Kitabı oku: «Falco della rupe; O, La guerra di Musso», sayfa 2
"E quante ore si impiegano nel percorrere questo spazio?" disse la Contessina.
"Quattro o cinque sì nell'andata che nel ritorno, secondo la quantità de' passeggieri, per ricevere i quali e dimetterli ne' varii luoghi d'uopo è perdere alcun tempo, e secondo la forza e la direzione del vento".
"Così avremo, tornò a dire la Contessina tutta gioiosa, otto o dieci ore d'amenissimo sollazzo, di cui avrò obbligo a lei, caro don Annibale, che ha stornato mio marito dal commettere un fallo imperdonabile; ed a voi pure, Marchesino (e sogguardollo sorridendo), come promotore di questa gita. Ma, or me ne avveggo, avete trascurato di darmi un suggerimento importante, e si era di portar con noi qualche libro che ne indicasse per viaggio i nomi dei paesi e delle ville del lago".
"Perdonatemi, Amalia, ma la colpa non è mia. Ieri guardai e riguardai nella vostra picciola biblioteca della villa, e non vi scorsi di opere relative al lago di Como che le Lettere del Giovio, e il Viaggio ai tre laghi dell'Amoretti; dunque tenni per fermo che il vostro favorito autore, il dipintor delle belle, il pellegrinante, il romanziere sentimentale, Bertolotti, l'aveste già con voi, o il teneste chiuso nella cassetta da viaggio".
"No, v'ingannaste, perchè il dovetti quest'anno lasciare a Milano, essendo il suo, ed il posto di due o tre altre mie predilette opere occupato dai Promessi Sposi, e da altri romanzi recenti: sebbene vi dirò che le Peregrinazioni di quel finto vecchio militare, la cui vivacità e galanteria ne smentiscono ad ogni linea l'età e la professione, me le so quasi a memoria. Desiderava non altro per domani che un indicatore, una nomenclatura, una guida".
"Per questo, bella Contessina, poss'io soddisfarla immediatamente", disse don Annibale, e tolse dalle tasche del redingotte che vestiva, due libri stretti in elegante copertura, ed uno gliene presentò aggiungendo: "Questa è una raccolta di disegni miniati rappresentanti vedute del lago, con brevi descrizioni: avrà in esse una guida, un Cicerone laconico, ma vero e compiuto. Caso poi mai che pioggia impreveduta, incomodi soffii di vento od altro accidente l'avessero a costringere a tenersi nella sala sottocoperta, e così non le fosse dato occupare il tempo a contemplare le viste, eccole in quest'altro libro manoscritto un Racconto del lago, che potrà leggere per divagarsi".
"Oh gli sono doppiamente obbligata, disse la Contessina ricevendo con piacere anche quel secondo libro, e sarà mia premura il fargliene, appena letti, immediata restituzione; ma dica, dica: questo è una novella, una vera storia, od un romanzo?"
"Non è, parlando a rigore, alcuno dei tre, ma tiene un po' di ciascuno: si potrebbe collocare in quel genere botanico in cui mischiandosi il seme di varii fiori, ne nasce un tutto più fragrante, più aggradevole ed attraente delle specie separate: in una parola, è un romanzo storico. – Oh! lo conosco questo genere cui tu alludi, disse il Marchesino; esso si chiama dai Botanici ebridismo, che significa non legittimo, e poco giudiziosamente raccomandi il tuo manoscritto, mio caro Annibale, dichiarandolo appartenente ad un genere che si appella con sì brutta parola. D'altronde non sai, continuò in tuono comicamente enfatico, che uomini gravi, tenuti maestri in letteratura, disprezzano appunto come spurie e deformi quelle opere in cui la storia è vestita coi falsi colori del romanzo, e il romanzo foggiato coll'imponenze storiche, che in alcune parti appaiono drammatiche, in altre filosofiche o politiche, ma in conclusione non appartengono ad alcuna di quelle classi, e recano il grave disordine di stravolgere o render false le idee a quelle persone di spirito debole che hanno la sfortuna d'averle nelle mani? Sono incalcolabili i danni che questo genere di moderno lavoro detto Romanzo storico ha recati ai buoni studii ed alle profonde storiche e filologiche investigazioni. Dappoichè la manía di simili superficiali opere ha invase due parti del mondo…
"Ih ih che sermone! Non imiti male un pedagogo di sessant'anni che ritrova sullo scrittoio d'uno scolaro un tomo di Walter-Scott in vece della grammatica. – Sappi però che io non posso nè difendere nè commendare quel libro, perchè l'Autore, che è un giovine mio conoscente, me lo ha espressamente proibito; non ripeterò altro che alcune opinioni dello stesso intorno a tal genere di componimenti. La storia, egli pensa, si può chiamare un gran quadro ove sono tracciati tutti gli avvenimenti, collocati i grandi personaggi, e la serie d'alcuni fatti esposta con ordine, ma dove la moltitudine delle cose v'è negletta o appena accennata in confuso e di scorcio, e sole le azioni più straordinarie e gli uomini sommi vi stanno dipinti isolatamente e quasi sempre nella unica relazione dei pubblici interessi. Il Romanzo storico è una gran lente che si applica ad un punto di quell'immenso quadro: per esso ciò ch'era appena visibile riceve le sue naturali dimensioni, un lieve abbozzato contorno diventa un disegno regolare e perfetto, o meglio un quadro in cui tutti gli oggetti riprendono il loro vero colore. Non più i soli re, i duci, i magistrati, ma la gente del popolo, le donne, i fanciulli vi fanno la loro mostra: vi sono messi in azione i vizii, le virtù domestiche, e palesata l'influenza delle pubbliche istituzioni sui privati costumi, sui bisogni e la felicità della vita, che è quanto deve alla fin fine interessare l'universalità degli uomini. I romanzi di tal genere sono in somma i panorama della storia. Alcuni rigoristi portano loro l'accusa di frammischiare cose menzognere alle reali, e deturpare in tal modo la storica purità: ma si potrebbe a questi domandare: accusate voi i grandi storici, come Livio, Tacito, Guicciardini, d'essere menzogneri perchè facciano tenere ai duci d'armate, ai principi, ragionamenti in pubblico od in privato ch'essi non hanno di certo ascoltati, nè altri ha loro riferiti? No, risponderebbero essi, perchè è probabile e verisimile che in date circostanze que' personaggi dovevano consimilmente esprimersi. Ora, perchè, tenendosi nei limiti della verisimiglianza, non sarà lecito, anzi utilissimo intrecciare la storia con fatti d'invenzione che la rendano più drammatica, più evidente, quindi più studiata e proficua?"
Don Annibale continuò in tal modo per lunga pezza ora colle opinioni di quel suo conoscente, ora colle proprie ad encomiare il genere dei Romanzi storici;, inutilmente però, perchè la Contessina non aveva d'uopo di tante parole per farseli aggradire, formandone da molto tempo l'esclusiva sua lettura; ed il Marchesino s'era occupato a svolgere i fogli del libro che conteneva le vedute del lago, nè aveva più oltre badato a quel chiaccherare erudito. Stanca però anche donna Amalia d'udire teorie, volle che don Annibale le dicesse il suo parere intorno ad alcuni Romanzi storici italiani, addomandandolo della Pianta dei sospiri, del Gabrino Fondulo, del Castello di Trezzo, della Sibilla Odaleta, e finalmente dei Promessi Sposi.
"I Promessi Sposi, conchiuse don Annibale, s'udirono annunziare tanto tempo innanzi che apparissero al pubblico, ch'ebbero tutto il campo di ricevere dalle mani abilissime del loro valente autore quella forbita lucente, e veramente nuziale acconciatura, di cui egli seppe adornarli. V'ha in quei libri una inimitabile proprietà di vocaboli, espressioni fine, vere, incalzanti: vi si trova per tutto una vita, un'indagine profonda del cuore, delle circostanze, delle cause; un nesso invisibile, ma universale, efficace, che offre pascolo a tutti i gradi d'intelligenza; è un complesso in somma d'osservazioni e di quadri affatto nuovi e sublimi. È vero però che vi si rinvenne un lato vulnerabile come il calcagno nel fatato corpo d'Achille, ma però le saette scagliategli dai nostri Priamidi non lo ferirono sì addentro da toglierci la vita, che durerà anzi sempre robustissima".
Il Conte, che aveva in tutto questo frattempo dormito russando tranquillamente, svegliossi di repente, balzò esagitato dal canapè, fece due o tre giri intorno a se stesso, e sarebbe andato a dar del volto in terra se non incontrava la tavola a cui affrancarsi colle mani. "Che c'è? che avete? Cosa è avvenuto? gridarono ad una voce gli altri accorrendo. – Ohimè! ohimè! esclamò egli cogli occhi stravolti: quel maledetto battello a vapore… quella fornace, oh! che incendio!.. puh! che spavento! Per fortuna che è stato un sogno… Ma il capo mi gira ancora, e sento un peso gravissimo allo stomaco".
"Niente, caro Conte, gli disse il Marchesino, sono le quattro o sei dozzine di quei pesciuolini che v'avete trangugiati; prendete un caffè, ed andate a letto che tutto passerà in poco d'ora".
Così fece di fatto, conducendosi accompagnato dalla Contessina nella stanza da letto. Il Marchesino e don Annibale, dopo aver conversato più a lungo, salirono essi pure nelle camere rispettivamente assegnate a riposo.
Il primo segnale di partenza dato il mattino dalla campana della barca a vapore trovò la nostra comitiva già allestita pel viaggio nella sala dell'albergo. La Contessina era involta nel suo mantello di finissimo circasse foderato di felpa: il Marchesino portava un tabarro verdognolo alla cocher di stoffa scozzese ed un berretto all'inglese tessuto di neri crini di cavallo. Il Conte ancor sonnacchioso, ed a cui il freschetto mattutino recava più molesta sensazione d'ogni altro, stava imbacuccato in un sourtout di peluzzo color d'orecchio d'orso, e riceveva, senza rispondervi, i complimenti di don Annibale, che seco loro discese sino al lago, ove porgendo braccio alla Contessina ad entrare nel battelletto che li dovea trasportare alla barca a vapore, le rammentò i libri a lei consegnati, e salutò tutti affettuosamente a due mani quando quel battelletto s'allontanò dalla riva.
Saliti ch'essi furono a bordo, fu dato l'ultimo segno, ed alzata l'áncora, il Lario salpò, spinto rapidamente dalle sue ampie ruote. Non è a dirsi quanto riuscisse gradevole quel viaggio alla Contessina, che instancabile si recava ora da un lato, ora dall'altro del ponte della nave tutto rimirando, di tutto interrogando il Marchesino, servendosi del libro delle vedute per aver notizia del nome d'ogni luogo più interessante a sapersi.
Riconobbero la villa d'Este, la Tanzi, la Passalacqua, la solitaria Pliniana, videro la cascata di Nesso; e nella popolosa Tramezzina ravvisarono varie case di persone conoscenti; scórsero la villa Melzi co' suoi vaghi giardini, e il bel viale d'ipocastani che la fiancheggia, e presso che di fronte sull'opposta sponda l'elevato palazzo Sommariva, che tanti contiene eccellenti capi d'arte. Prossimi a sopravanzare la punta di Bellaggio, gli occorse alla vista il Plinio, altra barca a vapore che viaggiava alla lor volta con spiegata bandiera: a poca distanza le due navi s'arrestarono, e calati a fior d'acqua i palischermi, fecero cambio di passeggieri, indi ripresero cammino, il Plinio tagliando a levante per Lecco, e il Lario in retta linea al nord. Lasciato a mancina Menaggio, volsero i loro sguardi al famoso Sasso rancio, e mentre la Contessina contemplava ammirata quell'erta sinuosa rupe, rammentando i miserandi casi che lesse ivi avvenuti, attrasse da destra la loro attenzione lo scoppio delle mine che aprivano il varco alla nuova strada, che correndo pei monti della Valtellina, riesce al cuore della Germania. Sempre più avanzandosi indicarono a destra Bellano, già celebre per l'orrido che gli stava vicino, e che da pochi anni dirupatosi perdette tutta la maestà del suo orrendo aspetto. Passato il promontorio di Dervio, scórsero le antiche ruinose mura del forte di Rezzonico, la vecchia torre di Corenno, e più inoltrandosi mirarono attentamente i pochi avanzi del castello sopra Musso, della cui guerra faceasi cenno nel titolo del racconto storico; quindi Dongo in un seno, e per ultimo il biancheggiante castello di Gravedona, presso alla quale sta Domaso, innanzi a cui la barca a vapore venne a fermarsi. Dopo non lunga posa quella barca virò di bordo e s'avviò colla stessa rapidità al ritorno.
Un lauto pranzo che si protrasse in lungo, il conversare, il rimirare di nuovo tutti i punti più belli e rimarchevoli delle sponde, non lasciarono mai alla Contessina rinvenire un momento da dare alla lettura del manoscritto consegnatole da don Annibale, nè, ritornata che fu alla sua villa del Lambro, il che avvenne il giorno seguente di buon mattino come avea voluto il Conte, potè ritrovar tempo da leggerlo sinchè ivi rimase il Marchesino. Partito però che questi si fu, s'occupò di quel libro sbadatamente da prima, poscia con attenzione; e rendendolo a don Annibale, lo accertò che quella lettura le era riuscita in più parti interessante in modo da farle desiderare di poter gire un'altra volta sul lago di Como per visitare molti luoghi di cui teneva poetica impressione nello spirito, derivatale dalle narrazioni contenute in quel libro.
Per il che siamo venuti in pensiero di pubblicarlo, affinchè possa, chi lo vuole, ottenerne lo stesso effetto senza difficoltà, persuasi d'altronde che se quell'accertazione non avesse contenuto ombra di verità, la qual cosa non è impossibile, pure alcuno fra i molti che percorrono di frequente quel lago ci saprà grado di porgergli un mezzo di più onde passare alcune ore d'un giorno nebuloso o di pioggia, acquistando minute notizie di fatti che avvennero in questa bella parte di Lombardia ch'ora non offre che placide e liete situazioni ad amene e ricche villeggiature, e numerose mete sulle sue ridenti sponde a sollazzevoli gite.
FALCO DELLA RUPE
O
LA GUERRA DI MUSSO
CAPITOLO PRIMO
Era la notte e il mar non avea lume
Quando s'incominciar l'aspre contese
.......
Dalla rabbia del vento che si fende
Fra i scogli e l'onde escon orribil suoni;
Di spessi lampi l'aria si raccende;
Risuona il ciel di spaventosi tuoni.
ARIOSTO, Orl. Fur. Can. 41.
Veleggiando da Como verso settentrione, passata la penisola di Torno, perviensi ad un lago solitario e di selvagge sponde. Fiancheggiato a levante dagli alti monti della Valle Assina e da quelli di Val d'Intelvi a ponente, non offre al riguardante che ripide balze e annosi boschi sparsi per le loro falde e per le loro sommità; ivi le acque nereggiano riflettendo il bruno aspetto delle vaste rupi da cui sono cinte, e più d'un torrente in esse si versa precipitando biancheggiante dalle nude roccie.
Sorge su quelle sponde la Terra di Nesso, di cui scorgonsi molti casolari sparsi pel declivio del monte presso l'ingresso di ampia valle, dalla quale sbocca pure un torrente che forma colà una grandiosa cascata. Ne' passati tempi tutte le abitazioni di che constava quel Borgo, stavano raccolte in un sol corpo, ed erano protette e tenute in soggezione ad un tempo da una Rocca che consisteva in una larga torre di pietre circondata da tre lati da un bastione, ed appoggiata di schiena al monte da cui s'aveva l'entrata.
All'epoca del Dominio de' Visconti e de' primi Sforza, teneva dimora in questa Rôcca un Commissario Ducale con forte mano d'uomini per mantenere colà e ne' circostanti paesi i signorili diritti, esigendo i tributi e le regalie: nel tempo però a cui si riferisce il nostro Racconto, cioè nel 1531, trovavasi dessa già da alcuni anni priva d'abitatori. Ne avevano da pria i Francesi sbanditi gli Sforzeschi, poscia ne erano stati essi stessi scacciati dagli Svizzeri, quando questi (nel 1512), condotti da Matteo Scheiner, il guerriero cardinale di Sion entrarono nel Ducato di Milano, per sostenere contro i Francesi i diritti di Massimiliano Sforza, primogenito del duca Lodovico detto il Moro, già morto prigioniero in Francia. Tocca non per tanto la terribile sconfitta nella famosa giornata di Marignano, ripresa Milano dai Francesi venutivi col loro re Francesco, sgombrarono gli Svizzeri il territorio ritraendosi nei baliaggi di Lugano, Locarno e Bellinzona, che erano già possedimenti del Ducato, e da cui non fu più possibile lo scacciarneli.
Da quell'anno in poi poche squadriglie di Spagnuoli, d'Alemanni ed anche di Francesi avevano, passando, fatta momentanea dimora in quella Rôcca; nè ciò avveniva più affatto da che teneva dominio sul lago l'ardimentoso Gian Giacomo Medici castellano di Musso, le di cui bande armate approdavano di frequente a Nesso, essendo quegli abitanti loro confederati, e riuscendo per ciò troppo difficile e pericoloso ad altri militi il fermar quivi soggiorno.
Siccome il governare in quella età non dipendeva che dalla forza delle armi, non essendo dato al duca Francesco secondo Sforza, tornato signore di Milano, il mantenere quivi un presidio, come avevano praticato i suoi maggiori, i Terrazzani di Nesso e di varii altri contadi del lago s'erano ridotti a un'assoluta indipendenza, di cui si giovavano in que' giorni di guerra onde commettere impunemente ogni sorta di depredazioni, e far scorrerie e bottino a danno de' confinanti e delle parti che battagliavano.
Tale sfrenata ribalderia degli abitanti di quella spiaggia, congiunta al pericolo di cadere nelle mani de' soldati del Castellano o de' suoi avversarii Svizzeri e Ducali, i quali trattavano con tutta la prepotenza militare chiunque s'avessero avuto in sospetto di spione, rendeva all'estremo periglioso e mal sicuro lo scorrere il lago e le rive al di là poche miglia di Como. Il maggiore spavento però che assalisse il cuore del pacifico navigante che arrischiava avanzarsi in quelle acque, era la fama d'un uomo che s'era fatto un nome formidabile assalendo armato le barche, depredando e spogliando i viaggianti, facendo in somma pel lago il terribile mestiero del pirata. Come avviene d'ordinario, e più di frequente accadeva in quell'età d'ignoranza, in cui le menti si prestavano ad ogni falso terrore, s'erano attribuiti a costui fatti, scelleraggini e poteri affatto straordinarii e quasi soprannaturali, per cui il nome di Falco (così egli s'appellava) era il terrore de' remiganti che s'affidavano al tragitto senza la scorta d'una nave armata, benchè talora gli armati stessi non aveano potuto opporgli resistenza.
Era Falco l'uno degli indipendenti uomini di Nesso, intrepido, fiero e vigoroso, che la brama di vendetta d'un sanguinoso oltraggio aveva spinto ad armeggiare in molte battaglie contro gl'Imperiali. Ricacciate d'Italia le squadre di Francia, tra cui egli aveva combattuto, era tornato alla patria Terra, dove insofferente di riposo, spinto da un'indole audace, da guerresche abitudini e dall'astio che gli durava vivissimo per gli Spagnuoli e gli Svizzeri, che uniti ai Ducali mantenevano la guerra sul lago contro il Castellano di Musso, aveva trascelti alcuni robusti compagni, co' quali, armato all'usanza de' tempi, scorreva il lago corseggiando. Conoscitore espertissimo di tutti gli scogli e i seni del lido, agilissimo rematore, sfidatore ardito dei venti e delle burrasche, sapea appiattarsi per tutto e piombare improvviso sulla preda. Se coglieva soldati nemici alla spicciolata, gli assaliva sostenendo contro di loro regolari combattimenti, e fuggendo poscia se il loro numero aumentava, si conduceva a sicuro salvamento ne' porti occupati dagli uomini di Musso che avevano barche armate pronte ad azzuffarsi ad ogni scontro.
Falco venia detto Della Rupe, poichè il suo casolare trovavasi sur una rupe a poca distanza del borgo di Nesso, e l'avea dovuta costruire colà in sito quasi inaccessibile per garantirsi da tradimento e da improvviso nemico assalto. A mezzodì di quel villaggio vedesi un fendimento nel monte che s'interna un trar di balestra, in fondo al quale piomba da molta altezza il torrente, la cui spumeggiante caduta scorgesi da lungi per entro quegli oscuri massi come una candida striscia, e vien nomato l'orrido di Nesso. Al vertice di questo fendimento, sulla sommità di eretti macigni inumiditi sempre dallo spruzzo delle cascanti acque, stava su un piano del giro di pochi passi l'abituro di Falco, a cui pervenivasi per due viottoli formati da informi gradini tagliati nel masso, l'uno scendente dal monte, l'altro che saliva dal lago, ambidue però non praticabili che colla guida di que' montanari. Era tal abituro costruito di sassi che sostenevano rozze travi; aveva le mura mediocremente spaziose e salde, una tettoia di lastre di pietre, la porta formata da massiccia tavola ad un sol battente, e due finestre difese da staggi di legno disposti a modo di ferriata: l'esterno scorgevasi presso che tutto verdiccio per l'edera che vi s'arrampicava; un antico castagno che gli sorgeva da lato, stendendo i numerosi e fronzuti suoi rami, difendeva dalla pioggia e dai raggi solari la soglia di quel casolare presso cui stavano quadrate pietre destinate a sedili.
Due persone abitavano quivi di continuo, e queste si erano la moglie ed una figlia di Falco; imperocchè egli ne stava il più de' giorni lontano, e solo dopo lunghe corse, dopo dati e sostenuti feroci assalti, molte fiate nel cuor della notte remigava alla sua rupe, e saliva al suo abituro talora carico di preda, e talora grondante di sangue e anelante per la fatica e la foga degli sfuggiti perseguimenti. Colà deposte le armi pesanti e i pugnali, respirava in riposo; e mentre sua figlia Rina gli tergeva la fronte, e districavagli gli arruffati capelli, Orsola sua moglie disponeva un desco, non sempre frugale, a cui d'intorno assiso narrava le sue venture, sinchè vinto dal sonno posavasi tra rozze coltri, dalle quali balzava all'albeggiare, ch'era pur sempre l'ora della sua partenza.
Orsola e Rina, accostumate a quel modo di vita del loro padre e marito, vivevano tranquille, confidenti nella bravura e scaltrezza di lui, non che in una costante prosperità di eventi che a tutti i perigli l'avevano sino allora sottratto. Era estraneo in tutto ai loro animi il rimorso e l'agitazione che avrebbe dovuto infondervi il pensiero d'essere congiunte sì strettamente di sangue ad un uomo che non s'adoperava che nell'uccidere e nel depredare: nè era a dirsi per ciò che gli animi loro fossero corrotti, o privi d'ogni senso di religiosa pietà, perchè anzi possedevano desse, ed era comune in que' tempi, una morale severità di pensieri, un sommo rigore di costumi, che però per l'indole fiera di quell'età non avevano tanta forza da far sentire iniqua e scellerata la violenza delle armi.
Per tutto in allora, ed in ispecial modo in que' paesi lungo teatro di guerre, i fiacchi, i miti d'animo erano oppressi e spogliati; per ciò nasceva in ognuno tendenza a farsi forte, audace, assalitore; quindi vigeva un'operosità di azioni e reazioni che giustificava ogni eccesso nell'uso della forza, e rendendo perpetue le zuffe e le atrocità, facevale sì famigliari, che più non recavano agli spiriti quel sentimento d'orrore che producono oggigiorno per la loro infrequenza e pel raddolcimento universale de' sociali rapporti. Storie d'uccisioni, d'incendii, fatti atroci accaduti per que' monti, o sul lago, erano le sole che dall'infanzia avevano sempre risuonato all'orecchio d'Orsola e della giovinetta figlia di lei: i loro conoscenti erano stati ognora uomini truci e facinorosi che non ragionavano d'altro che di vendette e d'offese, per ciò nella mente di esse andava congiunta alla naturale sensibilità, al buono e leale carattere proprio degli abitatori delle montagne una fiera e maschia tinta cui frammischiavansi i tetri colori di superstiziose credenze.
Gli echi delle rupi, i verdi pascoli, le limpide acque mantenevano nell'anima della giovinetta Rina la pastorale serenità e la calma soave dei monti, ma talvolta ben anco duri pensieri, secreti ritorni sulle tante spaventose immagini di che le avevano ripiena la fantasia vi stendevano una nera nube, e tal fiata i suoi lineamenti vivacemente animati prendevano un minaccioso aspetto, ed i suoi occhi scintillanti come nere gemme s'affissavano fieramente, e tal altra, assalita da vago terrore, stringevasi al seno di sua madre prorompendo in calde lagrime. Rina toccava il sedicesimo anno; il suo corpo, senza essere esile, mostravasi agilissimo, il suo volto, di rara bellezza, aveva una leggiera impronta della fisionomia di sua madre, la quale, fresca e robusta donna ancora, appalesava nel viso irruvidito dal sole tutta l'arditezza che alla moglie d'un pirata conveniva. L'abito d'entrambe era alla montanesca: vestivano sottane l'una color verdebruno, ed era la madre, l'altra cilestre, le quali non oltrepassavano loro la caviglia del piede: avevano grembialetti e corsaletti rossi di lana, senza maniche, poichè le braccia le eran coperte dai larghi maniconi della camicia, allacciati ai polsi, fatti di ruvida ma bianchissima tela che risortiva sul petto a minutissime pieghe, ed era rafferma al cominciar del collo da un bottone d'argento. Rina teneva nelle voluminose treccie involto un nastro scarlatto che veniva ad annodarsi nel mezzo di esse, ove era trapassato da una spilla d'oro.
Presso al tramontare d'un giorno di giugno, lungo il quale la splendidezza dei raggi del sole era stata più volte offuscata da nuvoli vaganti, Orsola e Rina s'assisero sulla soglia del loro casolare dando mano, l'una all'altra vicina, a cucire insieme lunghe liste di telame di canape per formarne una vela. Stavano da qualche tempo intente a tal lavoro, che di tratto in tratto veniva interrotto da soffi di vento, che agitando e sollevando quella tela le costringeva ad adoperarsi a raccogliersela d'intorno, quando Rina impazientata da tali ripetuti disturbi alzò gli occhi a mirare d'onde venisse quel ventilare importuno, e vide stare sulle montagne di contro un nereggiante nugolone i cui contorni irradiati dal sole, il facevano rassembrare ad un ampio oscuro drappo frangiato in oro steso sull'azzurro del cielo.
"Guardate, o madre, disse a tal vista quella fanciulla, qual cappuccione s'è messo la montagna d'Argegno: se il sole giunge là dietro verrà sera prima del tempo; è da colà che viene il vento che mi distoglie la tela dall'ago".
"Ciò poco monta, rispose Orsola girando gli occhi a spiar l'orizzonte; quel che mi duole si è che veggo prepararsi un temporale cattivo pel lago: sai che da tre notti Falco non ritorna; potrebbe forse giungere in questa se vento contrario nol rattiene a Corenno od a Musso. Questa mattina presso al ponte del torrente m'incontrai nella vecchia Imazza, la comare di Palanzo, madre di Grampo, che partì con Falco; essa recavasi a Lezzeno per sue faccende, ed era sì stravolta in viso, che mi levò la voglia di trattenerla onde chiederle i pronostici del tempo".
"O la comare Imazza, disse Rina, v'avrebbe ben predetto il vero. Mi ha detto la figlia d'un pastore che quand'essa va su al Tivano, entra in una grotta, dove le apparisce uno spirito col quale ha fatto il patto di viver più vecchia d'un corvo e sapere tutto ciò che ha da succedere. Ella ritorna ogni notte a casa e la vedremo fra poco passare sul sentiero del ponte".
Il sole s'era di già involto nelle nubi di prospetto, il cui seno appariva solcato da lampi muti ma continui; scorgevansi pure in altre parti del cielo salire e ammonticchiarsi altre nuvole, i soffii del vento facevansi più frequenti, l'aria vedevasi rivestita da una luce rossiccia pallida, che manifestava che gran masse vaporose riflettevano gli ultimi raggi del sole. Mentre le due donne raccoglievano la tela, per recarsela in casa onde non essere sorprese dalla bufera, videro venire la comare Imazza con passo frettoloso sul sentiero che per l'erta del monte poco al di sopra della loro capanna guidava ad un ponticello di legno posto sul torrente, che lì presso formava la cascata. Era dessa una vecchia grinza e secca, ma vigorosa oltre ogni credere: le sue lacere vesti e i capelli canuti, ma folti e scomposti, sventolavano al vento, le sue scarne mani stringevano un ruvido ed alto bastone che soleva portare, sebbene non abbisognasse d'appoggio per vagare anche ne' passi più difficili dei monti.
"Comare?.. Comare?.." gridarono ad una voce la madre e la figlia, facendole segnale colla destra onde scendesse a loro. "Non posso (rispose quella seguendo il suo cammino); il torrente traboccherà fra poco, e trasporterassi il ponte: la tempesta è vicina, vo' tornare al mio nido, non fermarmi a gracchiare con voi".
"Dî almeno, replicarono le altre, il tuo Grampo verrà con te questa notte?" "Questa notte là giù può piover sangue: vi sono barche di Como, e pennacchi spagnuoli presso i sassi di Grosgallia: non è che il vento che li può tener disgiunti, e… se… morti…" e le altre parole andarono perdute giungendo appena come suoni indistinti, perchè quella donna nel pronunciarle aveva valicato il torrente, e s'era già fatta distante: le altre due la seguivano dello sguardo mirandola allontanarsi su per le rupi con certa apprensione come di mal augurio che quegli accenti, quantunque oscuri, avevano svegliato nell'animo loro.
"Che intese dire quella strega di Palanzo? (disse Orsola entrando nel casolare, e chiudendo il battente della porta col chiavistello onde affrancarla contro il vento) Che vi siano soldati Ducali al di là della Cavagnola? Che vogliano tentare di cacciarsi dentro la vecchia torre di Nesso? e gli uomini del Castellano staranno neghittosi senza dar la caccia a quei lupi? Oh quanto bramerei che Falco fosse con noi questa notte! S'egli sa che i nemici ci son sì vicini, non tralascerà di ricondursi a casa, se per venirci dovesse anche urtar coi remi nelle sponde delle loro barche. Che Dio voglia soltanto ch'egli non trovi un ostacolo più forte nella burrasca che ho gran spavento stia per sorgere impetuosa. Vedi, Rina, che bagliore mandano i lampi per le finestre: ascolta come il vento rinforza, e il tuono mormora per entro i monti".
Rina porgeva attento orecchio, e infatti il rumoreggiare delle frondi agitate del gran castano presso l'abituro, l'infrangersi delle acque del lago a' piedi di quella rupe, il frastuono della caduta del torrente fatto or più cupo or più rumoroso, appalesavano che il vento acquistava ad ogni istante maggior veemenza. Di lì a poco, il tuono che non avea ancora che susurrato leggiermente, s'udì trascorrere rimbombante per la volta del cielo, ed in seguito ad un lampeggiare più spesso e più vivo, a scoppii più clamorosi di tuono che tutto scossero quel casolare, incominciò un martellare ruinoso di grossa grandine che dava pel tetto, pei massi e le boscaglie della montagna.