Kitabı oku: «Falco della rupe; O, La guerra di Musso», sayfa 8
Legato d'amistà a' Sarbelloni, e per questo ai Medici, venne a visitarli al Castello di Musso, e Gian Giacomo non credette poter meglio affidare che a lui la difficile incumbenza del messaggio a Carlo V, di cui narrò allora il successo dicendo "che giunto a Ratisbona dove trovavasi Carlo, vide la sua Corte ingombra di Principi e Baroni, Spagnuoli, Fiamminghi e Tedeschi, che ivi tutte le cure dell'Imperatore erano rivolte a frenare i progressi della Riforma Luterana che cagionava nella terra Germanica sanguinose guerre civili, che colà ebbe certa notizia che, a suggerimento del Papa, stava Carlo per trattare le nozze del duca Francesco Sforza con una principessa del suo sangue, la quale dicevasi dover essere Cristina, figlia di Cristierno re danese, sua nipote, per il che era dovere il figurarsi che l'Imperatore non poteva consentire a veruna sminuizione di dominio nel Duca, che infatto parlando egli con Carlo stesso e intrattenendolo delle richieste di Gian Giacomo, s'era da prima sdegnato, poscia gli aveva espressamente comandato di riportare che se il Medici disponevasi a cedere spontaneamente l'usurpatasi Signoria di Musso, l'avrebbe ricompensato con generose largizioni e posti d'onore, altrimenti il dichiarerebbe fellone al Duca ed all'Impero, e farebbe a lui ed a' suoi pagare la resistenza a caro prezzo".
Balzarono in piedi a tal riferita minaccia Borserio e Pellicione, e "Così parlava quel superbo Castigliano? esclamò il primo fremendo: pretende egli, perchè possiede cinque regni, ispaventare coi soli suoi detti gli uomini di tutte le nazioni? egli che rifiutò la sfida di Francesco di Francia per non sapere reggere nella destra la spada?"
"Qui, gridò il secondo, qui ci siamo posti da noi, e qui staremo: che bravate son le sue? venga, venga, e, per la spada di san Michele! gli daremo tal lezione che tutto l'oro delle sue Indie non varrà a pagarla!"
Gian Giacomo, ch'erasi dimostro compreso d'ira alla narrazione del rifiuto a lui dato dal Re francese, all'udire le imponenti proteste e le minaccie di Carlo apparve calmo, nè altro lasciò scorgere in volto che un sardonico sogghigno; dopo il quale impose silenzio ai Capitani, e chiese ai suoi due messaggieri in quale stato si trovasse la Svizzera, ed in ispecie i Cantoni Alemanni.
"La face della discordia arde tra loro, continuò Volfango: le dispute di religione cangiate in aspre risse hanno fatte impugnare le armi agli abitanti delle Elvetiche valli, e le nuove dottrine si spandono col sangue e colle stragi. Zuinglio combatte Lutero, ed un nuovo riformatore, Calvino, si oppone ad entrambi. Berna e Zurigo, le più potenti, hanno distrutte ed arse tutte le sacre insegne del Cattolicismo: Lucerna, Svitz, Uri ed Underval, fide ai precetti di Roma, si danno mano per sterminare l'eresia. Uomini stranieri di varii partiti aizzano l'ire soffiando nelle fiamme dell'odio e della vendetta; intanto Carlo rammenta l'antica potenza de' Duchi d'Austria in quella terra, e la Francia non dorme: e voi, siatene gioioso, o Castellano, poichè soccorsi nè d'uomini nè d'oro più da colà non perverranno alla Lega vostra nemica, la quale non tarderà essa pure a sentire i morsi della rabbiosa smania delle contese de' novelli principii che con favore accolse e da cui è in più parti invasa".
La conferma sì evidente e sicura d'una tanto vantaggiosa novella, di cui s'aveva prima incerto sentore, mitigò nell'animo del Medici i torbidi pensieri destati dalla mal riuscita d'entrambe le ambasciate. Ei vedevasi bensì decaduto da ogni speranza di sovrano sostegno da lui sì lungamente nutrita, ma la tempesta che il minacciava era lontana ancora, e le nubi non annerivano che d'una striscia l'orizzonte del suo politico cielo; i nemici attuali erano più ostinati che invincibili, e se le guerre intestine forzavano la Lega Grisa ad allentare la foga degli assalti, egli poteva per lunga pezza tenere piede fermo contro il Duca. L'Imperatore doveva avere altro ad attendere che a mandare eserciti contro di lui; d'altronde in que' monti i battaglioni regolari e la cavalleria non potevano nè dispiegarsi nè campeggiare: egli era certo della fede de' proprii capitani e delle bande de' suoi armati, possedeva un Castello quasi inespugnabile e una flotta numerosa, quindi il ridurlo agli estremi non doveva essere l'opera d'un istante, e poteva ancora ricorrere a cento mezzi di soccorso. Fatte rapidamente simiglianti riflessioni, s'alzò, e stendendo la mano a que' suoi fidi: "Abbiamo scoperto, disse ilaremente, che pensano di noi i due gran Re: conosco che m'ingannai, credendo abbisognare di loro protezione: noi sapremo da noi stessi tenerci indipendenti e liberi a Musso più ch'essi nol siano a Parigi ed a Madrid: che nessuno sappia quanto fu qui detto tra noi". Ed uscendo di là, salutò ad uno ad uno con misterioso sorriso quelli che recaronsi in altre parti del Castello, ritornando esso col Pellicione nelle proprie stanze, ove sino a notte avanzata si trattenne seco lui in animati colloquii.
CAPITOLO QUINTO
Era sereno il ciel, splendea la luna
Ridente a mezzo della sua carriera;
Nessun fragor s'udia, voce nessuna:
Sol quella universal quiete intera
D'improvviso venia rotta talvolta
Dal grido dell'allarme d'una scolta.
.....
Dall'alto spaldo del veron qual era
Grande della persona ed aiutante
Al lunar raggio discopríala intera
Il desioso sguardo dell'amante.
GROSSI, Ildegonda, P. 1.º
La più alta e maestosa torre del Castello di Musso quella si era che sorgeva nel Forte di Gian Giacomo, posto, come dicemmo, nella parte più eminente di esso; elevata dominatrice di tutte le merlate mura dell'acclive Fortezza, potevasi propriamente ad essa sola applicare il nome di vedetta del lago. Le mura de' suoi fianchi e le quadrate pietre che ne munivano gli angoli, allora recentemente eretti, non erano stati per anco imbruniti dalla mano del tempo, nè miravansi dal musco e dai serpeggiamenti dell'edera rivestiti; onde quella torre giganteggiava alla vista del lontano riguardante, ben distinta pel suo colore rosso cupo e staccata dal bigio sasso del monte che le stava di schiena; il vessillo Mediceo che le sventolava alla cima scorto dalle acque e dagli erti vertici dei monti più discosti, appariva formidabile e minaccevole insegna. Così negli adusti piani del Nilo una tenda che s'innalza alla sommità di colossale granito indica da lungi alle moresche carovane l'asilo dell'errante Beduino terrore del deserto.
Il baluardo del Forte Gian Giacomo stava congiunto ad essa torre per oltre un terzo di sua altezza; e quivi vedevasi nella torre praticata un'angusta porta, a forma d'un foro quadrato, da cui s'aveva accesso al bastione medesimo. Presso la torre esisteva nel baluardo una casamatta, ossia andito interno, in cui si scendeva per ristretta ed oscura scala esattamente coperta, dalla quale pervenivasi alle stanze del Castellano che aveva fatta costruire quella secreta comunicazione colle mura a fine d'avere una uscita incognita dal proprio alloggiamento per recarsi imprevedutamente ad invigilare il Castello, e nei tempi d'assedio sorprendere all'improvviso le guardie del vallo per costringerle a continua gelosa custodia del posto affidato.
Per far coperchio alla scala della casamatta s'era costrutta una picciola vôlta con una rotonda apertura chiusa da grossa tavola, su cui essendosi postata terra ed erba, pareva un naturale rialzo del suolo cagionato da una larga pietra ivi sepolta; e siccome tal rialzo trovavasi tra il muro della torre e le ferritoie del baluardo, porgeva un comodo sedile a chi inosservato avesse voluto contemplare il castello o il vastissimo prospetto d'intorno. La veduta che di là si presentava, era, per vero dire, incantevole, ed offriva un ampio svariato quadro di grandioso aspetto e di energiche tinte tutte d'un particolare e pronunciato carattere, in somma armonia coi sentimenti vigorosi e profondi, sebbene rozzi, degli uomini di quella età, a noi in certo modo rappresentati ancora dalle impressioni che ci lasciano il racconto degli avvenimenti e la vista degli edificii, e di presso che tutte le opere d'arte e d'ingegno di quell'epoca a noi pervenute.
Lo sguardo da quella sommità scendendo d'una in altra delle turrite Rocche del Castello perveniva al piano del lago, le cui acque stendevansi alla vista per circa trenta miglia di lungo, ed ove quattro, ove sei in larghezza, riflettendo come vasto specchio la vôlta del cielo, e capovolti li paesetti della sponda e le montagne di cui si spianano al piede. Mirando dal baluardo al di là del lago, vedevansi di fronte i due monti Legnoni, immani fratelli che s'innalzano a piramide, il maggiore de' quali mostra il capo presso che sempre cinto da una corona di nubi: sui loro gioghi aspri e selvosi abitati dagli orsi scorgevansi le solitarie chiesette di Santa Elisabetta e di San Siro. Al loro destro fianco penetrava la vista pel pian di Colico nella bassa parte della Valtellina rigata dall'Adda, fiume che s'ha l'aspetto di lucida striscia che mette capo nel lago. Nel settentrione a ridosso di cento culmini di monti minori conformati a scaglioni torreggiavano all'occhio le dirupate creste delle Alpi perpetuamente biancheggianti di neve, le quali come un candido muro sembrano invano quivi sorgere insuperabili. Abbassando lo sguardo a sinistra vedevasi il piano di Domaso protendersi verdeggiante nel lago, separato per un golfo da quello di Gravedona, che interciso da seni e da torrenti, fra cui primeggia l'Albano, si stende sino a Dongo, la terra più prossima da quel lato al Castello, sui tetti dei cui casolari miravasi da questo quasi a piombo guardando pel pendío mancino. Dalle spalle presentavasi immediatamente il sasso della rupe, e l'occhio dal fondo del taglio che ne disgiungeva quel Forte sino alla punta detta della Croce, che ne era il ciglione, non aveva che l'aspetto della nuda cinericcia balza. Presso il lago da destra mostravasi la popolosa Musso coi molti suoi fabbricati, tra cui spiccavano le chiese, i conventi, la zecca, l'arsenale, e le torri che munivano il ponte sul Carlazzo. Nel colle ad essa superiore vedevansi Croda, Terza, Campagnano, sparse fra altre picciole Terre, e più sull'alto nel monte distinguevansi la Bocca di San-Bernardo e le punte di Palù. Lasciando poscia scorrere la vista su quella costiera di mezzodì, miravasi il suo lembo variamente frastagliato dalle acque, ed i poggi e i valloni ricchi di selve, d'ulivi e di verdi pascoli succedersi gradatamente sin là ove si nascondevano all'occhio dietro il dosso del monte che s'avanza formando la punta di Rezzonico, del di cui antico e già potente Castello le torri e le mura distintamente apparivano.
Di là lo sguardo balzava al lontano colle di Bellagio, che posto all'estremità della Valle-Assina forma capo a due laghi: la tinta aerea di quel promontorio bene ne indicava la distanza, che andava sempre crescendo se spingevasi l'occhio pel lago di Lecco, alla cui destra distinguevansi tra i monti le sommità di quello di Canzo, che hanno sembianza di corna, ed alla sinistra la giallo-rossiccia Grinta di Mandello tutta nuda e scoscesa montagna. Compiendo il gran cerchio, ritornando coll'occhio ai Legnoni, si scorgeva tutta l'opposta sponda dritta e bruna per balze selvose: e vedevansi in essa Varenna, prossimo a cui da misteriosa grotta scaturisce il fiume Latte, Bellano, Dervio che s'alza su un largo verdeggiante piano generato dall'impetuoso Varrone, e finalmente Corenno, sulla torre della cui Rocca stava pure inalberata la Medicea bandiera.
Toltosi alle brighe soldatesche, al favellare importuno de' suoi compagni d'armi, Gabriele, solitario e pensoso s'aggirava sul finir del giorno pei porticati ed i cortili del Castello sperando trovare nelle illusioni dell'immaginativa la calma a quel tenero e doloroso pensiero che costantemente il martellava e da cui aveva in vano sperato sollievo nelle distrazioni dei consueti esercizii. Venuto nel Forte Gian Giacomo, e giunto a piè della torre, pensò salire sul baluardo per sottrarsi vie meglio alle ricerche, alle noiose inchieste dei capitani ed agli sguardi d'ognuno: asceso a lenti passi la spirale scalea della torre, entrò curvandosi per l'andito aperto nello spessore del muro ch'era la picciola quadrata porta, e spingendo la ruvida imposta che la chiudeva, uscì sul baluardo, dove andò tosto ad assidersi sul rialzo della casamatta d'appresso alle feritoie. Il vasto magnifico prospetto che di là dispiegossi ai suoi sguardi, occupò per un istante tutto il suo spirito, attenuandovi l'assidua presenza di quell'immagine che mai noll'abbandonava, e gli infuse in cuore un trasporto, un aumento di vigore e di vita che le grandi scene della Natura non tralasciano mai di produrre in un'anima appassionata che serba intatta e pura la vivida tempra di giovinezza.
Il colore roseo ardente di cui si riveste il cielo negli estivi tramonti splendeva quel giorno di tutta nitidezza e sfulgore essendo l'aria d'un purissimo sereno. I monti e le valli di quel circolo spazioso dipinti da un'aurea porporina luce riflessa nelle acque, fulgide esse pure come la vôlta del cielo, s'avevano un così vago, un non so quale incantevole aspetto, che traeva a mirarli con sentimento di gioia e di secreta riconoscenza, quasi si sentisse che una mano creatrice e benefica avesse preparato quel quadro sublime onde offrirlo a diletto dello sguardo dell'uomo. L'occhio di Gabriele vagava dai monti alle acque, da queste al cielo, e l'anima sua era compresa a quella vista da una piena e indefinibile delizia.
Ma quella lucentezza dell'aria, quel lusso di raggi brillanti e di colori pari in ciò ai contenti della vita, s'andava rapidamente attenuando; e mano mano che le ombre dei monti vicini si estendevano, che offuscavansi i lontani, che la porpora del cielo tramutavasi morendo in un bruno cilestre, nel cuore di Gabriele svaniva quel senso di felicità di cui era stato per varii istanti penetrato, e vi tornava a risorgere più vibrato e affannoso il primitivo pensiero. Allorquando intera oscurità coverse le montagne e i colli, ed abbrunissi il lago, nè altro apparve distinto in nere forme a' suoi occhi che le mura e le torri della sottoposta Fortezza, vi lasciò cadere mesto uno sguardo, indi piegò addolorato il capo tra le palme e sospirando tutto s'ingolfò ne' proprii pensamenti.
Nessun moto del cuore è sì espansivo, nessuno impelle sì forte l'anima a diffondersi quanto quello dell'ammirazione che nasce alla vista del bello profondamente sentito. Lo spirito invaso da una ideale armonia si desta spontaneo ad un inno di gioia, che a molti è dato internamente sentire, al solo genio concesso l'esprimere; guai però se nell'ebbrezza dell'animo commosso s'affronta la convinzione che in niun petto un cuore è partecipe alle vibrazioni del nostro, che muto all'altrui mente è il nostro tripudio, e si esala e svanisce inconsiderato come una voce melodiosa nella solitudine! allora il senso d'un cupo isolamento ricade su di noi, ci tormenta, ci opprime, e non v'ha refrigerio allo spirito se non nell'incontrare la traccia d'un oggetto cui sia cara la nostra sorte, ed a cui tutto riferire quanto v'è di prezioso nella nostra esistenza.
Tale era stato il giro delle idee di Gabriele, e quando chinata la testa rimase immobile nella massima concentrazione, era pervenuto appunto all'investigare se quell'oggetto a cui unicamente teneva rivolto il pensiero, quello da cui solo bramava un ritorno d'affetti, quello che aveva per lui dato un prezzo pria ignoto alla vita, e che stimava unica e straordinaria fra le creature, sentisse per lui verace e fervoroso interessamento. Nuovo però ed inesperto com'era nei nodi d'amore, passava colla fantasia per cento chimere, senza saper trovare ove potesse posarsi per dedurre con fiducia una speranza, ma pure incalzato dal bisogno di dare a se stesso una positiva risposta:
"Chi son io per lei? (diceva tristamente tra se stesso) Come posso credere d'averle cagionato ciò ch'ella produsse in me, se quello che io provo non fummi destato mai da altra persona fuorchè da lei sola? Dunque ella sola può operare sì maraviglioso prodigio: sperare d'aver causato in lei un simigliante effetto sarebbe una vanità sconsigliata. Quante donne non vidi, quante non mi guardarono? Eppure chi mai fu a' miei occhi che pareggiasse costei, questa semplice montanina di celeste sembiante, che certo gli angeli del paradiso non ponno averne un più dolce e leggiadro? E le sue pupille! oh ch'io non vi pensi! un tremito, un ardore mi scorre dalla testa ai piedi se mi rammento i suoi occhi. Qual forza irresistibile sta in essi! che sia una malía, una potenza sovrumana per consumare la vita di chi li affisa? No che sì stupenda bellezza, una tale soavissima fiamma, non può essere l'opera d'arti infernali? e se ben anco fosse un incanto, vi struggerei volenteroso tutti i miei giorni. Ah con qual forza io sento che vorrei essere davanti al suo pensiero così come essa lo è incessantemente al mio e vorrei ch'ella sapesse quanto io provo per lei, quanto desio mi arde di mirarla, di vagheggiarla, di pendere da null'altro che da' suoi sguardi, dalle sue parole! Oh s'io vivessi sempre nella sua capanna, se la seguissi pe' suoi monti, mi stassi ognora al suo fianco… se le esprimessi… e se ella.. cielo!.. qual gioia!" – Fu sì forte la sua esaltazione a tal pensiero e il suo immaginare sì vivo, che invaso da un trasporto d'amore, balzò in piedi quasi se Rina gli stesse realmente d'accanto: ma ritornato in se ad un tratto lasciò cadere rattristito le braccia, e s'assise meditabondo di nuovo.
Trasparente, leggiero come il velo d'un aereo spirto una nuvoletta che s'andava argentando, annunziò il sorgere della luna, che, senza ecclissare alcuno degli astri, in mezzo ad una sfera di pallida luce spuntò col falcato disco sul nero ciglione degli opposti monti. Gabriele mirò quel candido lume del cielo con occhio di tenerezza, quasi fosse sorto ad arrecargli conforto e speranza, ed a lenire l'ardore che l'infiammava colla soavità del suo mite splendore; ma poco stette che anche quella luce gli parlò al cuore di Rina, e "No, esclamò con affanno, no, io non vedrolla forse mai più:, e se pur la vedessi, come mai farla mia? Il vorrebbe Gian Giacomo, l'assentirebbero gli altri parenti miei? Ebbene, se, essi si oppongono a tale mia brama, che mi veggano ben tosto morire. O Rina, o morte. Ecco il voto ch'io pronuncio invocando i santi del cielo, di cui voi, o lucenti pianeti, adornate la soglia. Sì, lo ripeto: o Rina o morte: e questo mio voto fia sacro come se il pronunciassi innanzi al più miracoloso degli altari".
Come avviene egli mai che l'amore, il quale dir si può l'eccesso della vita, faccia volgere sì agevolmente lo spirito all'idea del morire? Come mai l'anima, anzichè venire atterrita dall'idea del passaggio dal più profondo sentire all'assoluta quiete della tomba, la sospira e la brama? Noi non osiamo investigarne la causa, ma qualunque essa sia, fatto è che Gabriele fu condotto rapidamente dalla propria fantasia ad abbracciare come rimedio estremo all'amor suo, se stato fosse sventurato, la morte, e proferendone il voto, sentissi ringagliardire, e fatto maggior di se stesso, aumentarsi in petto la speme.
Dopo avere così lungamente vaneggiato in amorosi delirii ora piegando a placidi consigli, ora ad estremi rimedii avvisando, guardò la luna che salita a mezzo il cielo annunziava essere già inoltrata la notte, e pensò di là discendere per ritrarsi in sua stanza a riposo, onde, alzatosi, entrò nella porta quadrata della torre per calare da essa al basso; Nel momento però che stava per porre il piede sul primo gradino, udì al fondo della scala lieve rumore di pedate ascendenti, e travide un lucore debolissimo come di lanterna Coperta da mano o da altro impedimento. Egli non potendo scorgere chi fosse che su venisse perchè nel rimanente quell'interno della torre era oscurissimo, non vedendovisi che alle sommità un barlume di luna che penetrava da ristrette fenditure del muro, retrocesse di nuovo sul baluardo onde evitare uno scontro con chi saliva fra quelle tenebre, che dar potesse luogo a sospetto o ad allarme, poichè suppose si fossero soldati che salissero a far la scôlta sul bastione medesimo. Retrocesso che si fu per ischivare eziandio di mostrarsi improvvisamente al loro uscire dalla torre, si ritrasse a qualche distanza di là, e oltrepassando il rialzo che copriva la casamatta, ed ove era stato pria seduto, si pose ad una diecina di passi lontano appoggiandosi ai merli che guarnivano il muro in vista d'uomo che stesse quivi oziando a rinfrescarsi all'aria notturna.
Le pedate s'andavano facendo più distinte e indicavano al rumore d'essere di più persone, l'una delle quali apparve al fine sul limitare della quadrata apertura: era quegli che recava la lanterna. Porse in avanti il capo pria di mettersi fuori del tutto, e portando la lanterna all'altezza del volto spiò d'intorno con sospetto; ma non s'accorgendo di Gabriele, uscì francamente dalla torre. Appena ebbe posto piede sul baluardo, e venne rischiarato per intero dal chiaro della luna che quivi batteva, Gabriele mirandolo attentamente s'avvide con istupore al suo vestimento che non era un soldato, nè altro uomo del Castello a lui noto: a tal vista immediatamente appiattossi traendosi tutto entro l'ombra fitta del rialzo merlato onde attendere e scoprire a che e con chi fosse quivi venuto quello straniero. Questo chiuse la lanterna di maniera che non mandava affatto più lume, la posò al suolo e si rivolse poscia alla porticella della torre accennando colla mano agli altri che s'avanzassero: ne comparve uno ben tosto ed uscì traendo per mano un altro che era pur tenuto da un terzo.
Guardinghi e cauti si fecero avanti anche questi appressandosi al primo; e quale non fu la sorpresa di Gabriele riconoscendo nella persona che stava di mezzo agli ultimi venuti, il Cancelliere Maestro Lucio Tanaglia: volea levarsi, farsi palese, e chiedere ad esso lui, come e perchè fosse salito a quell'ora insolita sulla muraglia, e di qual parte venissero quegli uomini che seco erano; ma quatto ristette senza moversi, udendo in tal punto lo stesso Tanaglia pronunciare tremando a mezza voce queste parole: Benedetta gente, perchè trattare così con un galantuomo… con un vostro Milanese… con uno che cercava di farvi del bene… – Taci, dissero ad una voce, ma pianissimo, quei tre-Ma signore Iddio, riprese Maestro Lucio un po' più forte, voi volete veramente… – Zitto, o mori: ripeterono gli altri più piano alzando tre pugnali. Maestro Lucio si contorse e tacque. Quello ch'era salito innanzi agli altri, s'accostò al rialzo della casamatta, vi si mise carpone d'appresso, e andò tastando e percuotendo leggermente il terreno tutto d'intorno col pomo dello stile sinchè sentì rimbombarsi di sotto un suono di cavità. È questa l'entrata della scala secreta? chiese allora con bassi accenti rivolto a Maestro Lucio; ma desso parve non intenderlo e continuò a tacere: i due che gli stavano a fianco, squassandolo per le braccia, gli dissero all'orecchio: Rispondi. – Io non so niente, esclamò con voce alta Tanaglia: -Piano: rispondi, o mori; e gli appuntarono i pugnali alla gola: Oh povero di me, cosa volete ch'io sappia? ahi… ahi… è quella… è quella… – Silenzio e queto: disse l'uno serrandolo più strettamente pel braccio ed abbassando il pugnale, e l'altro l'abbandonò e si mise a terra presso il primo. Sgrettolando il suolo e puntando insieme col ferro degli stili ed una squarcina che s'avevano, sospendendo il lavoro quando udivano il legno scricchiolare troppo forte, giunsero a scassinare una tavola, e levandola, vedendovi sotto un vano tondo e nero come di pozzo: Ci siamo, dissero tra loro; e l'uno, alzatosi, riprese la lanterna, e scoprendone il lume, si mise in ginocchio presso quel buco, e ve la internò spingendovi la testa: Ih ih, disse al compagno, che scala lunga? non vi si vede il fondo: ma tanto fa: tu scenderai pel primo, dietro a te Tanaglia, poi ci verrò io, che ci terrò la punta alla pelle per farlo parlare: esso ci deve additare i passaggi e la porta: se questa è aperta, entra, e, ricordati, colpo alla testa perchè potrebbe essersi coricato col giacco di maglia; se è chiusa, il Cancelliere gliela farà aprire, e allora l'assaliremo in due: Gorano starà intanto qui sopra a guardia per tenere libera l'uscita di questa scala: presto all'opera che il tempo c'incalza. Appena ebbe desso ciò detto, si rialzò, fece accostare il compagno che teneva afferrato Maestro Lucio, il quale continuava a fare strani motti col capo, e mentre l'altro si calava a mezza persona giù pe' gradini della scala della casamatta, ridestò il lucignolo della lanterna, il cui chiarore languiva e stava appunto per consegnarla al primo già disceso, quando Gabriele, che dal luogo ove stava nascosto, aveva perfettamente veduto ed udito ogni cosa, non dubitando che l'intrapresa di quei tre fosse diretta all'assassinio del fratello Gian Giacomo, acciecato dallo sdegno, nè potendosi più oltre frenare, non badando a periglio, tratta rapidamente la spada, scagliossi come folgore addosso a loro gridando a tutta gola: "Traditori, siete morti".
Il primo ch'esso investì fu quello che ratteneva il Cancelliere, e il trapassò sì giusto col ferro, che cadde morto di piombo. Balzò tosto contro il secondo, che, esterrefatto a quell'assalto improvviso, indietreggiò d'un passo, lasciandosi cadere ai piedi la lanterna che si spense: Gabriele nello stesso istante aveva mirato un colpo a quegli che era calato giù colla metà del corpo nel pertugio, ma gli andò fallito a causa dell'abbagliamento che gli produsse alla vista la lanterna nel cadere, nè ebbe campo di misurargli il secondo, perchè l'altro ch'era in piedi al di fuori, gli si gettò alla persona furibondo col pugnale nella sinistra e la squarcina nella destra: Gabriele difendevasi da costui valorosamente, anzi l'andava incalzando, ma l'altro, che s'era tratto fuori dalla casamatta, gli si precipitò di fianco, per il che a lui rimase tempo appena ruotando la spada con una velocità ed una forza incredibile di riparare gli opposti colpi che gli venivano tirati da fianco, e dovette rinculando appoggiarsi di schiena al muro della torre, ove all'incerto lume della luna ribatteva i disperati assalti di que' furiosi che vedevano non esservi per loro altro scampo che nell'ucciderlo.
Nel frattempo Maestro Lucio, che appena s'era sentito sciolto il braccio, senza pur guardare da che lato venisse il soccorso, s'era dato a gambe pel baluardo, andava gridando a tutto potere: "Ai nemici… Al tradimento… Agli assassini"; le voci clamorose di lui, quella di Gabriele, il suono dei ferri che si percotevano, destarono le guardie del Forte, che abituate da qualche mese in quella elevata parte del castello ad una inalterata notturna quiete, non vigilavano col dovuto rigore ai loro posti, nè ponevano le ordinanze ad esatta fazione: in un momento si sparse l'allarme, i tamburi sonarono a stormo, e gli uomini d'armi ed i Capitani accorsero in folla nel cortile. Primo fra questi fu il Pellicione che, discinto e coi capegli scarmigliati, balzato dal letto, discese impugnando la sua lunga spada, ed a capo d'un drappello di guardie munite di fiaccole e d'archibugi salì rapidamente per la scala della torre al baluardo. Vi ascesero ben tosto da diverse parti anche Alvarez Carazon, Sarbelloni e il Bologna con molti altri soldati provveduti di lumi e d'armi. In pochi istanti si videro sbucciare dalla torre le guardie, e venire gli altri uomini accorrendo colle fiaccole, distendendosi in lunga fila per le mura. L'uno dei due che stava combattendo con Gabriele, allorchè udì accorrere uomini, gettò il ferro e corse per scagliarsi dall'alto della muraglia, ma balzato in quel mentre fuori dalla torre il Pellicione, il raggiunse gridando "Per la spada di san Michele, prendi questa" e con un colpo d'impugnatura nelle tempia il fece precipitare al suolo tramortito e grondante di sangue; l'altro, più fiero e vigoroso, benchè circondato da gran numero di uomini d'armi, si difese disperatamente, sino a che vedendosi accerchiato e stretto da ogni parte, ed accorgendosi di non potere più a lungo resistere, si mirò al cuore una pugnalata; ma preso in alto il suo braccio, venne distolto il colpo, e cento mani che gli caddero addosso lo strascinarono a terra, da dove in vano tentò si dibattendo di sollevarsi.
Intanto da tutti gli spaldi s'era accuratamente guardato se vi fossero nemici sotto le mura o nei luoghi e pei monti vicini, s'era osservato se vi stessero scale od insidie presso il Castello, ma non s'era veduto ombra d'uomo: tutto era tranquillo, nè udivasi quasi un movere di foglia. Fatte per ciò ricollocare le guardie ai primi posti, i Capitani s'affrettarono parte intorno al Cancelliere, e parte presso Gabriele onde udire come mai fosse nato quell'avvenimento. Ma Maestro Tanaglia, pallido, tremante e contraffatto, piegando il capo alternativamente ed allargando le braccia, non sapeva altro dire con affannosa voce se non che "Le capitano a me… sono pure un uomo sfortunato!.. tre Milanesi costringermi a forza ad essere complice in un fatto simile!.. a rischio… oh! ma, mi credano, io sono innocente… povero Tanaglia! povero Tanaglia!" Gabriele all'incontro, non agitato ed alterato se non quanto l'ira e la foga del sostenuto combattimento necessariamente il volevano, appoggiato alla propria spada, narrò succintamente tutto l'occorso, dicendo però d'ignorare affatto, come era il vero, chi si fossero quei tre, come penetrati nel Castello, e in qual modo colà venuti. I Capitani rimasero maravigliati e confusi a quella narrazione al pari di lui. Il Pellicione comandò ad alcuni soldati che prendessero sulle spalle quell'ucciso e quello che giaceva tramortito, e giù se li portassero dal baluardo recandoli nella sala della Quistione, che era dove si giudicavano dal Castellano tutti i rei di gravi delitti, ed ordinò che quivi pure si conducesse quel terzo preso vivo e sano. Così fu fatto. In un momento venne sgombrato il baluardo, spente le fiaccole, mandato ordine alle Rocche ed al Porto, ove quel rumore nato nel Forte aveva eccitato un generale movimento, che tutti si rimanessero ai loro posti in quiete, ed ogni cosa venne racquetata come era da prima.