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Kitabı oku: «La plebe, parte IV», sayfa 27

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CAPITOLO XVIII

Entrando nel gran salone splendidamente illuminato, Maurilio s'era fermato appena fatti pochi passi sul morbido tappeto, come preso da abbacinamento. Sul volto superbo della marchesa e del suo figliuolo Ettore stava una scontentezza che si frenava, domata, soggiogata, direi quasi, dalla espressa volontà del capo della famiglia alla cui autorità essi piegavano la fronte; Virginia, ella, mostrava una sincera emozione che la straordinaria e commovente circostanza ben era fatta per suscitare in un'anima eletta ed amorevole come la sua. Lo strano contegno tenuto da Maurilio con essa in quell'occasione che abbiamo narrato, quando ella ebbe appreso dallo zio l'essere del giovane, aveva avuto da lei la seguente spiegazione: egli conoscendo il segreto della sua nascita era stato mosso allora a manifestarlesi, e l'emozione dell'affetto, la timidità, il brusco e quasi sdegnoso fuggire di lei glie lo avevano impedito. Ella si era fatta viva rampogna d'essersi allora in quel modo diportata. Una parte di quell'affetto, di quel trasporto dell'anima che aveva per la memoria della madre, di cui appena era se ricordava una vaga immagine, aveva sentito rivolgersi verso colui che ora le si additava fratello. Le parve come se qualche cosa di quella madre tanto desiderata, rivivesse; ella che, tranne quello dello zio, non aveva affetti vivaci e teneri intorno a sè, benedisse Iddio di concederle a compagno, di condurle innanzi chi aveva nelle vene il medesimo suo sangue materno. Perciò all'entrare di Maurilio fu con sollecita premura che Virginia fece alcuni passi verso di lui ad incontrarlo. Il marchese però la prevenne ed accostatosi egli primo al giovane, lo prese per mano.

– Eccovi qui i vostri più prossimi congiunti dal lato materno: diss'egli. Questa è vostra zia, la marchesa di Baldissero, questi è vostro cugino, mio figlio Ettore, due altri miei figliuoli che sono nell'Accademia Militare conoscerete poi, e questa è vostra sorella Virginia.

Maurilio fece un inchino alla marchesa che si degnò appena corrispondergli con un altezzoso cenno del capo; scambiò con Ettore un'occhiata ed un saluto in cui c'era nulla d'affettuoso nè manco di cortese; ma tremò da capo a piedi innanzi allo splendido sguardo della fanciulla che si accostò a lui, tendendogli ambedue le mani.

– Mio fratello! esclamò essa con una voce piena d'emozione ed un accento che a queste sole due parole dava la significazione di tanti sentimenti e sensazioni.

Egli prese nelle sue larghe, grosse, volgari manaccie quelle piccole, esili, bianche, dalla pelle finissima che Virginia gli porgeva, non osò stringerle, ma le tenne alquanto, sempre più tremante, e invano tentando di balbettare una parola che esprimesse il suo pensiero.

La scena fu fredda, impacciosa: la presenza della marchesa e del marchesino versava un gelo che impediva ogni espansione. Maurilio medesimo era troppo commosso per parlare; nel suo petto non abbastanza soffocato ancora era quell'amore che tutta aveva dominata la sua giovinezza, perchè egli osasse, per dir così, andare in fondo al proprio cuore, perchè osasse aprire il varco a quei sentimenti che gli sobbollivano con tramestìo confuso nell'anima. Virginia medesima dal contegno di questo rinvenuto fratello, dal suo aspetto ebbe come una specie di delusione; sentì quel suo trasporto d'affetto, quasi risospinto, venirle a ripiombare sull'animo e ritorlo alla dolce espansione di prima; nello sguardo profondo del giovane il quale pure aveva qualche cosa di quello che avevano i bellissimi occhi suoi, Virginia travide alcun che di misterioso, ond'ebbe pressochè paura e sospetto. Scambiate poche parole di convenevoli quali l'occasione li suggeriva, nessuno più seppe che cosa dire, e fu il marchesino Ettore che più impaziente tolse primo il commiato.

– Io sono stato troppo tempo condannato alla immobilità forzata dentro una camera, diss'egli con amaro sorriso facendo allusione alla sua appena finita prigionia in Cittadella, perchè ora mi rassegni a star lungo tempo inchiodato in casa.

Baciò la mano di sua madre, s'inchinò con un rispetto, in cui non c'era mostra d'affezione, al genitore, strinse la destra a Virginia e fermatosi un momento innanzi a Maurilio gli disse con un accento di finissima, velata ironia:

– Mio cugino, puisque cousin il y a, a rivederci. Faremo più ampia conoscenza più tardi: e se potremo andare d'accordo… tanto meglio!

Maurilio non rispose, guardò fiso, seriamente, quasi severamente il marchesino che girava sui suoi talloni con una sprezzosa leggerezza, e non gli fece manco un cenno di saluto.

– Signora, disse poi Maurilio accostandosi alla fanciulla più commosso e tremebondo di prima, non osando levare le pupille sul volto di lei: signora… mia sorella… Virginia… Vorrei domandarvi un favore.

La donzella vide la commozione del giovane e ne fu commossa ella pure.

– Parlate: disse con un interesse, con una specie di tenerezza che fece battere il cuore di Maurilio.

– Voi avete bene un ritratto di nostra madre?

– Sì.

– Conducetemi innanzi ad esso, ve ne prego.

Virginia parve esitare un momento. Quel ritratto era appeso nella sua camera, in faccia al suo letto; le ripugnava a tutta prima introdurre colà un individuo che appena se aveva cessato d'essere per lei un estraneo. Un estraneo? Ah no, non doveva esserlo più. Che cosa avrebbe detto la madre se avesse visto la freddezza diffidente con cui essa accoglieva il fratello, la madre che con tanta espansione avrebbe aperte al figliuolo le braccia, la madre che lieta sarebbe stata se di subito fosse nato fra di loro vivace l'affetto fraterno? Prese ella per mano Maurilio e gli disse:

– Venite.

Si arrestarono tuttedue, tenendosi per mano, innanzi al quadro in cui la contessa Aurora era stata rappresentata quando, già colpita dal dolore, portava nell'anima una ferita insanabile e ne lasciava scorgere le traccie nel pallore del volto e nella mestizia desolata dello sguardo. Tuttedue levarono gli occhi, che si rassomigliavano, verso quegli occhi dipinti, che rassomigliavano ai loro; tuttidue sentirono invadersi da una tenerezza d'affetto più viva, più cara, più calda. A Maurilio nello sguardo mite, triste, nobilmente rassegnato, profondamente pensoso del ritratto, parve scorgere alcun che di quell'inesplicabile, mesta soavità della sua visione: Virginia pensò alla gioia suprema che avrebbe avuta sua madre, se ancora viva avesse visto restituirsi al suo amore quel figliuolo che aveva pianto estinto, e credette vedere nella tela dipinta medesima, rallegrarsi e balenare soavemente quegli occhi color del mare. Il giovane giurò a sè stesso che su quella fanciulla, orfana al par di lui, in cui tante rivivevano delle sembianze materne, avrebbe volto gran parte di quell'affetto che più non poteva consecrare alla persona viva della madre, avrebbe per lei ogni cosa tentato, tutto sacrificato, se occorreva, ogni cosa sofferto per conferire in ogni modo a lui possibile a renderla felice: la donzella da parte sua promise a sè stessa, e ne sentì come il dovere, di compensare ella col suo di sorella quell'amore di madre che questa non aveva potuto mai, non poteva più rivolgere su di lui, di fargli provare quell'affetto dolcissimo di famiglia onde il derelitto era stato sin allora per tutta la vita affatto scevro. Le loro mani, che ancora erano unite, si strinsero, quasi a scambiarsi la mutua interna promessa fatta dal loro cuore, gli occhi s'incontrarono, ed ella porgendo la sua fronte china alle labbra di Maurilio, gli disse:

– Fratello mio, potrò finalmente parlare con alcuno di mia madre, ne parleremo sovente insieme, e ci ameremo com'ella ci avrebbe amati.

Maurilio depose un lieve bacio su quella candida fronte che gli veniva offerta: era un puro bacio di amor fraterno, era un castissimo bacio nell'atto e nel pensiero: ma appena le sue labbra ebbero tocco la pelle finissima di quella fronte leggiadra, uno strano, terribile sobbollimento si fece nelle vene del giovane. La passione d'amore, che egli credeva soffocata nel suo cuore, s'aderse di subito, impetuosa, congiunta con un tumultuoso trasporto di sensi, quale il misero, vissuto purissimo d'ogni voluttà, non aveva provato mai: una fiamma gli passò dinanzi agli occhi, quasi accecandolo, la mente sotto l'impulso del sangue gli si confuse: al suo giovanile ardore, tremendamente infuocatosi ad un tratto, sorrise procace la bellezza divina che aveva dinanzi; una temerità sciagurata s'aggiunse ad un avido desiderio: oh stringere al suo petto quelle mirabili forme, oh baciare con furore quelle labbra coralline! Le sue braccia frementi si piegarono per afferrare, serrare in un amplesso tenace quel corpo leggiadramente elegante. Ma appena sentì il tocco di quelle membra, delle vesti che le cingevano, la ragione si ridestò e riprese in lui il suo impero: volse al ritratto uno sguardo confuso, pentito, pieno di vergogna e supplicante perdono.

– Sono un infame, pensò rattamente fra sè. Oh mi estirperò dal cuore questo scellerato amore, dovessi strapparne insieme la vita.

Si allontanò da Virginia, impallidito di subito, tremante, affannoso il respiro, quasi vacillando.

La fanciulla lo guardò con istupore, e con affettuoso interesse gli domandò:

– Che cos'hai? Tu stai male.

Era la prima volta che Maurilio udiva rivolgersi da lei la dolce parola tu.

– Nulla, rispose, tenendo volti a terra gli occhi. L'emozione di questi momenti è tanta per la mia anima che mal vi può reggere. Lasciatemi… lasciami ritrarre ad esser solo.

Corse a chiudersi nella sua stanza, inorridito di se stesso, maledicendosi, accusandosi, pensando ogni fatta pazzie, ora piangendo, ora sdegnandosi, pregando a volta a volta e bestemmiando.

– O madre mia, soccorretemi voi, esclamava dal profondo dell'anima, aiutatemi, salvatemi, proteggetemi voi!

Ad un tratto un nuovo pensiero glie ne venne che lo fece riscuotersi in mezzo alla sua dolorosa meditazione. Aveva sempre rivolto l'animo e la mente a sua madre; e il genitore, perchè lo aveva egli dimenticato, o meglio trascurato? Nobile di cuore e d'ingegno era egli, a quanto udito ne aveva, di generoso animo e di virtuosi fatti. Della madre aveva egli almeno una memoria, una reliquia, quel rosario con cui tante volte certo aveva ella pregato, ne aveva ora viste le ritratte sembianze, ma del padre non gli restava nulla, nulla affatto, nè aveva pure alcuno che glie ne potesse parlare. Ardentissimo desiderio gli nacque di sapere qualche cosa di più sul conto di lui; domandò se il marchese era tuttavia in casa e se a lui poteva presentarsi, e venuto in presenza dello zio espose le sue legittime brame a questo riguardo.

– Avete ragione: rispose il marchese; tutto quello che appartenne a vostro padre dev'essere prezioso per voi ed è vostra proprietà. Ci ho un involto delle lettere che egli scrisse a mia sorella, e che questa teneva carissime: un momento volli distrurle, ma poi me ne trattenni pensando che avrei amareggiato l'anima di quell'infelice. Quelle carte debbono essere vostre, e senza indugio ve le rimetto.

Prese da un cassettino del suo stipo un pacco di carte suggellato con quattro grandi impronte di cera lacca nera e lo consegnò a Maurilio, il quale lo prese con religioso rispetto e strettolo al seno come se vi tenesse un tesoro, corse a rinchiudersi di nuovo nella sua camera.

Pose quell'involto di carte sulla tavola innanzi a sè e stette a contemplarlo a lungo come una cosa sacra, a cui non osasse, credesse una profanazione accostar la mano. Ecco tutto quanto gli rimaneva di suo padre! ecco quanto avrebbe potuto aver mai di lui! Di aprire quel plico e leggere i fogli contenutivi, aveva egli il diritto? Certo che sì. Da quelle carte doveva sorgere innanzi a lui e prendere forme più precise quella persona di suo padre, che vagamente soltanto gli si era adombrata nel racconto statogli fatto delle avventure della madre sua. Una nobile figura era quella che già aveva intravvista; quanta più venerazione avrebb'egli avuto per essa, quando più precisamente le si fosse palesata! Tutto l'amor suo figliale, sinora egli aveva concentrato nel pensiero della madre soltanto; avrebbe d'or innanzi volto quest'affetto alla memoria del padre eziandio, nè quell'immenso che sentiva per la donna a cui doveva la vita se ne sarebbe perciò sminuito pure d'un punto.

Ruppe finalmente i suggelli ed aprì il plico: una ineffabile commozione gli faceva tremar la mano. Era la raccolta di tutte le lettere d'amore che Maurilio Valpetrosa aveva scritte alla marchesina Aurora, dalla prima in cui le svelava con ardentissime parole l'affetto suo a quell'ultima che prima di recarsi al duello aveva egli affidata al tristo Nariccia, e nella quale, dicendo alla moglie d'aver confidenza nell'ipocrita scellerato che tanto bene aveva saputo fino all'ultimo ingannarlo, dava alla donna dell'amor suo con parole di tenerezza infinita l'estremo addio, la benedizione del moribondo.

Nel primo gettar gli occhi su quegli scritti, Maurilio provò una strana sensazione: non glie ne parve ignota la calligrafia, ma non seppe dirsi di subito nè come, nè dove, nè quando l'avesse vista mai. Forse non era che una vaga rassomiglianza: e in quel momento l'emozione del suo animo fu tanta, che non ebbe agio a considerare freddamente questa circostanza. Cominciò a leggere quelle lettere con avida curiosità insieme e con riverente affetto, e l'interesse di quella lettura non gli lasciò più per allora pensare ad altro. Palpitò alle affocate espressioni d'una passione che per tanti versi riproduceva quella ch'egli aveva giurato soffocare nel cuor suo; arrossì ed impallidì a volta a volta pel tumultuar del sangue; pianse su quell'ultima lettera dell'amante e marito ucciso in duello, sulla quale rimanevano le traccie delle amare lagrime versate leggendola dalla vedovata donna.

Gran parte della notte passò egli leggendo e rileggendo quelle carte, passeggiando per la stanza, la mente confusa per troppo accavallarsi di pensieri, rifacendo colla sua fantasia quel passato di cui aveva ora primamente innanzi a sè le traccie, ricostruendo quel doloroso dramma del quale gli si presentavano ora le linee principali. La figura di Maurilio Valpetrosa non aveva certo perduto nel concetto del giovane per quella lettura: aveva preso un aspetto di amorevolezza generosa, di franca e soave bontà, quale possono avere soltanto le anime elette. Di tutto quello che veniva apprendendo de' genitori suoi, Maurilio era fiero, era superbamente lieto.

– Oh padre mio! oh madre! chè non posso io coll'amor mio compensarvi in parte di quello che avete dovuto soffrire! esclamava egli con dolci lagrime negli occhi. Ma farò ogni mio possibile sforzo – lo giuro per la vostra memoria – affine di rendermi in tutto degno di voi!

Una dolce stanchezza ora lo occupava: dall'anima erano partite tutte le torbide sensazioni, le dolorose e pugnaci emozioni. Un assopimento, ristoratore tanto della mente e dell'animo, quanto delle membra e dei sensi, lo invadeva pian piano, come il dolce influsso d'un tepido ambiente che lo avvolgesse. Egli sedeva al suo scrittoio colle lettere aperte davanti; prese in mano quell'ultima così mesta e rassegnata e dignitosa e forte nel suo dolore, la guardò ancora cogli occhi già imbambolati dal sonno che cadeva, come se volesse imprimersene i caratteri nel cervello per averli presenti anche nel sogno, la baciò e poi reclinato il capo sulle braccia e le braccia su quelle carte preziose, tranquillamente si addormentò.

Fu senza sogni e placido il suo sonno; ma ad un punto, chi l'avesse mirato dormire, avrebbe visto la fronte corrugarglisi come per dolorosa subita impressione ricevuta: il suo corpo si riscosse, ed egli svegliato di botto rizzò il capo e la persona in sussulto. Quanto avesse dormito non sapeva; ma la candela era di molto consumata. Maurilio si prese il capo fra le mani e stette un momento come per riconoscersi, come chi ha ricevuto sul cranio un colpo poderoso e ne rimane per un poco intronato. Che cosa era successo? Nel più profondo del suo sonno, come se alcuno avesse potuto susurrarglielo direttamente al cervello, eraglisi presentato un sospetto circa quella somiglianza di scrittura che fin dalle prime aveva creduto notare nelle lettere di Valpetrosa. Parve che quei caratteri, cui egli aveva prima d'addormentarsi così intensamente osservati, nella quiete della mente prodotta dal sonno, trovassero pure alla fine quell'angoluccio in cui era riposto il sovvenire di quei simili già visti dal giovane, e lo tirassero innanzi a presentarglielo ad un tratto chiaro e preciso.

– Possibile! esclamò egli liberando poi la testa dalla stretta delle sue mani, ed afferrata una di quelle lettere l'accostò vivamente alla candela a farci piovere su la luce gialliccia di quella fiammella. Non c'era da aver dubbio. Come aveva egli fatto a non riconoscer subito una cosa sì evidente? Quella scrittura era affatto identica a quella della lettera strappata che a Gian-Luigi era stata posta nelle fascie quando abbandonato nel pubblico ospizio dei trovatelli, a quella di quell'altro biglietto che da poco tempo Gian-Luigi aveva acquistato e non aveva detto dove, lettera e biglietto che pochi giorni prima soltanto Maurilio aveva potuto minutamente ed attentamente esaminare.

Che voleva dir ciò? Come uno scritto di Valpetrosa era stato messo per contrassegno di riconoscimento a Gian-Luigi infante? Chi era dunque colui? Ed egli, Maurilio, chi era? Gli tornò in mente l'apparizione che aveva avuta al villaggio: ricordò quel segno negativo che aveva creduto intravvedere. Ma allora?.. La conclusione lo spaventò. Che si doveva fare? Una paura ed una smania nello stesso tempo lo afferrarono, di venire in chiaro della verità. Decise cercare di Gian-Luigi, rivedere quegli scritti, confrontarli colle lettere di colui che già non osava più dire suo padre, ed appurata meglio la cosa risolver poi.

Appena fu venuto il mattino uscì del palazzo e corse all'abitazione di Quercia: questi dormiva ancora e il domestico non lasciò entrare Maurilio: gli disse tornasse fra due ore. E giusto due ore o poco più dopo che il giovane era uscito dal palazzo Baldissero, si presentava nell'anticamera di questo Padre Bonaventura, chiedendo urgentemente di parlare al marchese. Il frate veniva senza indugio introdotto e un lungo colloquio aveva luogo fra il fratello della marchesa Aurora e il confessore di Nariccia, imperocchè Padre Bonaventura veniva allora allora dall'aver udito in confessione il vecchio usuraio moribondo.

CAPITOLO XIX

Quando Maurilio tornò alla casa di Gian-Luigi ebbe ancora in risposta dal mariuolo che faceva da domestico, il dottor Quercia non esserci e di tutto quel giorno non potersi vedere perchè gli era giorno troppo solenne, in cui aveva troppo da fare per accogliere chicchessia. Così dicendo il servitore esaminava Maurilio con ostile diffidenza di cui il giovane s'accorse. Il medichino che si sapeva circondato dalla sorveglianza e dallo spionaggio della Polizia aveva raccomandata la massima cautela a tutti i suoi seguaci e dipendenti; quella mattina, quando il domestico avevagli detto che un giovane in ora così mattutina era venuto per parlargli, Gian-Luigi, a cui la descrizione fatta dal servo non aveva fatto pur nascere in mente che quell'individuo dalle guancie pallide, dall'aria cupa e dagli sguardi tenebrosi di cui gli si diceva fosse Maurilio; Gian-Luigi aveva dato ordine lo si mandasse a quel paese s'e' fosse ritornato.

Ma il nostro protagonista insistette cotanto, disse con sì franca e calda asseveranza importantissime ed urgentissime essere le cose che aveva da rivelare a Gian-Luigi, che il finto servo, scosso alquanto dal timore che quello sconosciuto venisse invece a recare qualche avvertimento che potesse giovare, finì per dire:

– Ella afferma che, se il dottor Quercia intendesse il suo nome la vorrebbe ricever subito?

– Sì…

– E che si tratta di cosa onde dipende la sorte del dottore medesimo?

– Sì.

– Or bene, qui non è bugia che di tutto il giorno sarà impossibile rinvenire il dottore, ma le indicherò il luogo dov'Ella lo possa rintracciare; ed è nella casa del signor Benda, di cui egli sposa la figliuola.

– Benda! esclamò Maurilio meravigliato. Il fabbricante di ferro?

– Sì signore, quello presso cui successe pochi giorni sono quel maledetto buscherio.

– E il vostro padrone ne sposa la figliuola?

– Si fa il contratto degli sponsali questa sera medesima.

Maurilio partissi di là perplesso assai, con una nuova cura nell'animo. Era egli amico di molto a Francesco Benda, del quale il generoso animo, le buone qualità, i meriti singolari non gli faceva disconoscere la invida gelosia natagli da poco per la rivalità in amore. Sapeva egli quale onesta e buona famiglia, degna di stima, d'amore e di felicità fosse quella: e conosceva abbastanza delle vicende e delle condizioni di Gian-Luigi per arguire che se da parte dei Benda erasi acconsentito a dargli in isposa la ragazza del loro sangue, era certo per effetto di un inganno in cui il tristo li aveva indotti. Che doveva far egli in presenza di questo avvenimento? Lasciar correre le cose e compire il sacrificio di quella innocente fanciulla e il danno, forse e senza forse, di tutta la famiglia? Glie ne rimordeva la retta coscienza, rampognandolo che avrebbe mancato al dovere di amico e di onest'uomo. Farsi denunciatore del suo compagno d'infanzia? Sentiva in sè qualche cosa eziandio che a ciò ripugnava, come se fosse un tradimento. Si aggirò lungo tempo incerto, travagliato da dubbio tormentosissimo; col sì e col no che nel capo gli tenzonavano. Ora voleva accorrere dai Benda e dir tutto quello che sapeva di Gian-Luigi: ora voleva in ogni modo adoperarsi per avere a tu per tu quest'ultimo e intimargli rinunziasse egli a quel maritaggio, minacciandolo di far conoscere la verità; ora si diceva che quello in fin dei conti non doveva essere il fatto suo, e che il meglio sarebbe stato tacere di tutto, a Gian-Luigi della per sè fatale scoperta circa i due frammenti di lettera da lui posseduti, ai Benda delle cose di colui al quale avevano accordato la mano della fanciulla.

Aveva bisogno d'un consiglio, d'un aiuto, d'una direzione in tanta perplessità, e non sapeva a cui rivolgersi, quando ad un punto in una delle principali strade per la quale andava girelloni, assorto ne' suoi pensieri, senza vedere cosa alcuna nè persona, il fondaco d'un libraio si aprì vivamente, un uomo di età matura, dalle sembianze oneste e schiette ne uscì ratto, e preso per un braccio Maurilio, gli disse con accento di cordialità, d'affetto e insieme di supplicazione:

– La vedo finalmente! La mi avrà da scusare, ma io non la lascio più finchè non m'abbia fatto il favore d'essere venuto nella mia casa, ripresentato alla mia famiglia e aver ricevuto in presenza di questa quelle scuse che ci tengo assaissimo a rinnovarle.

Era il signor Defasi, innanzi alla cui bottega Maurilio era passato senza accorgersi, e il quale però avendo scorto il giovane erasi slanciato sulla strada ad arrestarlo.

Maurilio, così richiamato dalle sue meditazioni alle cose circostanti, guardò il libraio con un'aria smemorata che parve al signor Defasi un'espressione di mala voglia e di rancore.

– Ella me lo ha promesso: riprese con calore il libraio. Si ricorda di quel dì che l'ho incontrata in casa del dottor Quercia? Io le ho domandato il favore d'un abboccamento in cui potessi far ammenda e riparazione del mio grande, del mio grandissimo fallo verso di Lei: ed Ella fu tanto generosa da promettermelo non solo, ma da dirmi che sarebbe venuta Ella medesima a casa mia. Or dunque la prego non mi neghi la grazia di mantenere quella sua promessa. Se la sapesse con che ardore di desiderio l'ho attesa tutti questi giorni passati! come l'attendono con vivezza pari di sentimento, con ansietà d'impazienza i miei figli, tutti i miei, che si sentono in colpa come me verso di Lei, e che ci tengono supremamente a farsene perdonare! Oh! la non sia tanto inesorabile da rifiutarci questa grazia di perdono.

Maurilio avrebbe ceduto ad ogni modo alla richiesta del signor Defasi; non era senza precisa volontà di attenere la promessa ch'egli aveva detto al suo antico principale sarebbesi recato a casa sua appena ritornato dal villaggio; ancor egli ci teneva a ricomparire purgato da ogni accusa e da ogni sospetto in quella casa da cui era stato scacciato come un malfattore; ma a deciderlo più presto ancora concorse il cenno che il libraio fece di passata della circostanza per cui si erano trovati pochi giorni prima in casa di Quercia. Questo nome gli rappresentava appunto tutte quelle perplessità in mezzo a cui s'agitava l'anima sua, riguardo a ciò ch'egli dovesse fare e per sè, e per Gian-Luigi, e pei Benda. Aveva sentito il bisogno d'un onesto consiglio, e nella lontananza di Don Venanzio, dove avrebbe potuto trovare uomo più acconcio di quello che la Provvidenza gli conduceva ora dinanzi, la rettitudine della cui anima traspariva dalla sincerità delle sembianze, del quale egli, per abbastanza lunga consuetudine domestica, conosceva positivamente il cuore generoso, la mente illuminata e la delicata coscienza? Maurilio fece un cenno affermativo del capo senza parlare, ma sorridendo amorevolmente e non senza commozione, e passando innanzi al signor Defasi, entrò nella bottega.

In quel fondaco Maurilio non era entrato più da quel brutto momento in cui ne era stato scacciato come lo udimmo narrare da lui medesimo a Giovanni Selva. Appena entratovi, guardò egli intorno a sè con una curiosità quasi desiosa: parevagli che il trovarsi di nuovo colà potesse far rivivere per lui que' primi tempi di sua dimora in quell'onesta famiglia, che furono i più tranquilli e più felici giorni della sua esistenza, parevagli che tutto avesse da cancellarsi come se non avvenuto quell'avvicendamento di sventure e dolori che aveva dovuto sopportar poi. Che non avrebbe egli dato per tornare davvero a quei momenti colà vissuti allora, i soli di pace che avesse provati mai? Tutto era nel medesimo stato in quel fondaco, tutto al medesimo posto, se non che vi si vedeva di subito un'attività anche maggiore, appariva accresciuta la prosperità dello spaccio.

I figliuoli del signor Defasi, il commesso che già era colà al tempo di Maurilio, ai quali il padre e il principale aveva narrato l'incontro del giovane e le parole fra loro scambiatesi, riconobbero tosto l'antico loro compagno nell'individuo signorilmente vestito cui ora il libraio era corso ad arrestare nella strada e introduceva nella bottega; s'alzarono tutti e gli vennero incontro coll'aspetto raumiliato e pentito di chi ha un grave fallo verso altrui ed è disposto a far di tutto che gli spetti onestamente per farselo perdonare.

Il signor Defasi prese il giovane per mano e presentandolo così agli altri che facevan cerchio, disse con una certa solennità in cui c'era molta commozione eziandio:

– Eccovi qui il signor Maurilio Valpetrosa che noi conoscemmo sotto il nome di Maurilio Nulla; noi abbiamo da riparare verso di lui e da farcene perdonare la maggiore delle colpe che altri possa avere verso un onest'uomo; la peggiore delle offese che gli si possa fare, quella d'una falsa accusa, di una calunnia. Dichiaro io qui in presenza di tutti voi altri che mi ascoltale, e vorrei dichiararlo in presenza di tutto il mondo che, raggirato da ostili relazioni fattemi intorno a lui, ingannato da fallaci apparenze, ho osato sospettare la onestà d'un giovane che in tutto il tempo durante cui rimase presso di me aveva dato prove della maggior rettitudine. La Provvidenza volle molto tempo dopo chiarire il mio sciagurato errore, perchè, facendo poi aggiustare il banco, fu trovata in fondo, scivolatavi non si sa come, quella miserabile somma la cui mancanza dal cassetto aveva originato il dubbio. Io glie ne domando perdono, signor Maurilio, e qui meco glie lo domandano i figli miei: e se il gettarmi in ginocchio innanzi a Lei, e se ogni altra maggior mostra di pentimento e d'umiliazione potesse bastare…

Fece una mossa come se volesse davvero inginocchiarsi; ma il giovane intenerito, l'anima dolcemente sollevata, fu lesto a trattenerlo abbracciandolo; e con ineffabile commozione si lasciò cadere sul seno di lui, mentre due lagrime gli colavano giù per le guancie.

– Grazie, grazie: diss'egli con voce per emozione tremante. La perdono, li perdono tutti; li avevo già perdonati… Avevo io il diritto pure di lamentarmi di questo errore a mio carico? Tutto congiurava contro di me. Io a luogo loro non avrei fatto forse ancora più temerario giudizio e non sarei stato più crudele di quello ch'essi furono per me? Dimentichiamo tutto e perdoniamo.

Si strinsero la mano quanti erano, si abbracciarono con cordiale effusione. Maurilio da quelle mostre d'affetto, da quel puro ambiente d'onestà che lo circondava, sentì l'animo confortato, quasi rallegrato; girò intorno lo sguardo, annasò voluttuosamente quell'odore di stampati in mezzo a cui era vissuto così volonteroso parecchi anni e disse lentamente pronunziando le parole come chi desidera non le sieno leggermente accolte da chi le ascolta:

– E forse avverrà, signor Defasi, ch'io venga fra non molto a domandarle un gran favore; e voglia Ella, come riparazione a quella disgraziata vicenda, essere disposto ad accordarmelo: questo favore sarebbe quello di venire accettato di nuovo qui nella qualità in cui già ci fui un tempo, come se il tempo, aimè poco lieto, che trammezzò non fosse avvenuto.

Il libraio lo guardò con istupore.

– Come! diss'egli; ora ch'Ella ha trovato la sua nobile famiglia…

– A questo riguardo, se la mi consente, devo parlarle ed invocare i suoi consigli. Quando avrà udito la capirà la ragione delle mie parole.

Il signor Defasi, che voleva appunto ripresentare il giovane eziandio alle donne della sua famiglia, si affrettò a condurlo di sopra nella sua domestica dimora. Ci trovarono la madre e la figliuola modestamente ma con graziosa pulitezza vestite, in un modesto salotto da cui però non erano esclusi i comodi della vita, alacremente occupate ai loro donneschi lavori. Maggiore ancora che altrove era in quel salotto l'ambiente di pace, di amorevolezza, di onestà: tutto il pregio della cara vita domestica, le delizie degli affetti famigliari che ha seco per prezioso corteo la donna virtuosa, madre, sposa, figliuola, si trovava colà raccolto, rappresentato in quelle modeste e benigne figure femminili, attempata una, fanciulla l'altra.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 haziran 2017
Hacim:
870 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain