Kitabı oku: «Osservazioni sullo stato attuale dell'Italia e sul suo avvenire»
AL LETTORE
Queste pagine non sarebbero state, me vivente, pubblicate, se avessi minor fiducia nella indulgenza e nella benevolenza de' miei lettori. – Se le mie osservazioni sembrassero ad essi senza fondamento, male esposte, inopportune o superflue, essi non sospetteranno almeno la rettitudine delle mie intenzioni; e questa convinzione basta a confortarmi, ed a farmi incontrare con mente serena e con animo saldo qualunque critica, per acerba che sia.
Per la prima volta mi dirigo al pubblico nella mia lingua nativa, in un momento in cui essa è l'oggetto di sapienti discussioni e di ardui problemi. Su questo punto ancora debbo confidare nell'indulgenza di chi mi legge. Nell'esporre i miei pensieri mi prefissi soltanto di essere facilmente intesa. L'eleganza dello stile non è dote ch'io possegga, e non ho mai preteso di aspirare a questo vanto. – Scrivo perchè parmi di avere qualche cosa da dire, che possa per avventura riescire non inutile al mio paese. – Se tacessi perchè so di non parlare con linguaggio elegante e forbito, arrossirei di questa mia puerile vanità. – Se chi mi legge m'intende senza durar fatica, mi terrò per pienamente soddisfatta. – Se chi mi ha intesa rende giustizia alla rettitudine delle mie intenzioni, e mi perdona la illimitata ed assoluta schiettezza del mio dire, sarò sempre più convinta della bontà e della cortesia de' miei compatriotti.
CAPITOLO PRIMO
SITUAZIONE POLITICA E MATERIALE D'ITALIA
L'Italia non è più una semplice astrazione geografica. – L'Italia esiste come nazione, nel modo istesso nel quale esistono le altre nazioni europee o per dir meglio le più potenti e le più incivilite dell'Europa. – Ristretta intorno ad una sola bandiera, retta a monarchia da un re; posta sotto l'egida di uno statuto costituzionale che il governo non tentò mai di frangere, forte e superbo della propria indipendenza, dopo che l'ultimo soldato straniero ne sgombrò, e voltava le spalle ai confini di lei; difesa dagli italiani, da italiani amministrata, governata e rappresentata; solcata in ogni direzione da numerose ferrovie, corredata di una forte marina, proporzionatamente alla estensione del di lei littorale; l'Italia coi suoi 26 milioni d'abitanti e più, guarda con legittima soddisfazione a tuttociò ch'essa compiva nel brevissimo spazio di sei anni, e si prepara ad eseguire nuovi progressi.
Questi 26 milioni di abitanti sono ripartiti inegualmente sopra una estensione di circa 24,650,719 ettari quadri. Ognuno conosce la forma esterna della nostra penisola. Terminata a settentrione da una vasta catena di altissimi monti, dessa si allarga in ampie pianure, interrotte da amene regioni di colli e di laghi, occupando così tutto lo spazio che corre fra le provincie meridionali della Francia e la Dalmazia. – Questa gran parte di sè, che vien detta l'Italia settentrionale, comprende il Piemonte, la Lombardia, gli Stati Estensi e Parmigiani ed il Veneto e conta ad oltre nove milioni di abitanti.
Queste provincie d'altronde possono dirsi le più ricche dell'intero regno, e non ne sono certamente le meno incivilite. – Il Piemonte che fu sempre reputato assai povero, si è di recente arricchito per la libertà di cui godeva vari anni prima che il rimanente d'Italia dividesse tanta ventura. – Ad arricchirlo concorsero pure altre circostanze; fralle quali va numerata la cessione alla Francia della più povera fra le antiche sue provincie, ed il progresso della grande agricoltura, ossia dell'agricoltura irrigatoria, dei quali progressi vennero a fruire la Lomellina ed il Novarese, altre provincie dell'antico Piemonte. La Lombardia che fu sempre reputata assai ricca, perchè il suolo ne è veramente feracissimo, non ebbe mai una ricchezza stabilita sopra solide basi, mentre tutto il suo reddito provveniva da una fonte sola, la agricoltura. – È bensì vero che questo reddito era assai maggiore che non lo sono negli altri Stati Europei quella parte del pubblico reddito proveniente dalla stessa sorgente. – Cosicchè l'osservatore superficiale che metteva in raffronto il prodotto delle terre Lombarde con quello di qualsifossero altre terre di dimensione eguale e non si informava della condizione degli altri rami di pubblica prosperità, si formava uno stupendo concetto delle ricchezze dei lombardi, e le andava poi sempre magnificando e vantando come prodigiose. – Certo è però che in tutto il corso del dominio austriaco sulle provincie Lombardo-Venete, sebbene la Lombardia non avesse ancora soggiaciuto ai flagelli della criptogama e della malattia dei bachi da seta, e tutte le sue terre fossero in istato di pieno prodotto e valore; sebbene l'Austria non ristasse dall'opprimerne con gravissime e sempre crescenti imposte, il governo austriaco non riescì mai a pareggiare in queste sue provincie il dare coll'avere, e si vide sempre costretto a spendere per mantenerne soggetti più di quanto da noi riceveva.
Accadde poi ciò che naturalmente deve accadere di quelle ricchezze zoppe, cioè squilibrate e dovute ad una unica sorgente. – Questa si intorbidiva, cessava in parte, e l'intero edifizio della pubblica prosperità crollava e rovinava. – Se la Lombardia avesse posseduto in allora un sufficiente numero di stabilimenti industriali e di opificj, le braccia rimaste oziose per la mancanza degli usati lavori agricoli si sarebbero impiegate altrimenti, l'attività popolare si sarebbe rivolta verso quelle vie ad essa aperte, ed i flagelli sopra di noi scatenati non avrebbero avuto i fatali risultati che ebbero. – Nella condizione in cui ci trovavamo, invece nessuna risorsa ne fu presentata. – Tutte le terre situate al settentrione della città di Milano, i colli Euganej, e Brianzej, il Varesotto, l'intere provincie di Bergamo e di Brescia, ecc. ecc., sono come colpite di sterilità; cioè producono i loro soliti frutti, ma questi si corrompono e muojono prima di essere giunti a maturanza. – I possidenti privi con ciò del loro reddito usato, debbono inoltre condonare ai contadini l'affitto delle loro case, e provvederli almeno di grano turco, il che non facendo essi accadrebbe del contadino Lombardo ciò che accade di tratto in tratto del contadino irlandese, cioè di morire d'inedia, e di freddo sulle pubbliche strade o sul limitare delle abbandonate e chiuse loro povere case. – Ciò prevengono i nostri possidenti col prestare ai loro villici il pane ed il tetto; ma così facendo scemano le proprie risorse, per essi v'ha lucro cessante e danno emergente, e la totale loro rovina si fa ogni giorno più verosimile e più prossima.
La bassa Lombardia sebbene assai meno estesa dell'alta, poichè non comprende oltre la Lomellina ed il Novarese di cui abbiamo accennato più su, che il Pavese, il Lodigiano e parte del Cremasco è divenuta oggi pressochè la sola fonte del pubblico reddito in Lombardia. – I terreni irrigatorj le case poste nell'interno della città, ed alcuni pochissimi opifici appartenenti a famiglie plebee che lentamente, e copertamente vi si arricchirono anche prima del 59 e che ora vanno comperando tutto ciò che le nostre illustri e cospicue famiglie più non possono conservare, formando così una nuova aristocrazia, più in armonia colle idee e coi bisogni della moderna società: ecco le fonti da cui oggi scaturisce lo scemato e smunto reddito della Lombardia. L'Italia centrale si compone della Toscana e di una grande parte delle provincie che formavano prima del 59 o del 60 gli Stati romani.
La Toscana conta presso a due milioni di abitanti; è paese gremito di piccole, ma belle città, variato da colli ameni, da corsi d'acque, da sontuose ville, palazzetti, parchi, giardini, e villaggi che nulla presentano di quello squallore, che disadorna troppo sovente quelli del rimanente d'Italia. – Nessun angolo della Toscana possiede un aspetto grandioso e tetro, e le sue campagne fanno tutte presentire la vicinanza di una città. – Per quanto alcune di esse sieno solitarie e silenziose, vi si sente sempre che l'uomo è a pochi passi distante; ed il contadino toscano che vive sobriamente, respira un'aria salubre, lavora moderatamente ed è in frequente contatto cogli abitanti della città, nulla ha di rozzo, e non risveglia in chi lo incontra il doloroso pensiero di una ereditaria ed incurabile miseria. – Le donne o intrecciano i cappelli di paglia, o coltivano e vendono fiori; due mestieri che non affaticano le delicate membra, e non abusano delle forze giovanili, cosicchè le contadine toscane rimangono giovani per tutto il corso della loro gioventù, e per nulla rassomigliano quelle altre a cui incombono i più ardui lavori dei campi, e che bellissime a diciotto anni sembrano spesso decrepite appena passati i venti.
Tanta gentilezza, vaghezza di forme e di costumi, tanta agiatezza di vita, ed una certa coltura che si estende alle infime classi della popolazione, farebbe naturalmente supporre che la Toscana sia paese ricco, e che i suoi abitanti sieno ampiamente dotati di operosità, di intelligenza, di risoluzione e di perseveranza. – Chi formasse una simile conclusione, commetterebbe però un gravissimo errore.
L'agiatezza di tutte le classi popolari, la gentilezza dei loro modi e la durevole bellezza delle loro donne, provvengono da tutt'altra cagione, cioè dalla proporzione ed armonia esistente fra i desideri o diciam pure i bisogni, ed i mezzi di cui dispongono i popolani. – Il toscano non è un popolo ardente ed impetuoso come lo sono gli altri popoli d'Italia. Desso riflette alla condizione sua, sa che certe soddisfazioni non si possono ottenere se non col rinunziare a certe altre, e scieglie fra queste, quelle che più gli convengono, abbandonando con animo rassegnato quelle che sarebbero un ostacolo alle prime. – Tutto il sistema economico della Toscana è fondato sopra tale scelta. – Tra i desiderj o i bisogni più urgenti del popolo Toscano; il principale è il riposo; un riposo relativo s'intende e non assoluto. Il popolano ed il contadino Toscano, lavorano quanto è necessario per guadagnare ogni giorno i pochi bajocchi che bastano al sostentamento di lui e della famiglia perchè tanto l'uno quanto l'altra sanno di ciò accontentarsi. – La scarsità del denaro forma la ricchezza delle infime classi della popolazione, mantenendo bassi i prezzi degli oggetti di prima necessità. – Se un genio benefico versasse improvvisamente qualche milione di lire sulla Toscana, desso non riceverebbe in ringraziamento altro che maledizioni e busse, e produrrebbe in realtà un funesto squilibrio nella esistenza di quelle popolazioni, poichè gli oggetti di prima necessità aumenterebbero subito di prezzo. – Egli è ben vero che la mano d'opera sarebbe rimunerata più largamente, ma la concorrenza degli operai non toscani, si aggiungerebbe presto alle altre complicazioni, ed il toscano non conserverebbe il suo posto se non lavorando più o meglio che per lo passato. Ora il pensiero di lavorare più e meglio ch'esso non lavora oggidì, è pensiero per lui dolorosissimo, nè lo consolerebbe la prospettiva di un guadagno maggiore poichè ha pesato nella mente sua i vantaggi del riposo e della ricchezza ed ha preferito i primi ai secondi. Con tali sentimenti, e con siffatto carattere i progressi verso la civiltà ch'è quanto dire nella industria non possono essere che assai lenti se pure non sono nulli.
Nè vale il dire che la miseria non sentita nè rimpianta non può considerarsi come vera miseria. – Se il contadino ed il popolano toscano non deplorano la propria miseria, ma lo accettano come il prezzo del riposo cui godono, le classi più elevate della toscana società, poste in contatto coi pari loro di altre parti d'Italia e di Europa, sentono amaramente la condizione direi quasi subalterna e parassita a cui le condanna la loro povertà. – Firenze ebbe sempre una corte ed un corpo diplomatico che traeva dietro di sè molte famiglie straniere illustri e doviziose. – Queste esercitavano in Firenze la ospitalità, ed i Fiorentini a cui spettava siffatta parte, la abbandonavano a quelli che avrebbero dovuto ospitare, accettando invece per sè medesimi la parte dell'ospitato senza neppur ricambiare le cortesie dagli stranieri ricevute.
In nessuna provincia d'Italia il bisogno di aprire nuove vie alla prosperità nazionale è così evidente come in Toscana; ed in nessuna la introduzione di nuovi strumenti per la operosità della popolazione sembra a primo aspetto dover incontrare minori difficoltà. Il gran numero delle città ossia dei centri di popolazione, di operosità e di civiltà, un certo grado di coltura e di modi civili distribuiti in tutte le classi sociali, la circostanza che il popolo parla non già un dialetto non intelligibile per chi nacque una trentina di miglia più in su o più in giù, ma la lingua scritta leggermente alterata, l'intelligenza ed il naturale docile e quieto degli abitanti, sono cose che animar dovrebbero gli speculatori e gli spiriti intraprendenti a tentare qualche nuovo stabilimento commerciale ed industriale. – Il felice successo di un tale tentativo non sarebbe però così certo nè così probabile, come può sembrarlo a prima vista. – Il grande, il formidabile ostacolo sta appunto nel carattere della popolazione che nessun male considera come più intollerabile, della fatica e che resiste passivamente a qualunque sforzo si tenti per vincerne l'inerzia; e vi resiste senza rimorsi perchè la sua resistenza non è accompagnata da moti o da espressioni violenti, anzi direi quasi che il toscano considera quella sua ostinata resistenza come una virtù, detta la moderazione nei desiderj, la rassegnazione, ed il sapersi accontentare di poco.
Il governo gran ducale toscano fu sempre il più mite fra i governi dispotici che fecero per tanti secoli strazio dell'Italia. Il sovrano che conosceva personalmente una grandissima parte dei suoi sudditi conosceva e praticava con perfezione quelli artifizj di modi e di espressioni che toccano il cuore dei semplici, e rivestono agli occhi loro l'aspetto della benevolenza e della umiltà. Una passeggiata per le vie della città in abito borghese, e senza seguito apparente; una parola detta familiarmente ad un popolano, un soccorso largito in tempo opportuno ad un bisognoso, erano i mezzi con cui si mascherava agli occhi delle popolazioni il vicerè austriaco, il depositario delle massime imperiali. Una penna toscana gli strappò la maschera e lo presentò al popolo deluso in tutta la laidezza di un ipocrita tiranno, ma il popolo toscano rise della strana figura che gli si mostrava per la prima volta, ritenne nella memoria il mirabile ritratto di quello; che non è, nella lista dei tiranni, carne nè pesce; ma non cavò insegnamento alcuno dallo spettacolo, e forse noverò fra le virtù del sovrano la indulgenza con cui si lasciava dipingere coronato di papaveri e lattughe e permetteva a lui di ridere del dipinto.
Le popolazioni degli antichi stati romani, ammontano a circa due milioni; sono povere come tutte le popolazioni italiane, non posseggono industria di sorta, non si dedicano al commercio; e vivono su di un suolo quasi interamente incolto. Una gran parte dei poderi rurali, ed il terreno che circonda i villaggi, erano sino al 59 od al 60 posseduti dalle manimorte, ossia dalle corporazioni religiose o dalla chiesa. Tali possidenti non avendo nè molti bisogni, nè aspirazioni ambiziose, ma accontentandosi per lo più di mangiar bene e di essere al coperto dalle intemperie delle stagioni, al che provvedeva d'altronde la pietosa generosità dei fedeli, l'agricoltura era da essi trascurata e negletta, ed il viaggiatore che attraversava dieci anni sono le Romagne, le Legazioni, ecc. ecc., vedeva con dolore e con raccapriccio i villaggi situati nelle vicinanze degli innumerevoli conventi, o monasterj, squallidi, in rovina, schifosamente sudici, ed abitati da infelici che sembravano piuttosto cadaveri che viventi. – Piaghe di siffatta natura non si medicano in pochi anni, e tutto, meno le strade, è tuttora da farsi in quelle provincie. —
Il difetto principale dei governi costituzionali, è la debolezza della loro iniziativa. In qualsiasi direzione quei governi intendino di volgere le popolazioni, dessi trovansi ad ogni passo, o possono trovarsi in urto colle individuali volontà; e la prospettiva stessa di tali incontri basta a paralizzare le patriotiche intenzioni dei governi costituzionali anco più energici. – Non dubito che il nostro il quale non pretende ad una eccessiva energia, avrà risentito i frigidi effetti di simili previsioni; ma forse ch'esso incontrerebbe minori ostacoli fralle popolazioni degli antichi stati Romani che non fra quelle del rimanente d'Italia. I già sudditi della chiesa hanno sofferto assai, non solo moralmente, ma fisicamente eziandio e stanno ora aspettando pazientemente il compenso del lungo passato. – Materialmente la sorte loro deve aver peggiorato coll'acquisto della libertà poichè sono ora gravate di forti imposte, e nessuna nuova via fu ad essi aperta per guadagnare il denaro che pagano allo stato. – Eppure nessuno sintomo di malcontento apparve mai in quelle provincie. – I Romagnuoli non hanno speso nè in puerilità nè in frivolezze la esuberante gioja del loro riscatto. – Se ne rallegrarono e se ne rallegrano tuttavia con maschia gravità, come gente che non si crede in diritto di ottenere gratuitamente i due più preziosi doni a cui un popolo possa aspirare, la libertà e la indipendenza ma è preparato invece a pagarli a caro prezzo. – Tali erano nel 60; tali sono oggi e gli Italiani tutti potrebbero senza derogare prendere esempio dal contegno dei già sudditi della Chiesa.
Delle provincie Napoletane e delle loro popolazioni si è parlato assai, e parmi, dietro osservazioni troppo superficiali. – Il brigante feroce superstizioso e stupido, ed il Lazzarone inerte più che mezzo ignudo, e per tre quarti selvaggio, sono i due tipi dietro i quali ne raffiguriamo generalmente i Napoletani, seppure non vi si aggiunge un Principe o un Duca senza denaro, giuocatore, libertino, duellista e poco amante della guerra. – Non nego che tali tipi si incontrino più frequentemente nelle provincie Napoletane che altrove; ma in questi si spiegano ingranditi ed esagerati i difetti di tutti i popoli meridionali, e di quelli in particolar modo che non conobbero mai i vantaggi risultanti dalle virtù a tali difetti opposte. – Ma siffatte esagerazioni dei difetti comuni ai popoli meridionali, non sono da imputarsi al popolo Napoletano in massa. – Se v'ha una provincia d'Italia in cui la libertà e la indipendenza abbiano già prodotto dei risultati evidenti, oltre la costruzione di nuove strade, di nuovi ponti e di nuovi edifizi, quella è la provincia o per dir meglio lo stato Napoletano. Il tipo Lazzarone che viveva di maccheroni e di angurie, e dormiva in un canestro, è quasi interamente scomparso, trasformandosi e confondendosi nei pescatori. – L'immondezza delle pubbliche vie di Napoli degli atrj, dei cortili e persino delle scale dei più sontuosi palazzi scomparve anch'essa vinta dalle cure della edilità municipale, e del concorso che la immensa maggioranza di ogni classe di popolo gli prestava che se tale concorso non avesse esistito, o nulla o a ben poca cosa avrebbero giovato le misure della edilità.
Nel corso dei sei anni passati per Napoli sotto il benefico, ma talora pericoloso regime della libertà, il popolo Napoletano non ha tentato una sola volta di abusarne. – Desso ha accettato le leggi, i regolamenti, le istituzioni, i decreti che gli furono imposti, sottomettendosi al peso ed agli inconvenienti degli uni, e cavando vantaggi da altri con una spontanea docilità, ed una costante prudenza che da lui non si aspettava. – Si è sempre parlato della innata vigliaccheria del Napoletano, ma qui ancora i vecchi motteggi, ed i rancidi pregiudizii ebbero una solenne mentita. – La guerra del 66 fu combattuta dai Napoletani quanto da tutte le altre popolazioni Italiane, e nessun episodio fu narrato sin qui che testimoniasse della timidezza imputata ai Napoletani. – Le nostre sventure durante quella guerra furono la conseguenza della poca esperienza o della incapacità di alcuni capi, non già del difetto di valore della bassa forza; e fra i generali di una certa età e di un certo grado, quello che forse più d'ogni altro diede di sè, del suo sapere del suo valore prove migliori, si fu un generale Napoletano, il Nunziante, Duca di Mignano. – La classe che in Napoli si è mostrata sin qui meno intelligente dei proprii interessi, e meno tenera di quelli del paese, è la così detta aristocrazia. – In Napoli si trovano meglio distinte che altrove le tre classi sociali che compongono oggidì le nazioni civili; la aristocrazia cioè; la borghesia, o classe di mezzo, ed il popolo. – Sotto il dominio dei Borboni, la prima e l'ultima erano le predilette della corte; quella perchè rassomigliava e conseguentemente simpatizzava di più coi membri della reale famiglia; sì gli uni che gli altri ignoravano presso che tutto ciò che avrebbero dovuto conoscere; consideravano questa loro ignoranza come un privilegio della elevata loro condizione, e guardavano con ischerno e compassione agli sforzi che le classi inferiori facevano per acquistare il sapere ossia come quelli dicevano per guadagnarsi il pane. – La famiglia reale e la aristocrazia avevano comuni gli interessi, le speranze, i desiderii, i timori. – Il godimento materiale della vita, l'incremento delle loro ricchezze; la soddisfazione della puerile loro vanità componevano lo scopo della loro esistenza. – La nobiltà Napoletana stava attaccata alla stirpe Borbonica, come a quella inesausta sorgente di godimenti, e di onori che ne accarezzavano la vanità; mentre il sovrano e la famiglia di lui si specchiavano nella nobiltà, come in quella classe di persone che si divertiva dei divertimenti loro, nulla desiderava di ciò ch'essi temevano, e dalla cui bocca non esciva parola che contrastasse coi loro pensieri.
La classe infima della plebe Napoletana occupava il secondo posto nelle reali affezioni. – Romorosa nelle sue dimostrazioni, ma inocua nelle sue azioni, la plebe dei così detti Lazzari fanatica come presso che tutte le ignoranti moltitudini, era assolutamente in balìa del clero e dei frati che la volgevano e rivolgevano a loro capriccio. – Il re sapeva qual uso facesse il clero di tanto dominio, e si maneggiava in modo da tenerselo amico. – I Borboni d'altronde superstiziosi anch'essi non meno della plebe, erano pure un docile strumento nelle mani del clero, la cui ignoranza presso che eguale a quella dei principi e dei lazzaroni, gli permetteva di prestar qualche fede ad alcune delle cose ch'esso insegnava come dommi religiosi. – Tutte queste ignoranze erano fra di esse alleate, e dirette ad un medesimo fine, il perpetuarsi della società del medio evo, e l'impedire ogni progresso sì intellettuale, come morale o materiale. – Perciò ottenere il clero aveva bisogno dell'appoggio reale; ed il re non poteva sostenersi senza quello del clero. – Consapevoli l'uno e l'altro di tale reciproca dipendenza, non ad altro tendevano che a trarne vantaggio nel miglior modo possibile, per difendersi da quel formidabile progresso che agli occhi loro rappresentava il più orrendo cataclisma, la distruzione dell'edifizio sociale, lo scatenamento di tutte le fiere del creato sotto nome di filosofia, di diritto, di civiltà, di libertà, di indipendenza, di eguaglianza, di tolleranza, di filantropia, ecc. ecc; e per catastrofe finale, una guerra accanita contro il sacerdozio, cioè contro Dio e la religione, un macello di frati e di monache, il saccheggio degli altari, e le porte dell'inferno spalancate per inghiottire la moltitudine delle anime feroci ed empie i cui corpi più non potevano contenerle. – Per coloro che di buona fede vedono il moderno incivilimento sotto tale aspetto non è da meravigliarsi se mettono tutto in opera per impedirne il corso. – E non pochi fra i nemici della moderna civiltà, sono di buona fede, o per lo meno credono ciò che venne loro insegnato, e trovando in tale credenza il loro vantaggio non si sforzano di scoprire se riposi quella sul vero o sul falso.
Pei Borboni, per la nobiltà e pel clero napoletano, il progresso era personificato nel ceto di mezzo ossia nella borghesia. – Una certa somma di coltura intellettuale è necessaria per formare degli avvocati, dei medici, degli ingegneri, e persino dei militari; e sebbene i tre corpi che governavano in Napoli avessero volontieri fatto di meno di tutte quelle dotte professioni, e si fossero contentati di non avere sotto di essi altri che lazzaroni, pure conoscendo che la totale soppressione del ceto medico e della sua coltura intellettuale era cosa impossibile, dessi si limitarono sebbene con rammarico, a combattere questi rappresentanti del sociale progresso, perseguitandoli, ponendo ogni sorta di ostacoli sulla loro strada, mantenendoli per quanto il potevano nella condizione stessa in cui si erano trovati gli avvocati, i medici, gli ingegneri, ecc. ecc. dei secoli passati, ed aizzando contro di essi i pregiudizii e le passioni indomite della plebe.
Sintanto che le cose rimanevano in quello stato, il Re si teneva per certo di trovare, quando ne abbisognasse, il popolo armato in sua difesa e nemico dei suoi nemici; e la nobiltà siccome il clero avendo gli interessi comuni colla corte, fidavano anch'essi nelle armi che avrebbero consegnate ai lazzari in un momento di crisi rivoluzionaria e si confortavano pensando che il popolano così affezionato al suo Re e così devoto al clero avrebbe resistito a tutte le seduzioni del partito liberale.
Già sul finire dello scorso secolo, i lazzari si erano mostrati quali li volevano il Re, la nobiltà ed il clero, e se nel Maggio del 48 il sangue cittadino non fu sparso in tanta copia, quanto nei giorni di Championnet, non fu quella parsimonia da attribuirsi alla clemenza del popolo, ma bensì alla debolezza della resistenza che ad esso opposero i liberali, che in picciol numero erano rimasti in Napoli, mentre pressochè tutti correvano verso il Po ove speravano combattere e vincere l'austriaco.
Intanto sì il Re che la nobiltà ed il clero si confortavano colle dimostrazioni popolari che consideravano come sintomi importantissimi dello stato della pubblica opinione. – Quando il Re compariva a Chiaja o a S. Lucia era salutato con acclamazioni frenetiche dei lazzari-pescatori, ed esso rientrava nel suo palazzo convinto che il suo popolo lo adorava, e sicuro di trovar sempre una valida difesa contro il liberalismo ed i liberali, in quei semplici, ma fedelissimi petti. – La nobiltà divideva le illusioni del sovrano, e ben sapendo, che la privilegiata di lei condizione si manterrebbe quanto il potere assoluto del principe, dessa si stimava solidamente stabilita e secura. – Il clero anch'esso vedeva sempre lo stesso concorso di popolo nella chiesa di S. Gennaro il giorno del famoso miracolo; udiva le stesse preghiere, le stesse promesse, improperi ed acclamazioni secondo che il sangue era più o meno pronto a bollire, vedeva la stessa moltitudine seguirlo nelle processioni, la stessa calca nelle chiese, ai confessionali, dinanzi agli altari; vendeva lo stesso numero di reliquie, di messe, benedizioni, indulgenze, candele o acqua benedetta, ecc. ecc., e si confortava pensando che la fede non era scemata malgrado i tentativi e gli sforzi dei liberali, e dicendosi che molti secoli passerebbero ancora prima che si riescisse a trasformare il lazzaro napoletano, in un cittadino civile, istruito e spregiudicato.
Erravamo tutti. – Nè il re, nè la nobiltà nè il clero distinguevano ciò che vi era di semplicemente drammatico in quelle dimostrazioni popolari, da ciò che vi era di veramente sentito. – Il popolo napoletano era favorevolmente inclinato al suo re perchè ne riceveva qualche parola o qualche tratto famigliare, e perchè il despotismo borbonico non pesava direttamente sopra di lui. – Era disposto verso la nobiltà ad un dipresso come verso il suo re ed il clero gli appariva come una categoria di esseri qualche poco soprannaturali, capaci di operare alcuni miracoli, ed in relazioni segrete ma dirette cogli abitanti del paradiso.
Sapeva altresì che le sue acclamazioni, e le sue romorose dimostrazioni riescivano assai gradite a quei tre ordini di persone, la corte cioè, la nobiltà ed il clero, che le rimuneravano con qualche largizione o con altri favori, e siccome il porsi in iscena facendo dimostrazioni, acclamando, urlando e schiamazzando è cosa che nulla costa al popolo napoletano, così tanto la corte quanto il clero e la nobiltà erano sempre salutati dalla plebe con eguale entusiasmo.
Ma le società segrete e gli emissarii di esse non trascuravano allora la educazione politica del lazzarone. – La classe media della popolazione apparteneva quasi per intiero a quelle società segrete, ed andava ispirando al popolo con cui mantenevasi in relazioni strette e famigliari, l'odio dello straniero e dei suoi strumenti, l'amore della libertà e della gloria, e l'entusiasmo per quel Garibaldi il cui valore emulava la potenza del clero nel far miracoli, il che eccitava nel cuore dei lazzaroni un ardente desiderio di vedere e di acclamare quel prodigioso eroe, ed un certo raccapriccio al solo pensiero che il Borbone imponesse loro di combatterlo.
I progressi delle istruzioni e delle intimazioni date dal ceto medio al basso popolo, apparivano nella agitazione che subentrava alla naturale indolenza del popolo napoletano. – Il governo borbonico confiscava i giornali che trattavano delle cose d'Italia, e credeva con ciò di mantenere il popolo in quella assoluta ignoranza di cui si era fatto uno scudo; ma gli emissarii delle segrete associazioni spargevano a voce le notizie meglio adatte all'umore ed al carattere di quelle plebi; raccontavano i combattimenti e le vittorie conseguite sull'austriaco, la confusione e lo spavento del nemico, le prodezze del re Vittorio e di Garibaldi che apparivano come altrettanti Orlandi, presentavano alla immaginazione di quel popolo, un quadro così seducente che al confronto di questo impallidiva e si oscurava lo splendore delle cerimonie religiose, i miracoli di S. Gennaro ed altri, ed il magico sfarzo delle feste di corte.