ella si annunzia; ma con questi altri segni ci ammonisce che dove ella è, possono anche trovarsi i frangenti. Non ci stanchiamo di gettar lo scandaglio, per conoscere quando saremo finalmente atterrati; ma sopra tutto raddoppiamo di vigilanza nella notte. —
Piloti e gentiluomini di poppa risposero con vivi segni di approvazione; i marinai, grandemente mutati da quelli dei giorni innanzi, batterono le mani.
L'almirante si ritirò nella sua cameretta; e là, deposto il ramo di spino fiorito a piè d'una immagine di Maria Vergine, che pendeva dell'assito, stette lungamente raccolto nella muta preghiera dell'anima.
Quella sera, in coperta, dopo che fu recitata la Salve Regina, l'almirante fece il gesto di voler parlare, e trattenne tutta la sua marinaresca davanti al castello di poppa. Fecero cerchio intorno a lui, religiosamente silenziosi ed intenti, tutti quegli uomini che pochi giorni addietro avevano fatto il proposito di buttarlo a mare, e ancora un giorno prima s'erano levati contro di lui a tumulto.
Ma egli non ricordava più quelle brutte scene, e generoso le aveva perdonate. Parlò con semplice dignità, come uomo di alti spiriti, che non ha nulla a temere dagli altri uomini, neanche la loro invidia, nulla a sperare, neanche il loro amore, tutto avendo il suo conforto in sè stesso ed aspettando il suo giudizio da ben altro giudice che non sia la moltitudine sciocca.
Notò, incominciando, come la bontà divina, scortandoli con dolci e propizi venti sovra il mare tenebroso, da lei fatto limpido e cheto, avesse ad ogni tratto con nuovi indizi ravvivato il loro coraggio, moltiplicando quei segni in proporzione dei folli terrori da cui erano così spesso agitati, e conducendoli quasi per mano in una nuova terra promessa. Rammentò l'ordine da lui dato alle navi, prima di salpare dalle Canarie, di mettere in panna alla notte, dopo che avessero fatto il cammino di settecento leghe a ponente. Le recenti apparenze comandavano di attenersi oramai a quella precauzione, essendo probabile che in quella notte medesima si ritrovassero in vista di quella terra sospirata. Conchiudeva raccomandando di stare attentamente alle vedette sull'alto del gavone di prora, promettendo a chiunque scoprisse primo la terra, non solo la pensione assicurata dai Reali di Castiglia, ma ancora una cappa di velluto, ch'egli avrebbe pagata del suo.
Il vento aveva soffiato abbastanza fresco per tutto quel giorno. Anche il mare si vedeva più mosso. Le caravelle fendevano i flutti con una rapidità meravigliosa, veleggiando al gran largo, e precedendo al solito la Pinta, miglior veliera di tutte. Regnava a bordo della Santa Maria una animazione straordinaria: nessuno chiuse occhio per tutta la notte; ognuno aspettando di vedere la terra.
Verso le dieci di sera, Cristoforo Colombo stava sul cassero di poppa, esplorando ancora con gli occhi fissi il buio orizzonte. Tutto ad un tratto, gli parve di vedere in lontananza risplendere un lume. Era piccino e tremolante, come il lumicino della favola; e l'almirante credette a tutta prima di aver traveduto.
– Gutierrez! – gridò egli, volgendosi a quello dei gentiluomini di poppa, che era rimasto ultimo a vegliare con lui.
Pedro Gutierrez, gentiluomo di camera del re, e ragionier generale della spedizione, si avvicinò prontamente.
– Signor almirante, son qua; – rispose egli, facendosi al fianco di lui. – Che cosa volete da me?
– Dite, Gutierrez; non vedete voi laggiù, sulla nostra sinistra, un lumicino che sembra danzare sulle acque? —
Pedro Gutierrez si fece a guardare laggiù, dove l'almirante accennava; stette un poco in silenzio, aguzzando gli occhi nel buio, per rintracciare quel lume; finalmente esclamò, con accento di convinzione profonda:
– Ah, sì, eccolo là. Avete ragione, mio signore. E si muove, difatti. Pare il lume di una barca peschereccia.
– O una fiaccola di viandanti, lungo la costiera d'un monte; – rispose l'almirante. – Ma vi prego, don Pedro, chiamate qualchedun altro. Non vorrei che c'ingannassimo in due.
– Chiamo don Rodrigo Sanchez? – domandò Pedro Gutierrez. – Poc'anzi, per l'appunto, egli passeggiava con me; non può essersi già addormentato.
– Sì, chiamate don Rodrigo; – rispose Cristoforo Colombo. – È il nostro ispettore d'armamento, uomo di buon giudizio, e non facile a travedere. —
Pedro Gutierrez discese dal cassero ed entrò nel gavone di poppa. Cristoforo Colombo rimase solo al suo posto, non potendo spiccar gli occhi dalla fiamma lontana, che brillava veramente a guisa di fiaccola, agitata da persona che corresse. Ma tutto ad un tratto la fiamma disparve, e il mare e l'orizzonte non furono più che tenebre fitte davanti agli occhi di lui.
Rodrigo Sanchez di Segovia, capitano generale d'armamento della spedizione Oceanica, giungeva allora sul cassero, insieme con Pedro Gutierrez.
– Troppo tardi, ahimè! – disse l'almirante, con accento di tristezza. – Il nostro bel lume è sparito.
– Sparito! – esclamò Pedro Gutierrez. – Ma io spero che ricomparirà, e don Rodrigo potrà goderne anche lui.
– Voglia il cielo! – disse Cristoforo Colombo. – Ma noi certamente lo abbiamo veduto; non è vero, Gutierrez?
– Sul mio onore; – rispose Gutierrez. – E non mi sono neanche fidato dalla prima apparenza; ho voluto distinguerlo bene, averlo bene negli occhi. Ma pensate, signore, che quel lume, se è d'una barca peschereccia, può esserci nascosto ora da un cambiamento momentaneo di direzione della barca. Se poi è una fiaccola a terra, può esserci nascosta la fiamma da qualche fitto di piante; ricomparirà alla prima radura del bosco. —
Pedro Gutierrez non aveva ancor finito di parlare, che il lume ricomparve difatti.
– Ah, eccolo nuovamente! – gridò l'almirante, che non aveva perduto di vista quel punto dello spazio donde gli era apparso la prima volta il lume.
– Guardate, don Rodrigo, laggiù, sulla nostra sinistra; per ritrovarlo, non avete che da calare una linea perpendicolare dalla cima del pennone di maestra. Ci siete?
– Sì, sì, ho veduto; – disse Rodrigo Sanchez. – Lo distinguo benissimo. E non è un fuoco fatuo, per sant'Jago, quantunque saltelli la sua parte anche lui. Ma è vivissimo, veramente di fiaccola, come di legno resinoso, o d'altra materia combustibile di quella specie.
– Magari d'olio d'oliva, non è vero? – disse ridendo il Gutierrez.
– Eh, che cosa ne so io? – rispose il Sanchez. – Per essere olio d'oliva veramente, domanderebbe un lucignolo enorme, a giustificare una luce così viva. Sia quel che vuol essere, voi siete fortunato, signor almirante. Oggi la bella sconosciuta vi manda il ramo di spino fiorito; questa notte vi mette il lumicino sul davanzale. Bisogna andare, da buon cavaliere; anzi, bisogna correre, come un paggio innamorato.