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Kitabı oku: «La plebe, parte II», sayfa 30

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CAPITOLO XXIV

Fu Maurilio che ruppe di nuovo il silenzio continuando nel suo racconto.

– Io era sempre rimasto in quella specie di torpore che ti ho detto. Nel mio intelletto pareva intanto farsi l'ordine e penetrare la luce; travedevo la ragione dell'esistenza e vi si acquetava l'ansiosa sollecitudine della mia curiosità; ma mi premeva il bisogno che mi venisse parlato di lei! Non ebbi da formolare il mio desiderio in linguaggio di parole; lo spirito me lo lesse entro il cervello.

« – Una legge del mondo morale, così mi disse, che può paragonarsi a quella dell'attrazione e della affinità nel mondo fisico-chimico, governa i rapporti delle anime fra di loro. Te questa misteriosa e potente legge, ordinatrice di altissimi effetti nell'universo spirituale, te attrae con tutta forza verso l'anima incarnata in quella beltà di sembianze. Ch'ella ti corrisponda forse non hai neppur da sperarlo: essa è uno splendido sole, tu un oscuro pianeta soltanto; ma quest'attrazione ti farà aggirarti nell'orbita della luce. Amala, ma santamente, respingendo con ogni maggior tua possa gl'impuri elementi che al nobile affetto vorrà congiungere pur troppo il materiale influsso della carne; amala come l'ideale dell'archetipo cui fa presentire al tuo spirito la favilla di poesia che lo riscalda; amala come la rappresentazione nel bello della forma umana di una maggior quantità di bene; e con siffatto amore il suo pensiero ti sia feconda ispirazione di forti meditamenti e di generosi propositi.

«La forma nebulosa del fantasima si fece allora più e più leggiera; poi svanì del tutto; la fiamma della lucerna mandò un chiarore rossigno più vivo e si spense; io rimasi nelle tenebre e in quel punto mi riscossi tendendo le braccia con ineffabile desiderio verso quella parte in cui era stato e donde era sparito lo spirito, come se lo potessi afferrare e trattenere tuttavia.

«La notte era inoltrata; dalla finestra aperta entrava un'aria fredda che tutto mi aveva intirizzito: mi alzai col capo che mi pesava, la mente quasi direi indolorita, le membra stanche, e mi recai barcollante a chiudere le invetrate. Le stelle scintillavano ancora nella medesima guisa sul fondo oscuro del cielo. Le guardai con pari intentività, ma con più amore ancora di prima. Sentivo me, la mia piccolezza, la mia nullità legata solidariamente a quell'infinita corrente di esistenza svolgentesi per l'infinito. Atomo intelligente e soffrente, mi sentivo abbracciato dalla fraternità universale degli spiriti che amano perchè vivono e comprendono; la vita essendo intelligenza ed amore.

« – Ora vi conosco, esclamai, meravigliosi vascelli che sotto l'impero della legge eterna portate l'esistenza e l'intelligenza traverso l'oceano dell'infinito. Su voi si travaglia e segue il suo destino la gran famiglia degli esseri. Non siete all'infuori di noi, nè astronomicamente, nè spiritualmente, ma con voi il nostro mondo, coi vostri spiriti i nostri siamo parte integrante del gran tutto nell'unità della creazione di Dio.

«Sentii un bisogno immenso di riposo, tanto pel corpo che parevami affranto da non so qual fatica, quanto per la mente che si trovava come dopo lo studio sforzato e la riflessione troppo prolungata di molte ore. Mi coricai e caddi tosto in un sonno profondo e contro ogni mia previsione, senza sogni di sorta. Quando mi svegliai alla mattina, il sole era già alto sull'orizzonte e picchiava allegramente entro i cristalli della finestra. La prima cosa che venne presente al mio pensiero fu la visione della veglia. Ogni incidente della medesima, ogni concetto manifestatomi avevo così chiaro impressi in mente che mi pareva come se me li leggessi stampati in un libro aperto dinanzi. Mi proposi dare ai miei studi, fino allora disordinati, un più preciso, nobile ed utile scopo. Volli con essi conquistare, non la gloria, ma la elevazione morale dell'esser mio… Aimè! Tutte le risultanze di questi studi ho consegnate in uno scartafaccio che era, come dire, la riproduzione scritta delle vicende, dei travagli e dei progressi del mio intelletto e del mio cuore; e questo confidente, questa espansione del mio intimo me, cadde questa mattina nelle mani della Polizia, per essere profanato dagli sguardi vili di quella vil razza di gente… Ma di codesto, del complesso di opinioni ch'io mi son venuto facendo intorno alle cose politiche e sociali dell'umanità presente, non ora mi sento disposto a parlare. Un giorno, se quelle infelici a me preziose carte torneranno in mio potere, io ti farò leggere in esse l'intiero animo mio; adesso lascia ch'io brevemente compia il racconto delle poche ma sfortunate vicende che mi hanno condotto a quell'accesso di disperazione in cui tu mi hai trovato e da cui mi hai salvo.

«L'amore mi dominava talmente che io quasi avevo perso del tutto l'impero di me stesso. Parco di parole sempre, ero diventato ora d'una profonda taciturnità senza eccezione. Riflessivo sempre, ora avevo la mente perduta in continua astrazione. Un pensiero solo mi occupava: quello di lei. Tutti gli altri erano un nonnulla che non meritavano la menoma attenzione. Ai doveri del mio ufficio badavo svogliatamente, con isforzo non sempre felice, avvicendato da soverchie dimenticanze. Ogni qual volta potessi, scappavo per andare ad aggirarmi sotto le finestre del palazzo di lei, per andarmi ad appostare là dove sapevo, dove presumevo, dove indovinavo ch'ella avrebbe dovuto passare. La miravo fugacemente, un fugace istante, trascorrere come un baleno innanzi ai miei occhi abbagliati, alla corsa dei suoi cavalli, e ne portavo per tutto il dì uno splendore raggiante nel cuore, come chi ha osato fissare il sole e ne va per un poco abbagliato con uno scintillìo di raggi nella retina. Quante altre volte la volli rivedere a teatro! I miei pochi risparmi che avevo potuto fare sul tenue stipendio, li spesi tutti a questo modo. Venuto l'inverno di poi gli era al teatro Regio che accorrevo per passare tutta una sera in contemplazione di quelle sembianze celesti. La somma di spasimi e di diletti, cari quasi del paro e gli uni e gli altri, ch'io provai, parola umana non saprebbe nemmanco adombrare… Nella state, quando ella era partita per la campagna, io era rimasto come privo della miglior parte dell'anima mia… Avevo finito per iscoprire dove fosse la sua villeggiatura; lontano delle miglia parecchie. Sortivo di notte a piedi, per arrivare il mattino in vista del bianco muro che cingeva il vasto giardino; mi arrampicavo sopra un albero per poter gettare uno sguardo sulle finestre del castello indorato dal sole dell'oriente, sulle verdi tratte d'erba, sui viali insabbiati che vi si aggiravano trammezzo per andarsi a nascondere nei meandri d'un folto boschetto; qualche volta avevo la cara fortuna di vederla lei, scorrere con vezzo infantile frammezzo ai fiori, oppure affacciarsi soltanto ad una finestra, quella della sua stanza, e salutare con un sorriso il sereno del cielo, la bellezza d'una giornata splendida come la sua giovinezza. Allora me ne tornavo in città con una provvista di benessere d'intima gioia che rinchiudevo con gelosa cura in me stesso, e che mi rendeva sempre più indifferente a tutto il resto del mondo esteriore.

«Il buon signor Defasi affliggevasi del cambiamento in me avvenuto. Parecchie volte prese ad interrogarmi, a volermi confortare, anco a rampognarmi, ma con affettuosa sollecitudine sempre. Io non risposi che con un impaziente silenzio, o con tronche parole più impazienti ancora. Al mio ufficio non bastavo più. I miei fatti e contegni prendevano il carattere d'ingratitudine verso colui che mi aveva largito i suoi soccorsi non solo, ma la sua fiducia ed il suo affetto. Me ne accorgevo, me ne rimproveravo aspramente meco stesso, ma non potevo far diverso.

«Un anno e più era passato. Si appressava la nuova state, ed ella erasi ripartita per la campagna. Ricominciarono le mie gite, da cui tornavo stanco, affaticato, quasi incapace di stare in piedi, e tardi troppo più che non bisognasse per gli affari del fondaco. Il mio principale aveva cessato di tentare la scoperta del mio segreto, ed anco di farmi delle ammonizioni o dei rimproveri. Mi guardava di quando in quando coll'aria di compassione che si ha per un malato del quale bisogna aspettare dal tempo soltanto la guarigione. Il suo generoso affetto per me non pareva svanito, allorchè ad un tratto le sue maniere cambiarono per l'affatto, ed io m'accorsi che in lui, come in tutta la sua famiglia, ai primi sentimenti a mio riguardo erano sottentrati la diffidenza ed il sospetto.

«Un giorno ch'io era stato alla mia solita gita rientrai più tardi ancora dell'usato in città. Quel dì recavo meco l'anima lieta, perchè avevo potuto lungamente veder lei, non visto, entro il suo giardino. Ma al mio ingresso nel fondaco vidi ad accogliermi nel signor Defasi e ne' figli suoi non solamente la diffidente e severa freddezza dei giorni innanzi, ma un aperto disprezzo ed una contenuta indignazione.

« – Ah siete qui ancora voi! Proruppe il primogenito dei figliuoli. Come osate tuttavia presentarvi in questo luogo?

«Io rimasi in asso e senza parola.

« – Sta, sta: disse il padre accennando colla mano al giovane di contenersi: ora parlo io a codestui. – Venite qua meco, Maurilio (soggiunse volgendosi a me con aspetto di grave corruccio), ho alcune cose da dirvi.

Passò nello stanzino che v'era dietro la bottega, ed io ve lo seguii, confuso ed attonito, non sapendo ancora quel che mi dovessi aspettare, ma temendo che la mancanza ai miei doveri avesse stanco il mio benefattore e mi valesse la perdita dell'impiego.

Il signor Defasi cominciò tosto senz'altri preamboli:

– Da qualche tempo io sono istrutto del vostro passato che mi avete così ben nascosto.

Io diedi in un sussulto e non potei frenare una esclamazione.

– Il signor Nariccia che vi ha visto per caso nel mio fondaco (seguitò il libraio) credette obbligo di coscienza venirmi a contar tutto quello che conosce dei fatti vostri.

Qui parlò più lentamente, pesando su ciascuna parola.

– Tutto! Ripetè. Quello che vi avvenne prima che foste da lui; ciò che faceste in casa sua.

Mi sentii mancare ogni coraggio; una vergogna dei fatti miei tale mi assalse che non potei far altro che curvare il capo, mentre il rossore m'invadeva la faccia fino alla radice dei capelli, in aspetto propriamente di un colpevole senza difesa.

Defasi tacque un istante, come per lasciarmi di meglio in preda a quella confusione: poscia ripigliò a dire:

– Appena fui chiaro di codesto, la più volgare prudenza mi avrebbe consigliato a liberare di voi la mia casa…

Io l'interruppi con un'esclamazione che pareva un gemito.

– Lasciatemi dire: continuava egli. Ciò avrei dovuto fare tanto più che da molto tempo la vostra condotta non è quale io aveva diritto di aspettare in voi, non dico dalla vostra gratitudine, ma dal sentimento più volgare dell'assunto dovere. Confesso la mia debolezza. Non ebbi il coraggio di rimettervi sulla strada a cercarvi in altro modo i mezzi dell'esistenza. Pensai che la tentazione vi avrebbe potuto far ricadere, e che qui, dove con tanto amore e con tanta fiducia foste accolto, un riguardo almeno, un accenno di riconoscenza, vi avrebbe impedito di macchiarvi, più scelleratamente che altrove, di una nuova colpa. E per mio dolore vedo che mi sono ingannato.

A questo punto levai vivamente la testa.

– Ingannato! Esclamai. Oh come! Oh che vuol Ella dire?

– Eh! Ben lo dovete sapere. Mancano da ieri cinquecento lire nel cassetto del mio banco; e niun altro le può aver prese fuori di voi.

A quell'accusa ch'io era così lungi dall'aspettarmi, rimasi attonito di guisa che le mie sembianze non presero nemmanco l'aspetto dell'indignazione naturale all'innocenza calunniata.

– Io? Esclamai balbettando. Ella accusa me? È ciò possibile?

– Vorrei che non fosse: rispose ancora più severo il principale; ma non c'è altra spiegazione da potersi dare a quella mancanza che un furto, e non c'è altri qui da potersi sospettare con fondamento che voi.

Io mi sentii occupare tutto e di botto da un tale abbattimento, da una tale vergogna, che ogni vigore mi sfuggì così dall'animo, come dalla volontà, come dal sembiante. Tu non fosti mai in questo orribil caso di venire accusato d'una sì bassa colpa; e venirne accusato da colui che ha su di voi una legittima autorità, a cui siete legati per tanto debito di riconoscenza; ed avere nel proprio passato, in realtà innocente, le apparenze d'una colpabilità che rincalza anco nel presente l'accusa! Forse per alcuni il sentimento della propria innocenza può far in loro scattar con forza l'indignazione dall'animo e trovare accento e parole da mostrare il vero; per me non fu così. Mi parve scorgere una nuova persecuzione della fatalità che guidava gli avvenimenti della mia esistenza; mi invase la mente lo scoraggiante pensiero che ogni mia protesta, ogni mio fatto sarebbe stato inutile, che non avevo altro più che da curvar la testa.

Il signor Defasi mi guardava e pareva aspettare ch'io mi difendessi, ch'io pronunziassi non fosse che un motto il quale mi dimostrasse innocente. Conobbi che alcuna cosa mi toccava pur dire; non avevo la menoma idea nel cervello confuso; non la menoma parola che venisse alle labbra balbettanti.

– Sono innocente: non seppi altro che dire: glie lo giuro!

Il mio contegno dovette sembrare al buon signor Defasi una conferma anzi che altro della mia colpa. Volse in là il volto con evidente ripugnanza e disse asciuttamente:

– Abbreviamo questo discorso che per me è penosissimo. Io non voglio perdervi affatto. Forse anco in ciò fallisco al vero debito che mi toccherebbe come cittadino e parte di quell'associazione cui dovrei far guarentire dal pericolo che lascio in essa con voi di nuove colpe, ma non posso tanto dimenticare che voi avete mangiato il mio pane e posseduto il mio affetto poco meno che figliale, da abbandonarvi ai rigori della giustizia terrena. Vi abbandono al rimorso della vostra coscienza, la quale vi dirà come la vostra colpa sia di tanto peggiore e più condannevole quanto maggiore era nella famiglia che vi aveva accolto la fiducia, e in voi verso di essa l'obbligo della gratitudine. Uscite dal mio fondaco e di casa mia; non vi domando altro, non vi punisco in altro modo; e non comparite mai più innanzi ai miei occhi.

Volli di nuovo tentar di parlare, e di nuovo la lingua mi stette aderente al palato come assecchitasi e di nuovo un'idea non nacque nel mio cervello di ciò che avessi da dire. Impallidii vieppiù, mi parve che il fiato mi mancasse, girai intorno gli occhi come spauriti; non potevo credere alla realtà di quel che mi capitava; non sapevo che cosa avessi da farmi; rimanevo là interito, senza muovermi, senza parole, senza propositi. Il principale mi prese per un braccio e mi trasse verso la bottega, e da questa verso la porta d'uscita; mi lasciai condurre come un automa, e sul mio passaggio vidi che i figliuoli del signor Defasi e l'altro commesso volgevano in là il capo a sviare i loro sguardi da me, come da oggetto di disprezzo e disgusto. Non ne provavo nemmeno indignazione, ma un'afflizione profonda, un'amarezza incomportabile. Il padrone aprì l'uscio a vetri e mi spinse fuori nella strada, senza violenza, ma con mano ferma e robusta.

– Andate! mi disse laconicamente senza più: e l'uscio fu richiuso alle mie spalle.

Quando mi trovai così, scacciato, sul pavimento della strada, mi riscossi. Una folata di pensieri e di propositi confusamente mi si precipitò allora nel cervello; mi parve che avessi mille cose da dire e da fare; mi rivolsi verso il fondaco, e posi la mano sulla maniglia della serratura per riaprire ed entrare. Ma di dietro ai cristalli stava la onesta, severa figura del signor Defasi, del mio benefattore, che con mossa d'inesorabil fermezza, il braccio levato, il dito indice teso, m'intimava d'allontanarmi. Obbedii. Feci un bel tratto di strada senza pur sapere da che parte avessi diretto i miei passi. Ero come sbalordito e non avevo chiara e netta la coscienza delle condizioni in cui mi trovavo. In piazza San Carlo, mi ricordo che c'era un gran cerchio di persone intorno ad una quattrina di musici ambulanti che cantavano una canzone popolare coll'aria più allegra che si possa dir mai. Ristetti ancor io ad ascoltare, come se nulla avessi in mente da occupare il mio pensiero. Ma a breve andare la volgare allegria di quella musica sembrò offendermi la suscettività nervosa; mi destò un'irritazione pungente che era quasi un dolore di fibre; ad un tratto chiaro mi comparì innanzi lo stato in cui ero ridotto. Ero di nuovo solo – più solo che mai – sulla terra. Quel soave legame d'affetto che la fortuna mi aveva concesso di stringere coll'umana razza, colla società, per mezzo di quell'amorevole famiglia che sì generosamente mi aveva accolto, quel legame era spezzato bruscamente, dolorosamente e per sempre! Non avevo più nessuno sulla terra che mi volesse un po' di bene: da que' pochi che me ne avevan voluto testè ero disprezzato e maledetto. Oh come ripiombino crudeli, desolanti sull'animo siffatti pensieri, tu non sai, tu non puoi immaginare, può sapere soltanto chi fu nella trista condizione di provarli. Un impeto di cordoglio disperato subitamente mi assalse; provai uno spasimo che mi serrava la gola e stava per iscoppiare in singhiozzo; sentii le lagrime che stavano per prorompere in pianto dirotto dagli occhi; fuggii per non essere visto in quella esplosione di dolore.

Solo, solo al mondo, odiato, disprezzato e maledetto! Ecco adunque a che cosa avrebbe fatto capo soltanto ogni atto della mia vita! Era la sentenza irrevocabile del mio destino che coll'infelicità della nascita aveva pregiudicata e predisposta tutta la mia vita. Le inique parole di Graffigna mi tornarono presenti, e con una maggiore e più barbara efficacia che mai. Inutile il lottare, inutile il volersi sottrarre alla propria sorte: respinto dagli uomini, in sospetto e in odio alla società, avrei dovuto ad ogni modo gettarmi fra i ribelli alla medesima. La mia innocenza a che cosa mi aveva servito? Già due volte le più scellerate accuse mi avevano raggiunto. Ero predestinato a quello che gli uomini chiamano colpa. Nel mio cervello si era fatta come una tenebra in cui si aggiravano tumultuariamente le più fosche immagini. Mi domandavo se virtù ed innocenza non erano frasi d'inganno trovate da' furbi per irretire i credenzoni. Che cosa mi serviva essere onesto? Avevo il disprezzo e il danno della colpa, senza averne avuto i guadagni che ad essa sollecitano. Ora che cosa sarebbe avvenuto di me nel mondo? Ricordavo che tutti i miei risparmi avevo consumati; dove avrei trovato un guadagno, dove un pane da sostentarmi? Nelle mie veglie avevo meditato sui problemi più ardui della società umana; avevo posto alla tortura il cervello per abbozzarne delle soluzioni che la scienza accumulata di secoli, l'osservazione, il buon senso, la possibilità attuale delle cose non condannassero. Che cosa mi serviva tutto codesto? Non avrebbe ritardato d'un giorno ch'io morissi di fame. Nel mio intelletto offuscato, tutta la potenza consolante delle teorie a cui avevo dato la mia fede, non aveva più azione di sorta. La nebbia della passione mi velava ogni luce dello spirito. Bestemmiai coll'angoscia della disperazione. Il mal fisico di quella infermità che già mi aveva condotto presso a morte quando ebbi a sopportare l'ignominia del carcere, che mi assalì eziandio allorchè tu mi avesti salvo dalla pazzia del suicidio; infermità di cui le sofferenze della vita svilupparono il germe posto dalla natura nel mio organismo, e la quale anche ora cova e progredisce latente in questo miserabile mio corpo; quel mal fisico che già preparava il suo scoppio nei travagli della passione, nelle fatiche d'un lavoro mentale esagerato e d'un'agitazione di nervi senza riposo, conferiva col febbrile dissesto della circolazione dei sangui a turbarmi le funzioni intellettive eziandio. Non discernevo più le cose del mondo esteriore che traverso l'esaltazione morale d'un immenso dolore e le sensazioni contrafatte dalla febbre delle vene, dallo spasimo dei nervi, dal fremito morboso di tutte le fibre.

Ma nel mio accesso angoscioso, venne di colpo a presentarsi benefica e soave l'immagine di lei. Fu come il sollievo d'un fresco alito sopra una fronte ardente; fu come un balsamo sopra una piaga inasprita. Allora quasi mi rallegrai di non aver più catena nessuna di doveri e di lavori da compiere. Potevo esser tutto all'amor mio: i pensieri come gli atti, la fantasia come il tempo. Tutto, tutto potevo consecrare esclusivamente a quel fatto dominante, supremo nella mia vita…

Un crudele problema, però, mi teneva afferrato fra le sue morse inesorabili: quello di procurarmi il pane. Presentare la mia fronte ad alcuno per domandare occupazione non osavo più. Mi avrebbero chiesto del mio passato, e come dir loro perchè avevo dovuto dare addio alla bottega del signor Defasi? Un mezzo di guadagno qualsiasi io non lo sapeva scorgere: per quegli umili uffizii faticosi, da cui trae il più spesso il sostentamento la plebe, e pei quali non occorre ispirar fiducia nessuna a chi ve li commette, a me mancavano le forze fisiche. Mi pareva di portare un mondo di pensieri nella testa, e le mie mani non erano capaci di nessuna opera meccanica. Incominciai per vendere i pochi oggetti che mi appartenevano, i mobili, il vestiario, poi anco, – e fu penosissimo sacrifizio – i libri che possedevo, quei soli eccettuatine che recai meco nella vostra dimora, quando tu Giovanni m'accogliesti.

Fu allora ch'io, fatto uno sforzo violento alla mia peritanza, osai presentarmi a casa vostra domandando lavoro: avevo udito di te e di Romualdo come cultori delle lettere e giovani scrittori che si preparavano ad esprimere della loro generazione la voce e il pensiero coll'opera della penna: e pensai che avrei potuto associarmi a voi come copiatore, compilatore, e quando mi avreste di meglio conosciuto, come pensatore fors'anco. Mi presentai tremante, osando per sola raccomandazione allegare la mia miseria…»

– E noi, interruppe Giovanni con una specie di rabbia contro sè stesso, noi ti abbiamo disconosciuto al punto da mandarti a spasso, come facevamo d'ordinario e facciamo tuttavia ai tanti che vengono a cercare se la letteratura non sia un ospizio di carità pei fannulloni, e se noi non siamo per caso i custodi da aprirne loro la porta.

– Voi avevate ragione: soggiunse Maurilio. Che cosa infatti v'era in me che mi distinguesse da quei buoni da nulla?.. Avevo tentato quella prova quasi per ultima, spintovi dalla disperazione. Era da due giorni che uno scarso cibo non mi riparava più dai tormenti della fame – dalla vera fame. Avevo venduto tutto quello che potevo vendere… Avevo perfino pensato, in un momento di maggiore angoscia del mio ventricolo, vendere il rosario, unica eredità dei miei sconosciuti parenti… ma non avevo tardato a respingere con orrore questa tentazione che non doveva riassalirmi mai più. Il padrone della soffitta cui abitavo, accortosi della condizione in cui ero caduto, vistomi denudato di tutto, mi fece sapere che fra pochi giorni, finito il mese, avessi a cercarmi altro quartiere. La malattia di cui quelle privazioni e quegli spasimi favorivano lo sviluppo, cominciava a turbarmi profondamente tutte le funzioni vitali e quelle del cervello specialmente. Non avevo più nè delle cose fisiche, nè delle morali un'esatta percezione. Mi dissi: «la natura e la Provvidenza ti hanno condannato a morire senza manco nessuno. Perchè non ti affretteresti tu a porre in atto questa condanna?» L'idea sempre maniaca, a mio senno, del suicidio, cominciò a piantarsi e dilatarsi nella mia mente. Il giorno in cui dovrò abbandonare questo tetto, determinai, e non avrò più riparo nessuno al mio capo sventurato, cercherò asilo al corpo entro la tomba, nuove venture all'anima nel mondo degli spiriti!

«Quel giorno venne. La mia ragione vacillava sempre più, mentre la fame mi rodeva con asprissimo dente le viscere. Provavo di quando in quando delle soffocazioni onde mi pareva dover rimanere strozzato; tratto tratto erano folate di sangue che mi si precipitavano alla testa e mi davano il capogiro. Ero calmo, ma tutto soffriva in me, senza che pure avessi saputo dire con precisione dove avessi male e qual fosse. Presi meco quei pochi oggetti di mia spettanza che mi rimanevano ancora: sul cuore le reliquie trovatemi nelle fascie, sotto il braccio i libri e il quaderno delle confidenze dell'anima mia. Mi trovai sul selciato della strada colla voglia di arrestare tutti quelli che passavano, per dir loro: «Questo è l'ultimo giorno della mia vita, pregate per me.» In fondo ella confusione penosa delle mie idee c'era pur tuttavia sempre il pensiero di lei!

– Vederla ancora: mi dissi; vederla e poi morire.

Mi avviai alla volta della sua villa. Come vi potessi giungere non so. Del cammino che ho fatto non mi ricordo più di nulla, eccetto che un incessante ritmo di versi e di rime mi martellava nella testa, ed io tratto tratto ero costretto a fermarmi e ripetere ad alta voce quei versi spropositati, agli alberi, ai sassi, al rigagnolo della strada.

Giunsi finalmente, chi sa dopo quante ore, ch'io l'idea del tempo non l'avevo più, in vista del muro che cingeva il giardino di lei stendendosi in una bianca lista nel verde della campagna. A quella veduta un po' di ragione rientrò in me. Dentro il cranio mi parve sentir risuonare come un'eco la dolce melodia di quel duetto amoroso che avevo udito, lei presente, a teatro la sera di quel primo giorno in cui m'era avvenuto di vederla. Mi trovai dinanzi una porticina del muro, di cui il battente dell'uscio era socchiuso. Ebbi la temerità di sospingerlo e di entrare.

Quella porticina metteva in quella parte del giardino che era coltivata a frutta: alberi carichi di ciliegie parevano tendere alla mano avida del passeggiero le loro ciocche di frutta rosse come le labbra d'un bambino; arbusti tenuti a spalliera mostravano tra il verde delle foglie l'incarnatino di stupende albicocche. In quel momento, più d'ogni altra cosa potè in me l'impulso fisico, bestiale della fame. Senza che intravvenisse atto nessuno di ragionamento, determinazione veruna di volontà, io mi gettai coll'avido furore dell'affamato sopra quelle frutta e le abbrancai con mano agitata da fremito spasmodico; ma avevo appena morso in una delle colte albicocche, che un pugno robusto e violento mi afferrava al bavero del vestito e mi scuoteva con forza, mentre una voce aspra ed incollerita mi gridava alle orecchie:

– Ah! ti ho colto pur finalmente, miserabile ladroncello. Anche di giorno tu osi venire a servirti delle mie frutta, eh? Che sì che adesso, poichè ci sei cascato, l'hai da pagare per tutto quello che mi hai già portato via, mariuolo di tre cotte.

Il giardiniere che così mi aveva sorpreso, veniva crollandomi senza misericordia, mentre parlava, ed io, debole com'ero, a quelle scosse ed a quella nuova accusa, mi sentii tanto smarrito che credetti perdere i sensi. Mi lasciai cadere a terra, mentre le labbra mormoravano con voce appena se intelligibile:

– Perdono!.. È la prima volta che qui vengo… Non mi perdete…

– Ah! la prima volta: urlava il giardiniere che dalla mia debolezza pareva vieppiù infierito. Come se non ti avessi visto io stesso a girare qui intorno a mo' della volpe intorno al pollaio!.. Ah la prima volta, mentre ogni mattina quasi mi trovo il frutteto saccheggiato della più bella frutta!.. Te la darò io la prima volta…

Mi veniva addosso più minaccioso che mai, e chi sa a che maltrattamento avrei dovuto sottostare, se in quella una voce soavissima non avesse suonato alle spalle di lui, dicendo con accento autorevole:

– Tonio che cosa fate?

Il giardiniere si fermò e si volse indietro con tutte le mostre del più profondo rispetto; io che giaceva in terra, mi sollevai sopra un gomito a guardare. Ella ci stava dinanzi. Era vestita di bianco ed un nastro cilestrino le svolazzava alla cintura; un altro nastro di ugual colore s'intrecciava sopra la sua fronte all'oro splendido de' suoi capelli. L'avresti detta una apparizione come quella del poema di Ossian.

– Che è stato? Ridomandò essa facendo scorrere quel suo sguardo divino da me che mi sforzavo a rialzarmi da terra e il giardiniere che levatosi il cappello lo faceva girare fra le sue mani, in mossa di tutta soggezione.

– Gli è stato: rispondeva quest'ultimo: che da molto tempo, appena sono mature, le albicocche e le ciliegie, ed anco le fragole, mi spariscono come se il diavolo venisse a beccarsele; e che finalmente adesso adesso ho colto qui questo bel capo nell'atto appunto che le rubava.

«Ella mi rivolse uno sguardo in cui si notava non isdegno, non disprezzo, ma compassione. Io mi sentiva per lo spasimo un sudor freddo spuntare a goccie sulla fronte; avrei voluto la terra mi si aprisse sotto i piedi ad ingoiare la mia vergogna.

– Lasciatelo andare pei fatti suoi: disse quella voce così soavemente armoniosa. Sono persuasa che egli non ci tornerà più.

Il giardiniere non pose tempo in mezzo; mi prese per le spalle, mi fece girare sui talloni e mi cacciò fuori della porticina in men che non si dica. Mi ritrovai nella campagna sbalordito, senza punto consiglio. Quella fatalità che mi perseguitava, ancora una volta mi aveva voluto fare apparire vergognosamente colpevole, e codesto in presenza di lei! Mentre io aveva tante cose immaginato e tanti studii intrapreso affine di spingermi su nel mondo da avvicinarla, ecco che la prima comparsa al suo cospetto doveva essere quella d'un ladroncello!..

Qui la mia testa si confuse dolorosamente in modo che io da quel punto non ho più memoria esatta di quello che avvenisse. Come fossi ritornato a Torino, come mi ritrovassi a quell'ora in cui tu m'hai incontrato sulle sponde del Po per affogarmivi non ho mai saputo. Tu mi salvasti allora la vita; ed accogliendomi con voi fraternamente, tu e gli amici tuoi mi aiutaste l'anima a rientrare in quella calma ed in quella fermezza onde abbisogna l'uomo a sostener nobilmente le sventure della vita.

Quando fui risanato dopo la violenta malattia che mi condusse vicino a morte e nella quale voi tutti e la buona moglie di Vanardi aveste tante amorose cure per me, l'amor mio non era punto scemato, ma s'era, per così dire, ritratto nel più intimo penetrale dell'anima, spogliatosi di ogni illusione di possibil ventura.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 haziran 2017
Hacim:
580 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain

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