Kitabı oku: «La plebe, parte I», sayfa 29
Gian-Luigi, che appariva fra i giovani più eleganti della città, andava a prendere lezioni d'equitazione dal direttore di quella compagnia, e in tal modo aveva stretto conoscenza con tutti gli artisti ed assisteva alle prove dei loro spettacoli. Colla Leggera, egli, fosse calcolo, o indifferenza, aveva tenuto quel solo contegno che poteva servirgli per farsene notare: parlatole freddamente due o tre volte, non prestava a lei un'attenzione di maggior importanza che a qualunque altra. Questo modo di trattare in un giovane che era così potentemente leggiadro, che appariva ricco, che aveva dato assai prove di non esser timido, tornò per Zoe un mistero cui ebbe curiosità di penetrare. Poi la sua vanità fu punta da questa freddezza che pareva disdegno. Cominciò a lanciare verso di lui alcuni di quegli strali che tiene la civetteria nel suo turcasso, a cui Gian-Luigi oppose una corazza adamantina di noncuranza. Il vero è che si studiavano ambedue a vicenda, e l'uno voleva coglier l'altro nella rete.
Un giorno Gian-Luigi era presente alle prove e Zoe, forse desiderosa di eccitare in lui la meraviglia, volle tentare l'addestramento d'un cavallo indomato, cui temevano di cavalcare i più forti ed audaci degli uomini della compagnia. Era una magnifica bestia piena di fuoco, colle gambe asciutte, il collo arcato, la groppa incavata. Strepitava, scalpitava, s'inalberava, tenuto a mano pel morso dal mozzo di stalla. Zoe in un salto leggiero gli fu sopra e raccolse nel suo pugno piccolo ma nervoso le briglie, e la lotta fra il quadrupede e l'amazzone cominciò di botto. Ogni fatta scambietti, e corvette, e salti, e svolti, e sparar di groppa fece l'animale imbizzarrito, fremente, bianco di spuma la bocca, rosse come di fuoco le froge; ella stette salda, tranquilla, col suo sorriso quasi disdegnoso. Sì, Gian-Luigi l'ammirava: e chi non l'avrebbe ammirata? Tanta forza unita a tanta grazia, tanto coraggio in tanta leggiadria! Ad un tratto il cavallo, stanco, indispettito di quella pugna in cui la debolezza aiutata dall'intelligenza e dall'arte prepoteva sopra la sua forza, volle finirla ad ogni modo anche con suo danno. Prese la corsa e si precipitò verso uno dei pilastri che sostenevano le gallerie dell'anfiteatro, per isbattervi contro la sua nemica e se stesso. Fu un grido solo di spavento dalla bocca di tutti gli spettatori che miravano con vivissimo interesse quella contesa e che videro impossibile all'amazzone il frenare la bestia furibonda. Gli uomini si slanciarono tutti a quella parte, ma col timore pur troppo di non raccogliere più che un corpo sfracellato. Fra tutti giunse primo Gian-Luigi che in un salto fu ad abbrancare alla vita la fanciulla, la trasse violentemente di sella e potè recarsela via fra le braccia nell'istante appunto in cui il cavallo precipitava contro il pilastro.
Zoe era diventata pallida, il suo cuore le parve cessar di battere un istante, gli occhi le si appannarono e si chiusero. Ma non fu che un fugacissimo minuto. Tosto tosto si trovò pienamente padrona di sè e provò una specie di dolcezza che le riusciva affatto nuova, nel sentirsi appoggiata e sostenuta al petto potente di quel bel giovane, la cui faccia così splendidamente bella era tanto vicina alla sua che l'alito delle loro bocche si confondeva.
– Ah! Lei mi ha salva la vita: diss'ella al medichino, a voce bassa, come se si vergognasse di confessare la sua obbligazione, quasi che una sua sconfitta.
Poscia si sciolse dalle braccia di lui; si fermò sopra i suoi piedini, si riscosse come fa chi vuol torsi dalle spalle un peso che lo infastidisca, guardò fissamente in faccia i suoi compagni che le si serravano intorno ancora spaventati, e disse loro col suo sorriso impertinente:
– Ebbene? Gli è nulla… E quel povero cavallo, che male si è fatto?
Nemmanco il cavallo non s'era fatto gran male. Ei si levò ancora sbalordito, fremente in tutte le membra. Zoe gli passò sul collo la sua mano piccola ed asciutta.
– Che matto cattivo! Vorresti accopparmi anche a costo di rovinarti te… E sarebbe peccato, perchè sei una troppo bella bestia… Ma sta che fra noi la non è finita, e un altro giorno ti vorrò dir io un'ultima parola.
Stette seguendo attentamente collo sguardo l'animale che veniva ricondotto a lento passo nella scuderia, e parve che questo soltanto la occupasse. Poi ad un tratto si rivolse a Gian-Luigi e guardandolo fissamente entro gli occhi gli disse con una certa bruschezza:
– La vorrebbe farmi anche il favore di accompagnarmi a casa?
Il medichino si inchinò senza pronunziar parola.
Giunti nella sontuosa dimora della saltatrice, Gian-Luigi stette dieci minuti in compagnia di lei con tutto il riserbo che avrebbe potuto avere per una verginella, mentr'essa lo guardava sempre fiso con curiosa insistenza che poteva anche sembrare contrarietà. Il giovane si alzò, strinse la mano leggermente alla donna che stava sdraiata sopra la sua poltrona, e prese commiato dicendo:
– Avrete bisogno di riposo e vi lascio.
La Leggera non rispose a tutta prima, abbandonò freddamente la sua mano a quella fredda stretta, e con un solo cenno di capo rispose al saluto del giovane. Ma quando questi fu sulla soglia dell'uscio, mossa da un subito avviso, ella sorse di scatto, e fu in un salto innanzi a lui a contendergli il passo.
– Che strano uomo siete voi? Diss'ella piantando in faccia a Gian-Luigi i suoi occhi smaglianti, color del mare. Voi non cercate alcuna ricompensa al servigio che mi avete reso?
Il medichino fece un misterioso sorriso.
– Che ricompensa potrei domandare? Temerei essere indiscreto, o che a me stesso avesse a costar troppo caro quella che desidererei ottenere.
Zoe lo prese per mano e lo ricondusse a seder presso di sè sopra un sofà.
– Perchè non mi avete fatto mai la corte, voi? Diss'ella sfacciatamente, prendendo una delle sue mosse le più seduttive e procaci.
Il medichino rispose brutalmente:
– Perchè non sono abbastanza ricco per comprarvi, e mi accorsi tosto che voi non avete nè cuore, nè sensi da potere essere sedotta dall'amore.
La Leggera fece un miracolo, arrossì.
– Voi avete ben trista opinione di me… E s'io ci tenessi a provarvi che avete torto?
– Non domando di meglio.
Alcuni mesi dopo questi due, da amanti – se si può dar loro tal nome per la relazione che avevano insieme – erano diventati confidenti e direi quasi complici nella prosecuzione d'uno scopo comune, che era una guerra nascosta, ma accanita e implacabile contro i favoriti dell'attuale assetto sociale. Si erano intesi compiutamente, le loro anime, i loro odii, le loro invidie, i rancori, le avidità s'erano affatto compenetrati e camminavano di conserva assecondandosi.
Zoe, dietro le splendidissime offerte d'un alto personaggio che teneva un posto dei primi nella gerarchia dei potenti della terra, aveva finito per abbandonare la sua carriera artistica, a ciò consigliata eziandio da Gian-Luigi; e nella sua dimora, la più sontuosa che si potesse immaginare, accoglieva tutta la gioventù mascolina elegante che avesse denari da gettare nelle matte spese, negli sfarzosi regali, nelle sciocche futilità del lusso il più sfrenato e nel giuoco, a cui sorgeva non mai abbandonato l'altare nelle sale della mantenuta.
In queste sale entriamo dunque sulle orme di Gian-Luigi, il quale dopo il teatro vi si recò insieme con quei due che aveva scelto a suoi padrini pel duello intimatogli dal conte San-Luca.
CAPITOLO XXVI
Le sale della Leggera erano piene di luce e di uomini fedeli di tutto punto ai dettami del figurino. Ad un tavoliere di Faraone sedeva per tenerci banco Gian-Luigi. A mezzo d'un taglio, i due ufficiali ch'egli aveva condotto seco, i quali s'erano accontati in un salotto vicino col marchesino di Baldissero e col conte Langosco, vennero a dirgli in un'orecchia:
– Tutto è inteso.
– Va bene: disse con tutta indifferenza il medichino. Dopo il giuoco i ragguagli.
E continuò con tutta scioltezza e col più allegro umore del mondo a trar giù le carte, le quali, come se obbedissero alla volontà da lui manifestata in teatro alla Zoe, quella sera gli erano avverse inesorabilmente e lo facevano perdere a rotta di collo.
Ma nello stesso tempo che il giovane appariva in una vena di tanta disgrazia, mai non s'era mostrato tuttavia in tanta vivacità ed allegria di spirito; di guisa che i giuocatori che si stringevano al tavoliere da lui tenuto, tra per la contentezza del guadagnare, tra per la felicità e il brio dei motti che schioppettivano sulle labbra del medichino, avvicendavano le parole del giuoco colle più franche risate in una conversazione animatissima e burlona.
Il conte di Staffarda era venuto ancor egli ad aggiungersi a quel cerchio e guadagnava ancor egli, anzi guadagnava più ancora degli altri, quantunque avvezzo ordinariamente a perdere di molto: le carte sotto le mani di Gian-Luigi parevano metterci una certa galante insistenza a farlo vincere. Anche il conte rideva delle uscite e dei motti del medichino, e, fra se, ammirava più che gli altri quella libertà dello spirito, quell'agiata noncuranza, egli che sapeva il giuocatore alla vigilia d'un giuochetto non affatto scevro di pericoli.
Dopo un'ora Gian-Luigi depose le carte e si alzò senza pure una moneta più innanzi a sè nè in tasca.
– Basta: diss'egli. Lascio altrui il vantaggio del banco.
Aveva pagato tutte le vincite a contanti, eccetto il conte Langosco al quale rimaneva ancora debitore d'una cinquantina di marenghi su parola.
– Signor conte: gli disse, passandogli vicino nell'allontanarsi dal tavoliere: le rincrescerebbe venir meco per cinque minuti di là?
Il marito di Candida nulla rispose, ma si alzò e si mostrò pronto a seguire il giovane, il quale, entrando innanzi, andò sino ad una galleria che guardava verso il cortile, nella quale, chiusa a cristalli, erano tenuti come in una stufa arbusti e fiori vagamente disposti. Lampade frammesse alle frondi e pendenti dalla volta entro cestellini vestiti di piante erratiche fiorite, illuminavano vagamente quel luogo in cui appena era se giungeva il mormorio delle voci di tanta gente raccolta nei due salotti.
Gian-Luigi incominciò senz'altro:
– Il debito che ho verso di lei, sono in obbligo di pagarglielo domattina…
Il conte fece un atto, come per dire: – Di che cosa mi venite a discorrere ora?
– E lo farò senza fallo io stesso, se il conte San-Luca me ne lascia la possibilità: ma siccome è tra le cose possibili – quantunque però io non la creda probabile – che il signor conte mi mandi all'altro mondo con due dita di lama o una pillola di piombo in corpo, perchè io non so ancora se ci batteremo alla spada o alla pistola…
– Alla pistola: disse il conte Langosco.
– Va benissimo. Siccome, dico, in tal caso non potrei adempire io stesso a quel mio dovere, non voglio per ultimo saluto lasciar lei defraudandola di ciò che le spetta.
– Eh via! Di queste cose non occorre parlare: disse superbamente il conte di Staffarda, accennando volersi partir di là per metter fine a quel colloquio.
– Signor sì, che gli occorre: soggiunse con voce ferma il medichino, senza punto muoversi.
Trasse di tasca un portafogli ed appoggiando ad una mensola carica di vasi di fiori un fogliolino di carta vi scrisse su poche parole, in cui si dichiarava debitore al conte della somma testè perduta al giuoco, quindi porgendo al marito di Candida quella carta ripiegata, riprese a dire:
– Se io soccombo, si troverà fra le mie carte un testamento. L'esecutore testamentario, che in esso ho nominato, è un buon sacerdote, un parroco di campagna: a lui abbia la compiacenza, signor conte, di recare questo foglio, ed egli, che conosce la mia scrittura, si affretterà a soddisfare per me il mio debito.
Il conte s'inchinò in segno d'acquiescenza e di ringraziamento. Egli non poteva a meno che riconoscere la delicatezza del tratto ed encomiarla fra sè, come aveva sin'allora ammirate la libertà e la vivacità di spirito di quel giovane, vero indizio di un coraggio reale, non millantatore, nè artefatto.
– Del resto, continuò Gian-Luigi, non occorrerà nulla di tutto ciò e sarò io a portarle domattina, prima di mezzogiorno, la somma dovuta a casa sua.
– Cospetto! Disse sorridendo il conte. Lei è molto sicuro del fatto suo.
– Sicurissimo. Il conte San-Luca mi sbaglierà, ed io lo ferirò dove mi parrà e piacerà.
– San-Luca tira bene.
Gian-Luigi crollò le spalle e fece un sogghigno.
– Al tiro del Valentino, con una pistola à double détente può darsi; ma in aperta campagna, in faccia ad un uomo che lo guardi entro gli occhi, così…
E fulminò addosso al conte uno sguardo così imponente ed imperioso che anche quest'esso lo sentì come una minaccia atta a turbare l'animo d'un uomo anche non pauroso.
– Le dico io, continuava il medichino, che non avrà più tutta quella fermezza della mano che si richiede per mandare all'altro mondo una creatura a lui simile e – mi permetta quest'orgoglio – uguale.
– E Lei? Disse Langosco. Crede che non farà alcun effetto anche a Lei il trovarsi dinanzi per bersaglio un uomo?
– No, signor conte. Anzi tutto io sono convinto d'aver la ragione dalla mia, e che il signor di San-Luca fu meco villano e screanzato. Ho quindi per me lo sdegno dell'orgoglio offeso e la coscienza del mio buon diritto. Inoltre, avessi anche torto, le confesso che non credo sia nato ancora l'uomo che possa incutermi un timore od una soggezione.
Gian-Luigi diceva codesto con tanta semplicità e con una sicurezza così spoglia di jattanza che il conte avvertì quella essere la pura e semplice verità.
– Quanto poi alla sicurezza del mio polso…
Adocchiò sopra il tavolino che era in mezzo alla galleria una di quelle piccole pistole a solo cappellozzo, che si dicono di salon, colla quale la Leggera si divertiva a tenersi la mano e l'occhio esercitati al tiro, e fu a prenderla.
– To', continuò Gian-Luigi, ecco che posso dargliene tosto una prova.
Caricò la pistola d'uno di quei cappellozzi colla pallina di piombo, ond'era piena una scatoletta che trovavasi su quel medesimo tavolino, poscia fattosi ad un capo della galleria guardò verso l'estremità opposta qual oggetto potesse prendere per punto di mira.
– Guardi: riprese additando colla pistola un gruppo di fiori in fondo alla galleria; guardi quella ciocca di azalee; la vorrebbe farmi il favore d'indicarmi quale di quei fiori ho da abbattere col mio colpo?
Il conte, miope com'esso era, pose a cavalcioni sul naso il suo occhialetto a molla e guardò attentamente quel ramoscello fiorito.
– Questo qui: diss'egli poi additando uno di quei fiori che pendeva frammezzo a due fogliuzze.
– Bene!
Gian-Luigi chinò la pistola, e parve non aver nemmanco il tempo di mirare, si tosto sparò.
Il conte s'accostò frettolosamente al cespuglio. Il fiore da lui additato era sparito, senza che nè l'una nè l'altra delle due frondi in mezzo a cui si trovava fosse menomamente scalfitta.
– Bel colpo! Diss'egli approvando anche con un cenno del capo. Bel colpo davvero!
Il medichino gettò là quell'arma da giocattolo e si riavvicinò al conte.
– Credo poter dare per sicuro di colpire nove volte su dieci.
– Cospetto! Esclamò il conte guardando coll'occhialetto la faccia tranquilla di Gian-Luigi. Ed a quel povero San-Luca, gli vorrà Ella fare molto di male?
Gian-Luigi mosse le labbra ad una smorfia quasi disdegnosa:
– Peuh! diss'egli, il meno possibile. Lo colpirò nell'avambraccio. Io non avrei voluto fargliene affatto di male; ed è perciò che dapprima fui così rimesso con Lei che Ella signor conte me ne avrà stimato fin troppo pacifico. Ma poichè, dal contegno che Ella ha tenuto con me, ho dovuto accorgermi che il signor San-Luca aveva le fiere intenzioni d'un gradasso ho deciso di lasciargliene un ricordo che lo ammonisca per l'avvenire ad essere meno insolente prima e meno tenace di poi nella sua prepotenza…
In questa un'ondata di voci allegre ed un rumore di stoviglie e posate giunse sino alla galleria dove stavano i due nostri interlocutori.
Il medichino s'interruppe:
– Ve' che gli altri sono già a cena; andiamoci anche noi senza altro indugio.
Passò il suo braccio sotto quello del conte con una certa famigliarità da compagnone, che in quel punto non fu trovata sconveniente dall'orgoglioso aristocratico, non disposto a tollerarla da chicchessia, e s'avviarono di conserva verso la stanza da mangiare.
Il programma che Gian-Luigi s'era prefisso fu eseguito appuntino in ogni sua parte. Il domattina il povero San-Luca riceveva una palla nel braccio, che lo condannava a venti giorni di malattia; il medichino diventava più famigliare di prima con i due padrini del suo avversario, il conte Langosco e il marchesino di Baldissero; un mese più tardi si faceva una specie di festino di riconciliazione cui pagava il conte San-Luca, il quale così la pagò in tutte le maniere. Nessuno più dei nobili frequentatori del salotto e del palchetto della contessa, ebbe la menoma velleità di mostrar disprezzo o fare pure una sembianza d'oltraggio al dottore Luigi Quercia.
E Candida? Quella sera medesima in cui aveva luogo la contesa fra San-Luca e il suo amante, ella si struggeva dal desiderio di ritrarsi presto a casa, affine di leggere quel biglietto che Gian-Luigi le aveva detto essere nella scatola di dolci. Lo spettacolo, la compagnia e la conversazione dei visitatori, il rumore ed il caldo della sala, tutto la impazientava maledettamente. Avrebbe voluto andarsene tosto: ma non l'osava. Dopo ciò ch'era intravvenuto nel suo palchetto, che cosa avrebbe detto il mondo del suo sollecito ritirarsi? Quel complesso di persone indifferenti e maligne, all'autorità delle cui sentenze tutti vanno soggetti, agli strali delle cui ciarle tutti sono bersaglio, quel mostro indefinibile di mille lingue che chiamasi il mondo, che tutto vuol sapere, che tutto vuole indovinare, che si piace sciorinare ad oggetto di maldicenza i più riposti segreti; che all'uopo anche li inventa per generosamente regalare a questi ed a quelli le morali magagne ond'egli si diletta; il mondo avrebbe fatto le più maliziose induzioni; ed essa che aveva il coraggio di fronteggiare i giusti richiami e i legittimi rimproveri che potrebbe farle il marito, come ne avrebbe affrontata anche la collera, se il conte fosse stato uomo da dare in escandescenze, ella si arrestava intimorita ed esitava innanzi al susurrio delle ciarle mondane.
Finalmente, come a Dio piacque, giunse l'ora in cui ella poteva levarsi dal suo palchetto senza fare stupire i cannocchiali degli abbuonati e destare le non caritatevoli induzioni delle signore. Rispose con nervosa rapidità alle strette di mano, ai saluti, ai sorrisi dei suoi corteggiatori; avvolta nel suo mantelletto impellicciato, fece di volo quel po' di scale, si precipitò nella carrozza di cui un lacchè le teneva aperto lo sportello sotto l'atrio, e rincantucciatasi in un angolo, trovò che i cavalli camminavano troppo lentamente, quantunque col loro trotto serrato in meno di cinque minuti la conducessero sotto l'ampio portone del palazzo di Staffarda.
Salì correndo sino al piano superiore, s'affrettò a recarsi nel suo camerino da acconciarsi. Pose sopra la sua toilette la scatola di dolci che s'era portata seco, e gettò uno sguardo nello specchio, dove le apparve la sua figura commossa colle sopracciglia corrugate. Gettò via il mantelluzzo che teneva ancora sulle spalle e si portò ambo le mani a quella bella fronte che le ardeva e doleva.
La sua cameriera le si avvicinò in quella, e Candida levando il capo ne vide l'immagine riflessa entro lo specchio. Si rivolse di scatto e disse con accento corrucciato:
– Che volete? Che fate costì?
– Sono qui per ispogliarla…
– No… non voglio nessuno… Lasciatemi… farò da me… voglio esser sola.
La cameriera uscì di stanza, ma ch'ella si astenesse dall'ascoltare alla porta non oserei affermarlo, imperocchè la ci tenesse molto a soddisfare i desiderii manifestatile da Gian-Luigi.
Candida, quando la cameriera fu uscita, s'affrettò ad afferrare la scatola de' confetti e la rovesciò sopra il marmo della toilette, poi con mano agitata frugò fra i dolci fin che trovò ed ebbe preso il biglietto di Gian-Luigi. Lo aprì sollecita e lo lesse palpitando alla luce delle candele che la fante aveva accese innanzi allo specchio. Il primo sentimento in lei fu di sdegno.
– Gli è così che osa parlare a me? Alla contessa di Staffarda? Così potrebbe adoperare con quella sua vile creatura tolta dal trivio, ma con me? O Dio! Che ho mai fatto amando quell'uomo! Mi dice, come una minaccia da spaventarmi, che si allontanerà per sempre da me… E s'allontani!.. Sarà finita una volta! Avrò cessato di soffrire… e di arrossire per lui… Si allontani…
Ma questa parola – non ostante lo stato d'eccitazione in cui la si trovava – la seconda volta che essa la pronunciò le parve pungerla come una spina al cuore. Lasciò cadere sul piano della toilette la letterina che teneva ancora fra le dita e si diede a passeggiare concitatamente per lo stanzino tutto specchi e intagli di legno dorato. La sua immagine riflessa alle due pareti dagli specchi, a quella poca luce delle candele, apparivale come due spettri che l'accompagnassero nelle sue mosse agitate. Si stracciò i guanti che aveva ancora alle mani e li gettò per terra; si tolse rabbiosamente di capo i fiori che l'adornavano e li buttò via. Si sentiva addosso come un malessere materiale di cui le pareva avrebbe dovuto trovar modo a liberarsi. Andò a sedersi alla toilette, appoggiò il bel braccio denudato al freddo marmo di essa e guardò lungamente nello specchio la sua faccia pallida e conturbata, la bella forma del suo busto scollacciato, l'eleganza delle sue vesti da festa che stranamente contrastavano col rodimento che aveva entro sè, colla commozione dolorosa delle sue sembianze.
– S'egli almeno mi amasse! Esclamò ella: ma no: sento ne' suoi modi, anche ne' suoi detti più caldi che manca l'amore. Oh essere pareggiata a quelle ignobili donne!.. Ah! se m'amasse davvero, come tutto il resto gli perdonerei!..
Riprese in mano la lettera e la lesse di nuovo. Un subito rimutamento si fece in essa.
– Egli ha ragione, proruppe. Non ho io ascoltato più la mia boria che l'amore? Non ho ceduto al timore del mondo?.. Egli si afferma degno di me… Oh! se potesse persuadermene…
Il domani a mattina la contessa, vestita modestamente di scuro con una fitta veletta sulla faccia, recavasi sollecita in un'umile casa posta in una viuzza remota della parte più antica della città, e per una scaletta deserta saliva ad un primo piano dove intromettevasi per un uscio socchiuso, cui serrava sollecitamente dietro di sè.
In quella camera, ove così di celato recavasi la contessa di Staffarda, stava ad attenderla Gian-Luigi, istrutto già quella stessa mattina dalla cameriera dell'agitazione e delle emozioni che, la sera innanzi, il suo biglietto aveva prodotte nella misera donna.
Il medichino era trascuratamente sdraiato sopra una poltrona presso il fuoco che ardeva nel camino. Al vedere entrare la contessa si alzò, ma non le mosse incontro, non le tese la mano, non fece atto alcuno di gioia, non le diede altrimenti la benvenuta che inchinandosi con un cerimonioso saluto, mentre il suo occhio la squadrava freddamente con una fierezza accusatrice.
Candida, quella notte, che aveva dolorosamente vegliato, quella mattina nel decidersi a venire colà, lungo la strada, che in fretta percorse combattuta l'anima fra la speranza ch'egli pur venisse al convegno e fra il timore che secondo quanto aveva scritto non ci si recasse; Candida aveva pensato mille modi, e tutti diversi, di contegno da tenersi con esso lui; ora un orgoglioso disdegno, ora una benignità da superiore, ora una indifferenza da umiliarlo, ora una dignità di generoso condono; ma quello che tenne in realtà fu il contegno a cui non aveva pensato e che era il più naturale: fu quello d'un'amante appassionata che teme, l'uomo da essa amato, voglia rompere il nodo che li stringe.
Da parte dell'uomo fu l'orgoglio, la superiorità, la freddezza: ella, appena entrata, appena visto l'aspetto severamente contegnoso di lui, dimenticato ogni altro suo proponimento, erasi gettata al collo del suo diletto e diceva in preda al suo commovimento, più forte della volontà d'ogni preconcetto disegno:
– Tu sei pur venuto, Luigi, e siine benedetto… Se qui non ti avessi trovato, sarei corsa a casa tua… Avrei insistito in ogni modo fin che avessi potuto giungere presso di te… E se tu mi avessi inesorabilmente respinta… Dio mi perdoni!.. Non so qual peggior pazzia non avrei fatta!
– E il mondo? Disse Gian-Luigi con un crudele sogghigno.
Candida scosse il capo ed arrossì come persona cui si rinfaccia un suo fallo.
– Il mondo? Riprese ella, quasi con isdegno. Che mi importa di esso mai? È il tuo amore che voglio.
Passò di nuovo il braccio intorno al collo di Luigi e soggiunse con appassionato abbandono:
– Vuoi tu ch'io lo lasci – e per sempre – questo mondo maledetto? Vuoi tu ch'io sia tutta per te e solo per te?
Gian-Luigi si tolse d'intorno al collo quel braccio leggiadro che lo cingeva:
– No: diss'egli: chè forse codesto avresti da rimpiangere un giorno.
Le prese le mani e glie le strinse forte sul suo petto, guardandola con quella potenza, ond'erano dotati i suoi occhi neri, di far penetrare in altrui la sua volontà.
– Voglio che tu non mi sacrifichi a questo mondo, che in presenza di esso non ti vergogni di me, che non faccia comunella coi miei nemici per umiliarmi della supposta inferiorità della mia condizione.
Candida fece un atto come per protestare; ma egli, stringendole con più forza le mani, non lasciò che parlasse.
– Io mi sento dappiù di tutti quei burleschi gentiluomini della tua società che non hanno oramai nulla del cavaliere fuor che i titoli e la superbia. Voglio che tu non solo riconosca in te stessa che così è: ma che non nasconda, come una colpa, l'averlo riconosciuto; voglio che i tuoi modi non dieno ansa all'impertinenza di quei scimiotti a trattarmi come io non tollererò mai che nessuno mi tratti, da inferiore, perchè io mi sento inferiore a nessuno.
– Ma io…
– Tu ieri sera fosti complice di quell'imbecille di San-Luca, la cui oltraggiosa superbia ho dovuto punire questa mattina con un colpo di pistola.
La contessa fu presa da un subito sgomento retrospettivo.
– Che? Esclamò essa. Tu ti sei battuto!.. O cielo! Esporti così al pericolo… E non hai pensato a me? Oh che cosa sarebbe avvenuto di me se alcuna disgrazia t'avesse colto!
– Ho pensato al mio onore: disse asciuttamente Luigi: ho pensato al mio giusto risentimento. Ora il contino espia la sua sciocca insolenza con una ferita nel braccio…
– E se io ho alcuna colpa, tu me la fai espiare più crudamente ancora col tormento che mi dànno le tue parole, il tuo contegno… Se tu sapessi che brutta notte ho passata in seguito alla tua lettera!.. Ma tu non vuoi aver nissun riguardo, non vuoi comprender nulla delle mie condizioni!.. Che vuoi tu, che pretendi tu da me? Che io confessi pubblicamente aver per te mancato ai miei doveri, ai miei giuramenti, alla dignità del mio nome?.. Oh va, che tu sei ingrato verso una donna che ha tutto sacrificato per te.
Luigi la interruppe con brusca violenza:
– Sacrificato, sacrificato!.. Tu pronunzi una parola che è un sanguinoso ed ingiusto rimprovero… Tu credi che da parte tua sia tutto il merito d'esser discesa fino a quest'umile individuo… Ma da parte mia credi tu che nulla siasi dovuto, che nulla debbasi fare oltre ciò che mi conviene, oltre ciò che io possa coi mezzi miei, per vivere nella tua sfera, per seguirti con passo pari in questa costosa esistenza?
La contessa fece un moto di stupore e parve voler parlare. Ma egli non glie ne diede il tempo. Lasciò le mani di lei che teneva ancora fra le sue, e dirizzandosi della persona con mossa piena di orgoglio, soggiunse:
– Io sono il figliuolo delle mie opere; non ho da un patrimonio inalienabile, trasmessomi dalle prepotenze de' miei maggiori, guarentito l'ozio e il soddisfacimento dei miei vizi e della mia vanità… Chi può indovinare i sacrifizi che mi costa questo lusso, il quale mi è condizione indispensabile per accostare la contessa Langosco?
Candida sentì una specie di gelo insinuarsele nel sangue. In quale quistione bassamente economica andava ad impigliarsi la discussione!
– Che vuoi tu dire con ciò? Spiegati… Tu non sei ricco, tu hai fatto dei debiti?
– Io ho tutta una falange di difficoltà contro cui lottare. Fra me e te io vedo sorgere ad ogni istante mille ostacoli di varia natura, e tutti li voglio vincere e li vinco; nè di questo contrasto continuo e doloroso mi lamento o mi stanco… Ma tu, perchè mi faresti più scabra la via, meno sicuro il coraggio concorrendo a ferirmi nell'intimo del mio amor proprio?
Candida ebbe un movimento dell'anima, quale avrebbe avuto ogni altra donna innamorata. Immaginò che il suo amante sostenesse crudeli privazioni per poter mantenersi in quella vita dispendiosa della società elegante dov'ella lo aveva trascinato. Un rincrescimento accompagnato da un generoso impulso di venire in di lui soccorso, la fece prorompere nelle seguenti parole:
– Ma io sono ricca!.. Ma io posso venirti in aiuto. Tu forse hai sofferto!.. Oh perchè non mi hai tu detto nulla mai?
Gian-Luigi fece un atto d'orgoglio offeso:
– Io domandare?.. Io!! E lo penseresti forse? Ed ella per rimediare a quel nuovo colpo che pareva aver portato all'anima di lui, con infinito amore, quasi supplichevole:
– Ma non sono io tua? E tu non sei mio? Quello adunque che mi appartiene, a te appartiene…
Il medichino sembrò commoversi alquanto. La guardò con occhio ch'ella trovò intenerito ed amoroso, le disse coll'accento più seduttivo della sua bellissima voce:
– Che tu sii benedetta per queste parole… In esse ho sentito il vero amore. Sì, tu sei mia ed io son tutto di te fino alla morte… Ma ciò nulla meno io non posso nulla accettare delle tue offerte. L'onore, quale lo fabbricano gli uomini, mi vieta di dare a te e di riceverne questo, che tra amici è uno dei migliori contrassegni di fiducia e di affetto. A me in ogni cosa si conviene lottar solo, lottare finchè le forze, la mente, l'audacia mi accompagnino, e quando l'accumularsi delle avverse circostanze impedisca ogni mezzo di scampo, non resta che sentire il freddo contatto d'una canna di pistola alla tempia, un lampo di dolore, e poi precipitare nel mistero della morte…