Kitabı oku: «Falco della rupe; O, La guerra di Musso», sayfa 6
È nota la possanza de' Visconti: dal Taro alle Alpi, dal mar Ligure all'Adriatico tutto fu un giorno soggetto alla loro ducale corona. Non paghi delle numerose castella che aveano elevate pel piano lombardo, vollero premunire i poggi, le valli e le coste dei laghi di poderose fortezze per avervi più certo dominio e difesa. Corenno e Rezzonico videro allora costrutte le loro torri, e nel 1363 sorse un'altra Rocca, fatta in brevi anni condurre a compimento da Galeazzo Visconte, sulla montagna del Castello di Musso, sotto a quella di San Childerico. A diversità de' primi posseditori di questa, che nell'erigerla non aveano avuto di mira che di formarsi in essa un riparo, il Visconte nell'edificare la nuova rocca ebbe in animo di costruire una fortezza che valesse a tenere in freno i confinanti e i vassalli, e l'innalzò quindi in una posizione mediana tra l'antica ed il lago, spianando il pendio ed allargando lo spaldo con approcci di murate e terrapieni. Quadrangolare era la Rocca Visconti, che avea la maggior parte de' suoi muri contesti di mattoni: una sol torre le sorgeva nel mezzo dal lato del monte, nel quale s'apriva la porta con arco di sesto acuto, della qual forma erano pure le finestre che andavano difese da grosse ferriate; a metà della torre stava infissa una gran lastra di marmo su cui scorgevansi a rilievo le spire d'un serpe incoronato col fanciullo tra' denti, e vedevansi qua e là per le mura scolpiti scudi con insegne d'aquile e di croci, ritratti di duchi e duchesse, immagini di santi, tra cui non mancavano quelle di Sant'Ambrogio e di san Giorgio colla sferza e la lancia.
Situate com'erano quelle due propinque rocche al limitare delle tre libere pievi di Dongo, Gravedona e Sorico, andarono soggette a numerose e singolari vicende nel passar che facevano in potere dell'uno e dell'altro dei signorotti che battagliando s'impossessavano delle vicine terre. Venute in potere de' Francesi, furono sul finire del 1500 date in feudo col borgo di Musso al maresciallo Gian Giacomo Triulzo, detto il Magno, guerriero e duce il più illustre dell'epoca, di cui durerebbe intatta e limpida la fama, se apporre non gli si dovesse a grave colpa l'aver capitanate armi straniere a danno della propria patria, riducendola a doloroso partito; e di tale obbrobriosa azione ebbe condegna pena gli ultimi anni di sua vita, nei tanti contrassegni di noncuranza e di sprezzo che ricevette alla Corte del gallico re Francesco primo.
A' tempi del maresciallo Triulzo il formidabile ritrovato delle artiglierie diffusosi tra le principali nazioni, abbenchè imperfetto e in molte sue parti difettoso, aveva cangiato d'assai il modo dei combattimenti, e prodotte considerevoli innovazioni nell'arte del fortificare, arte che fu necessitata a totalmente differire da quella adoperata allorquando non s'adoperavano ad atterrare le mura che arieti e catapulte, e nelle pugne non venivano lanciati che sassi e dardi. Divenuto adunque il Triulzo feudatario di Musso e delle sue Rocche, pensò ridurle a tale che valessero a sostenere gli assalti di quelle recenti armi fulminatrici; alzò a tal fine al di sotto di esse, poco discosto dal lago, un baluardo di grosse mura coi valli atti a sostenere lungo tutta la fronte le artiglierie, e questo serviva di scarpa, diremo così, al Castello; ai lati di quel baluardo tracciò due linee di mura che salendo paralelle pel monte venivano includendo la Rocca Visconti e quella di Sant'Eufemia ad un forte di cui egli piantò le basi, e che esser dovea assai più di quelle spazioso. Ma fosse predilezione ed interesse pel suo Marchesato di Vigevano e per la Signoria di Musocco, fossero le gravi cure delle faccende politiche e guerresche, il Triulzo non badò a dar compimento alle ideate ed intraprese opere intorno al Castello di Musso, non tenendo di quel Borgo a cuore altro che la zecca, i di cui scudi d'oro e d'argento, detti del Sole, ebbero corso e furono ricercati per tutta Europa.
Erano le edificazioni in tal punto quando giunse sul Lago, nel suo primo vigore giovanile, Gian Giacomo Medici, volgendo l'anno 1516. Salvatosi colla fuga da Milano, ove avea troppo prestamente trattato con successo le armi, si collegò cogli altri suoi concittadini che esuli al par di lui traevano la vita a ventura: fatto loro capo, per l'ardimento, l'intrepidezza, la sagacità sua somma, condusse le più arrischiate imprese combattendo contro i Francesi, i Grigioni ed i Valtellinesi: e contribuì non poco al ritorno degli Sforza in Milano ed alla gran vittoria di Pavia riportata dalle armi imperiali. La prima volta ch'ebbe veduto il Castello di Musso, colpito dall'imponente sua posizione e dalle sue numerose fortificazioni, gli nacque pensiero d'impadronirsene, e di fermar quivi la sede del suo comando. Guerreggiava in quel tempo a sostegno delle parti de' Ducali e degli Spagnuoli contro i soldati di Francia, una squadra dei quali occupava il Castello di Musso: ei gli assalì, li vinse, gli scacciò; prese possesso delle Rocche e vi si stabilì colle sue bande armate. In premio di tal fatto il duca Sforza e il De Leyva, generale di Carlo V, il proclamarono Castellano di Musso. Proseguendo la guerra contro i Grigioni, le sorti si volsero, ed ei fu vinto ed assediato da loro nel proprio Castello. Stretto d'assedio e condotto agli estremi attese in vano soccorso dai Ducali, a favore dei quali egli aveva tanto operato. Pieno di sdegno per questo mancato aiuto, ch'ei considerò tradimento (a cui memoria ed odio fece nel Castello stampare monete di cuoio coll'impronta d'una F spezzata colla leggenda fracta fides), liberatosi dall'assedio degli Svizzeri, dichiarossi indipendente e nemico del Duca, facendosi dominatore assoluto della parte superiore del lago, stendendo il suo comando a Lecco ed a molte altre Terre in Valtellina, in Valassina ed in Brianza. Resosi così potente signore, fece condurre a termine le opere del Castello cominciate dal Triulzo: ordinò s'aprisse il gran taglio nel monte sopra ad esso: ingrandì e rafforzò le mura, ristaurò le Rocche e il baluardo: costrusse il molo del porto che cinse di forti muraglie, eresse la gran porta sotto cui passava la strada, e diede in somma a tutte quelle fortificazioni la grandiosa forma che presentavano nel momento a cui si riferisce il nostro racconto.
Pochi istanti prima che Gabriele con Falco e il Cancelliere s'avviassero al Castello, una barca venuta rapidamente dall'altra sponda del lago, e colà approdata, mise a terra un valletto di Luca Porrino capitano della Rocca di Corenno, il quale richiese d'essere immediatamente guidato dal Castellano. Tale frettoloso messaggio fece supporre ai soldati ed ai rematori, che stavano oziando sparsi qua e là presso le mura del porto, che fosse accaduto qualche importante avvenimento. Spinti per ciò dalla curiosità, si raccolsero intorno ai due uomini che avevano condotto nella barca il valletto, e seppero ben tosto che desso era venuto a recare a Gian Giacomo la novella che Gabriele e Maestro Lucio erano caduti nelle mani dei Ducali, siccome notizia giunta a Corenno da brevissimo tempo. Ad un tratto quella nuova si diffuse per tutto: i soldati già attendevano desiderosi il comando di partire, i rematori accorrevano al porto, e si disponevano nelle navi, animati gli uni e gli altri dalla brama di recarsi a liberare quel loro giovine capitano, quando egli stesso coi due suaccennati compagni arrivò appunto alla gran porta presso l'ingresso del Castello. I soldati e gli altri tutti che quivi trovavansi, maravigliati non poco nel vederlo comparire, fattiglisi incontro, si schierarono sul suo passaggio salutandolo rispettosamente, e rallegrandosi poscia tra loro tumultuosamente che falsa fosse la voce di sua prigionia, schernendo e ingiuriando i barcaiuoli di Corenno che l'avevano propagata.
Intanto Gabriele, Falco e il Cancelliere, passando sotto oscura vôlta e salendo un'angusta scala, erano entrati nella stanza delle guardie ove vedevasi una lunga fila d'archibugi a ruota appoggiati alle pareti, colle miccie accese, e vi stavano sempre uomini d'armi seduti intorno a rozze tavole a giuocare od a novellare bevendo. Di là per un'altra scala praticata nella spessezza del muro riuscirono ad una picciola spianata superiore a quella prima fortificazione ch'era il baluardo fatto erigere dal Triulzo, e che chiamavasi allora la Casa del Maresciallo. Così di scala in scala, le quali scorgevansi o cavate nel masso, o su quello costruite, ascesero alla Rocca de' Visconti, che appellavano la Torre del Biscione, e da questa alla Rocca di Sant'Eufemia.
Quando stavano per porre il piede sull'ultima gradinata, che si era quella che adduceva al più alto edifizio detto il Forte del Medici o del Castellano, videro uscirne tre personaggi che alle vesti mostravansi capitani, i quali seguiti da altri molti, si diedero a calare correndo al basso. Gabriele e Maestro Lucio conobbero ben tosto che l'un d'essi era il Borserio comandante l'antiguardo della flotta, e gli altri il Negro e Pirro Rumo capitani di navi; presumendo che scendessero per qualche premurosa fazione navale, li attesero allo spaldo onde non recar loro inciampo mettendosi per le scale che ristrette erano. Disceso che si fu alquanti gradi il Borserio, s'avvide d'essi loro, e raffiguratili, fermossi d'un tratto, alzò le braccia cogli indici stesi verso di essi, ed "Ecco, gridò, ecco Gabriele e il signor Cancelliere, essi medesimi in persona tornati sani e salvi al Castello. Come adunque ci si vien dicendo che gli Spagnuoli gli agguatarono e li presero? non hanno dessi in compagnia Falco di Nesso? egli è ben lui quel del berretto di rete e del moschetto. Salite, salite (e così gridando con maggior forza li salutò delle mani), venivamo a ricercar di voi, giacchè volevano farci credere che foste dati nel laccio della gente di là giù, e ve ne andaste seco loro stretti alla catena?"
"È pur vero, rispose Gabriele montandogli all'incontro, v'avevamo incappato, ma vi fu chi tagliò il nodo e ci rese libero il corso a ritornarcene a Musso".
"Mai sì, che s'aspettavamo che veniste voi a scioglierci dalla ragna, disse Maestro Lucio, stavamo freschi! ci traevano a loro posta gli occhi, il sangue, la pelle e giungevate in tempo come il soccorso di Pisa!"
Sfilarono di comitiva su per le scale, chiamandosi e rispondendosi l'un l'altro del modo in cui era ita la cosa, e pria che pervenissero al Forte, scorsero nuovamente uscir frettolosi da quello due altri capitani col valletto di Luca Porrino, ed erano il Mandello e il Pellicione; questo, veduti i primi che retrocedevano, arrestatosi: "Che il malanno vi colga! esclamò con ira. Perchè non siete ancora nelle vostre barche? Qual diavolo vi porta indietro?" "È qui il signor Gabriele; è qui il Cancelliere", ripeterono più voci. "Oh che siano i ben venuti! ma per la spada di san Michele! (era il suo intercalare) come va questa faccenda? o tu hai mentito per la gola, disse rivolto al valletto, o Luca Porrino era più briaco del consueto quando ti ha spedito. Dimmi tosto il vero, o per…" "Che vale lo spaventare questo ragazzo, l'interruppe placidamente il Mandello: essi son giunti, nè serve cercar più oltre; ritorniamo tosto a renderne avvertito il signor Castellano".
La porta del Forte rimanevasi sempre aperta, non necessitando quivi gran cautela di difesa, poichè non pervenivano colà che gli abitanti del Castello, o le persone che erano già state alle altre porte riconosciute: ciò non pertanto andava dessa munita di pesante saracinesca, tenuta sospesa da grosse catene di cui vedevasi il battitoio nell'imposta: stavano su quella a continua guardia quattro uomini d'armi coperti di tutta armatura colla lancia e lo scudo; al passare dei rientranti Capitani in compagnia di Gabriele quelli posarono le lancie al suolo, portando lo scudo al petto, e questi resero il militare saluto.
Attraversato un porticato, entrarono nella parte dell'edificio abitata da Gian Giacomo. Le stanze non ne erano nè eleganti, nè adorne di ricche mobiglie: le principali avevano appesi alle pareti alcuni ampii e vecchi quadri, su cui stavan dipinte battaglie, o ritratti di prelati e di guerrieri ch'erano gli antenati de' Visconti o del Triulzo, poichè il Medici non s'era curato di possederne de' proprii: le tavole e le scranne erano di legno foggiate all'antica e coperte di cuoio.
Per quelle camere vedevasi una folla di persone d'ogni grado, sì civili che addette alla milizia, notai, magistrati, uomini di chiesa, i quali tutti stavano in aspettazione d'essere introdotti dal Castellano onde esporgli le proprie bisogna e chiamarne provvedimento. Sull'entrata della sala ove Gian Giacomo dava udienza a' suoi vassalli, vedevansi due sergenti d'armi, armati di corazza e di picca, che rattenevano l'affluente moltitudine. Allorquando giunse colà il valletto venuto messaggiero da Corenno, era stato agli aspettanti dato avviso che alcun più non s'avanzasse sinchè non ne ricevessero nuovo ordine. Molti a tal cenno partirono, e gli altri, fatti dall'impazienza e dalla curiosità fra loro amici, si riunirono in piccioli crocchii ragionando e fantasticando in cento guise.
"State a vedere (diceva un mercante di drappi Bergamasco venuto a chiedere la diminuzione delle gabelle imposte sulla propria merce, trattosi nel vano d'una finestra accanto ad un curiale, ad un frate e ad uno schioppettiero Mussiano), state a vedere che i fabbricanti di Chiavenna mandano ad offrire una gran somma al signor Medici onde faccia chiudere il passo ai panni delle nostre gualchiere: cercano ogni mezzo per ruinarci, se non basta la guerra a trarci in miseria; le pescano tutte per farci del male: ormai un povero mercante non sa più come tenersi in piedi".
"No, no, no, rispondeva gravemente il Frate, quel corriere mostrava in volto troppo turbamento, per essere un messo di buon augurio; io lo direi portatore dell'annunzio di qualche sconfitta data dai Ducali agli uomini di Monguzzo o di Lecco".
"Se ciò fosse, pronunciava il Curiale alzando la destra in aria di disputa, son di parere che sarebbesi ricevuto previamente l'avviso della battaglia, o per lo meno da quelli che vennero questa mane da que' paesi se ne avrebbero avute notizie; ma ciò non avvenne, dunque (e fece un inchino) nego suppositum, illustrissimi domini". Lo Schioppettiero sorrideva lisciandosi le basette, e incrocicchiando le braccia zufolava leggiermente.
Mentre tenevansi tali e consimili discorsi, si pervenne a sapere di che realmente trattavasi, arguendolo da alcune tronche parole pronunciate dai capitani nell'attraversare che fecero frettolosi quelle stanze per partire. Nacque subito allora un bisbigliarsi all'orecchio, un ragionare sommesso: si dedussero variatissime conseguenze secondo la diversità degli interessi: chi condolevasi apertamente, chi rallegravasi in secreto con motti e accennamenti, a norma degli affetti e del partito che predileggeva. Ma il contento e il dolore cagionati dalla creduta sventura di Gabriele ebbero cortissima durata; poichè un momento dopo che se ne fu disseminata la voce, ivi giunse egli stesso seguíto dai duci, da Falco e dal Cancelliere. Ognuno li mirò stupito; e quando spalancatosi la porta della gran sala vi fu cogli altri entrato, tutti se ne partirono, e scendendo dalle scale schiamazzavano ridendo o gridando per ispiegare il fatto.
Ultimo e solo Arrighetto, il messo di Luca Porrino, calava dal Forte indispettito e mortificato come uomo colto in menzogna; sebbene nel recar l'ambasciata non avesse che eseguito un comando, pure provava grande scorno nel vedere smentito l'evento appena l'era venuto narrando. Agitando colla destra un suo acuminato cappelluccio in cui stavano infisse due penne di vario colore, tenendo la sinistra nella cinghia del giallo giustacuore che vestiva, balzava giù di gradino in gradino maledicendo il messaggio, i Ducali e quei di Musso, tanto che giunto alla Casa del Maresciallo soffermossi un istante sulla soglia della stanza delle guardie preso dal timore d'essere posto in dileggio dai soldati. E fu così, perchè, sebbene entrassevi quattamente, appena l'ebbero veduto: "Guarda, Coppo, gridò l'un dessi con cipiglio beffardo, hai tu mai veduto una gazza col groppione tinto nel zafferano? Mirala! essa ha passato il lago per cantare il mal augurio nel Castello, ma le fallì la voce, e vorrebbe andarsene terra terra per non aversi spennacchiata la coda". "Alto là, bel ragazzo (disse Coppo il Bombardiere, uomo lungo e magro, che indossava una sdruscita casacca color di piombo, e stavasi appoggiato alla porta d'uscita, di cui impedì il passaggio ad Arighetto portando le braccia ai due grossi massi che ne formavano gli stipiti), fermati un poco in questa stanza: siamo buoni compagnoni, e tu non devi aver paura di noi: spiegaci un po' la cagione perchè mai voi altri del di là del lago le bevete tanto grosse, e come poi vi prenda fantasia di venire a venderle a noi, benchè le diate più a buon mercato che un pezzo di miccia bagnata: m'immagino che qualche giorno ci verrete a raccontare che il colle d'Olciasca va la notte in giro per il lago come un barcone carico di legna!"
I soldati che avevano formato un circolo intorno ad Arighetto, diedero a tali parole in scoppii di risa, e questo silenzioso, cogli occhi bassi come un pulcino caduto in mezzo ad una truppa di galli, stette colà prendendosi, senza far motto, tutte le beffe di che il venivano tempestando, sin che ritrattosi Coppo dall'uscio, se ne andò rapidamente, quasi non vedendo la scala, e riuscito al porto, entrò in sua barca, e partissi con maggior fretta assai che non fosse venuto.
CAPITOLO QUARTO
… Vedi uno cremesino
Ha il manto e la berretta, uno la bruna
Toga si affibbia all'omero, un stiletto
Brandisce questo, e quegli un'asta, e sovra
L'inculto capo ha la mural ghirlanda:
Chi fia colui ch'è sì sparuto e macro?
Perchè quest'altro la cotenna arriccia
E i mustacchi arronciglia? Infra lor tutti
Gagliardo in armi ed in feroce aspetto
Giganteggia Ugolin.
Maltraversi e Scacchesi, Rom. Poet. di TEDALDI FORES.
Nella sala del Castello, appellata delle udienze, stava, come dicemmo, il Castellano circondato da' suoi. Egli era seduto sovra un seggio cui faceva baldacchino un ampio gonfalone di colore purpureo, polveroso e traforato in più parti da palle nemiche; al di sopra di questo vedeasi sospesa una campana di bronzo con cerchii d'argento, che chiamavasi la Martinella, l'uno e l'altro de' quali arnesi venivano attaccati ne' giorni di festa o di guerra all'albero maggiore del brigantino che faceva in certo modo sul lago la funzione dell'antico Carroccio sì famoso ai tempi delle repubbliche lombarde.
Gian Giacomo Medici, presso al suo trentesimosesto anno, era vigorosissimo della persona, poderoso di braccio quanto altri mai, non di troppo alta levatura, nè corpulento oltre il convenevole: nerboruto e ben proporzionato delle membra, lasciava scorgere in esse tutta l'attitudine che possedeva ai moti rapidi e vibrati. Il suo aspetto era ben degno d'un capo d'uomini armigeri: atto ad atteggiarsi ad imperiosa severità e fierezza, sapeva spirare ben anco intrepidezza ed indomabile coraggio, cui aggiungeva a suo grado un far grave od affabile, non dilicato, a dir vero, ma più che mai opportuno ad infondere rispetto insieme ed amichevole confidenza a quelli che seco lui contrattavano. Aveva neri capelli, corti e ricciuti come la barba e le basette, fronte alta spaziosa, naso rilevato aquilino, arcuate e folte le sopracciglia: lo sguardo appariva a primo tratto imponente, ma chi l'esaminava accuratamente scopriva in esso quella sagace penetrazione di cui Medici era in sì alto grado dotato, e di cui sapeva trarre mirabile partito in ogni politica e guerresca circostanza. L'abito suo era semplice, e non affatto cittadinesco in quell'incontro nè del tutto militare. Gli copriva il petto un corsaletto d'acciaio terso, lucente, ma senza smalti o rabeschi, aveva ampie maniche e braconi allacciati al di sopra del ginocchio, di velluto bruno con striscie più nere; portava al fianco una lunga spada con impugnatura larga e rintrecciata onde servire alla mano di scudo, e teneva infissa obbliquamente nella cintura una pistola abbellita con intagli d'avorio, arma pregevolissima e rara a que' tempi, sebbene il congegno per iscaricarla essendo a ruota la rendeva incomodo e complicato ordigno.
Siccome Gian Giacomo non chiudeva un animo soggetto ad essere agevolmente sorpreso o sbigottito, non aveva prestata che poca fede all'annunzio dell'imprigionamento del fratello Gabriele e del Cancelliere, nè se n'era posto gran fatto in agitazione; ed abbenchè per qualunque possibile evento avesse tosto ordinato a' suoi Capitani andassero in traccia di loro per ricondurneli ad ogni costo, era convinto che quella notizia fosse derivata da uno de' consueti abbagli di Luca Porrino. Per ciò allorquando rientrarono in quella sala il Mandello e il Pellicione facendo lieto viso, egli comprese all'istante essere la triste novella già smentita, onde al giungere che quivi fece Gabriele con sua comitiva, alzandoglisi d'incontro, girò intorno sorridente il volto, quasi dir volesse ben mel sapeva ch'ei non era preso.
Gabriele corso a lui affettuosamente l'abbracciò, e per suo invito sedutoglisi d'accanto gli disse all'orecchio alcune rapide parole accennando coll'occhio Maestro Lucio, che dopo essersi piegato in un profondo inchino era rimaso immobile di fronte al Castellano, e Falco che s'arrestò poco da esso discosto, e che sarebbe stato certamente di là ripulso se, oltre il seguire Gabriele dappresso, col proprio contegno fiero e sicuro non avesse persuasi gli astanti ch'egli sentivasi in diritto di colà rimanersi.
"Cancelliere (disse Gian Giacomo a Maestro Tanaglia, dopo aver misurato Falco d'uno sguardo indagatore), voi farete cosa graditissima a noi tutti esponendoci con esatta narrativa il successo della vostra spedizione col mio Gabrio, ch'essere dee stata per vero fortunosa se diede luogo a strane dicerie".
Messer Lucio si dispose immediatamente a soddisfare quella inchiesta, e fece il più minuto racconto di tutta l'accaduta ventura, esagerando ben anco il periglio in cui s'erano trovati, e magnificando con molte esclamazioni tanto il proprio coraggio quanto l'arditezza adoperata da Falco per la loro liberazione: mano mano che progrediva narrando, gli occhi del Castellano, de' suoi Capitani e degli altri personaggi ch'ivi si ritrovavano, fermavansi con maggior curiosità ed attenzione sul Montanaro di Nesso, le cui forme, l'abito e l'arme ben ne caratterizzavano la forza e l'audace costume.
"Il tuo navicello equivalse altre volte ad una mezza flottiglia", disse a lui rivolto Domenico Matto, capitano di nave, figlio del valoroso ammiraglio delle Tre Pievi, "e mio padre ti tenne sempre in conto di espertissimo comandante da che fosti seco alla battaglia di Limonta". "Questo è quello stesso, o signor Castellano, soggiunse Lodovico Bologna, che fece salvi gran numero de' nostri, quando ceduta che ebbi Chiavenna allo Zeller, nel ritirarmi colla mia banda fui sorpreso dai Valtellinesi a Proveggia, ove saremmo stati tutti spinti ad affogarci nel lago o nell'Adda, se la barca di Falco e alcune altre poche delle nostre non fossero giunte in tempo facendo forza di remi onde raccoglierci".
"Oh per la spada di san Michele! aggiunse il capitano Pellicione, non è questo quel Falco sì noto della rupe di Nesso? Non ti sovviene, Alvarez, di quel giorno in cui trovandoci sulla spiaggia di Sorico sotto l'olmo dell'osteria a vuotarne una misura, egli ci venne e bevette con noi, e quando fummo per partirne, sbucciati non so quanti ribaldi volevano ammazzarci, e noi combattemmo contro di loro sì fattamente, che nacque un parapiglia per tutto il paese? allora non fu pel modo con cui questi seppe menare le mani, che noi rimasimo padroni del campo?"
"Non vuoi che men ricorda? m'ho ben presente come se il vedessi ancora, ch'ei maneggiava quel suo moschetto e il pugnale come il più bravo guerillas della Morena"; rispose con una voce fatta roca e strillante dal lungo uso di bevere e gridare Alvarez Carazon disertore Catalano, il più intrepido e spensierato uom d'armi che mai vi fosse, gran fidato del Pellicione, che aveva corso del mondo assai e navigato per fino alle nuove Indie allora recentemente scoperte, del qual viaggio, che s'aveva a que' tempi del maraviglioso, esso non menava altro vanto fuorchè d'aver quivi fatto macello di centinaia d'abitatori e rubate in gran copia verghe e polvere d'oro e d'argento.
Falco, sorpreso al vedersi fatto scopo delle parole e dell'interessamento di que' Capitani, e più di quello di Gian Giacomo stesso che sempre fisamente il mirava, a lui rivolto con aspetto sicuro e franco disse: "Voi trovate un pregio in me l'avere combattuto con valore in varii scontri contro gente che essendo a me nemica è nemica pure del signor Castellano; ciò a me non pare sia sì gran merito da valermi le vostre lodi, perchè sappiate che mi stimerei uomo infingardo e da nulla, se quelli contro i quali determinai di pugnare non mi avessero a incontrare sempre munito di tutta la mia forza e di tutto il mio coraggio".
Gian Giacomo avea più volte udito far menzione delle imprese di questo suo spontaneo abbenchè picciolo alleato, ma non essendogli mai accaduto di venire seco lui a colloquio o vederselo vicino, non avea potuto contrarre con esso una perfetta conoscenza, al che non era per essere di benchè minimo ostacolo la diversità del loro grado e potere; parve quindi ad esso ottima sorte, che l'obbligo in cui trovavasi di dargli un premio condegno al salvamento d'un fratello, gli offrisse occasione di renderselo dipendente ammettendolo nel numero de' suoi, e di porgergli ad un tempo mezzi più adatti ad adoperarsi con maggior efficacia in suo vantaggio.
"È singolare, diss'egli a Falco sorridendogli amichevolmente, che i Ducali non abbiano mai pensato a distruggere un nemico così loro formidabile come tu il sei: ed è ben d'uopo dire o che non ardiscono cimentarsi teco, o che somma sia la tua destrezza nel sottrarti ai loro perseguimenti. Ma tu non ignori di certo che non v'ha belva sì guardinga, che aggirandosi tra boschi seminati di trabocchetti al fine non v'incappi, e così può avvenire di te: giacchè se giungono una volta a serrarti in mezzo alle loro navi, non devi aver speranza d'evitare d'essere morto e disfatto col tuo navicello dalle bombarde Milanesi che sono pur poderose. Però a scanso di tale sventura, che sarebbe a me gravissima, tu salirai una delle mie navi e combatterai unito alla mia flotta: ti creo Comandante di due Borbote7 e della nave uscita testè dall'arsenale di Musso, cui impongo sin d'ora il nome di Salvatrice. Gabriele sceglierà cinquanta uomini della sua schiera i più destri e capaci, e li porrà sotto il tuo comando, a questi tu aggiungerai quelli fra tuoi che più ti piaceranno: il Cancelliere ti annoterà per stipendio duecento scudi del brigantino8 di cui ti faccio assegno, e d'ogni preda che ti verrà fatto di prendere terrai tu una parte, darai un'altra a me, e la terza a' tuoi soldati".
Un mormorio, un susurrare universale sorse a tali parole, ed era approvazione in alcuni, meraviglia nei più, e malcontento in altri pochi. Approvarono coloro che o molto ligii al Castellano assentivano di buon grado ad ogni suo volere, o propensi per Falco il vedevano volonterosi di tal onore fregiato ed ascritto al loro novero: maravigliava il maggior numero, e non senza giusta cagione, essendo quella la prima fiata che Gian Giacomo accordava una sì importante distinzione in un modo tanto spedito d'assoluta autorità senza consultarne alcuno, e ciò che più sorprendeva, ad un uomo a lui presso che sconosciuto: quei Capitani poi o Condottieri di minor conto che aspiravano al comando della nave conceduta a Falco, sentitisi ferire dalla preferenza data a quel rozzo montanaro, esprimevano con motti sdegnosi il loro disgusto, nel che s'avevano pure in accordo alcuni i quali, sebbene stessero colà come ribelli e banditi dalle Corti, serbavano tutto l'orgoglio e la baldanza d'una superba nobiltà di cui avevano fatto pompa in altri tempi. All'intendere quel misto favellío Gian Giacomo rizzossi tosto in piedi, e copertosi iratamente il capo col suo berretto di velluto rosso largo schiacciato, sormontato da lunghe piume, vibrò d'intorno uno sguardo imperioso, e chiamati a se il Pellicione, il Borserio ed Achille Sarbelloni, uscì a lenti passi da quella sala entrando nel proprio appartamento.
Già incominciava il Medici a conoscersi sovrano, nè è improbabile che nell'elezione di Falco in suo comandante, da lui fatta in quella subitanea forma, oltre le cause suaccennate di suo speciale interesse, avesse di mira d'esercitare un atto di potere con cui far palese che gli altri non erano che suoi soggetti, e che egli a guisa dei Duchi e dei Sovrani Signori poteva innalzare o deprimere chi più gli piaceva, senza seguire altra volontà che la propria. Però non v'ha posto in dubbio che pria d'arrischiarsi a tal atto e dar prova tanto aperta e decisa del sentimento di sua possanza, egli avesse accuratamente fatto calcolo d'ogni possibile conseguenza, e quindi conchiuso non potergliene derivare danno di sorta, ma bensì utilità certa, poichè uomo di guerra e d'armi come egli era, possedeva anche perfettamente quell'arte che suolsi volgarmente chiamare Politica, e consiste nella conoscenza sicura degli uomini e delle circostanze e nell'attitudine di preparare e condurre, diremo così, le une e gli altri a seconda de' proprii desiderii; arte senza di cui ben si può giungere a celebrità somma, ma a sommi poteri e ricchezze non mai.
Gabriele, soddisfatto e gioioso di quanto avea ordinato il fratello in favore di Falco, si tolse con questi dalla sala d'udienza, e volgendo in cuore lietissime idee e soavi speranze, si fece a rammemorargli le proposte del discorso tenuto il mattino tra loro, risguardanti il traslocamento di sua famiglia dalla rupe di Nesso alla terra di Musso, e gli disse che s'avviava a parlarne a Gian Giacomo, il quale avrebbe a ciò pure di buonissimo animo e indilatamente provveduto.