Kitabı oku: «La testa della vipera», sayfa 8
XVI
Quando Alberto ebbe udito i particolari del tentato delitto di Emilio, fu assalito da tanto sdegno, che si pentì di non averlo addirittura strozzato, quel mostro; protestò che ogni maggior vendetta sarebbe stata poca a tanta scelleraggine, e giurò che il domani l'avrebbe ammazzato come un cane.
Allora fu un altro strazio, un altro sgomento per Matilde. Alberto contro Emilio camminava ad una morte sicura: era la felicità, era la vita di tutta la famiglia che venivano tronche. Supplicò essa, scongiurò con lagrime, convulsa, impazzita, perdendo i sensi. Che un essere come Emilio era indegno di avere a fronte un uomo d'onore; che si doveva disprezzarlo, che ben altri doveri più sacri comandavano ad Alberto di astenersi da quel duello; ad Alberto marito e padre. Non pensasse pure a lei… Essa sarebbe morta di dolore senza fallo, nulla le avrebbe impedito di seguirlo nella fossa; ma pensasse ai figli, bambini tutti, che sarebbero rimasti al mondo senz'altro sostegno che uno zio troppo giovane e il nonno vecchio e malaticcio. E ancora, questi avrebbe egli resistito a una sì fiera catastrofe? alla perdita del genero e della figliuola?.. Tutte queste ragioni torturavano il cuore d'Alberto; ma il suo giusto furore era troppo perchè egli potesse accogliere l'idea di lasciare impunita la iniquità di quel traditore.
– E poi, egli soggiunse, credendo con ciò convincere Matilde dell'assoluta necessità d'uno scontro. Tu l'hai udito! Se non vado io da lui, sarà egli che mi chiamerà sul terreno; e vorresti tu ch'io commettessi la viltà di rifiutarmivi?
– No, non è viltà! esclamò la donna. Sarà anzi forza di carattere…
– Egli è capace di provocarmi in modo da farmi spregevole in faccia alla gente…
– Quando la gente sappia…
– Oh no, per Dio!.. La gente non ha da saper nulla. Tutto questo deve rimaner sepolto fra di noi. Lo voglio ad ogni modo… E di resistere alle sue provocazioni no, non me ne sento la virtù. Per quanto ti promettessi, sotto un suo insulto, giuro al cielo! il sangue mi bollirebbe nelle vene… e… e forse mi perderesti tu stessa la stima, se così non fosse.
Matilde si attaccò ad una lieve speranza che le parve si presentasse…
– Or bene, sia… Provocato ancora… capisco… ma se egli non facesse più un passo, se invece si allontanasse…
– È impossibile…
– Chi sa!.. Io pregherò tanto il buon Dio… Se ciò fosse, promettimi che tu non cercherai altrimenti di lui… Oh, promettimelo, per l'amore che ti porto, pel nostro tanto amore… per l'amore de' tuoi figli…
Alberto, commosso, spaventato sopratutto dagli accessi di convulsioni e dagli svenimenti che seguivano gli scongiuri respinti della povera donna, finì per cedere e promettere.
Era giunta l'alba: il vecchio Danzàno, trasportato sul suo letto dal figliuolo e dal genero, continuava nel suo letargo; tutte quelle ore passate di spasimo avevano affaticato all'estremo Matilde; la promessa strappata finalmente al marito era riuscita da ultimo a quietarne alquanto l'animo.
Ella non sapeva come; la sua mente confusa e il cervello stanco non potevano per allora suggerirgliene un modo, ma in nube aveva l'intima speranza che essa avrebbe potuto ottenere l'intento: Emilio s'allontanasse, e tutto fra lui ed Alberto fosse finito. Ai primi raggi del giorno, ella s'addormentò.
Il marito la guardava con profondo intenerimento nell'anima e le lagrime negli occhî.
– Povera donna! egli pensava. Potesse almeno dormire finchè io le ritorni sano e salvo!.. Ma ritornerò io?.. più facilmente no!
Un grande scoraggiamento lo invase, una gran debolezza gli occupò il cuore. Solo con sè stesso, in presenza di quell'amata donna che dormiva, presso a' suoi figli, che dormivano ignari del pericolo che incombeva sulla famiglia, tutto il suo solito coraggio svanì; egli ebbe paura.
Poi tosto un nuovo e maggiore sdegno venne a risollevarne l'animo.
– Ma è possibile, è permesso che uno scellerato riesca a turbare la quiete, a minacciare l'esistenza d'un'onesta famiglia, e che la vita d'un marito, d'un padre, la sorte e l'avvenire di innocenti creature abbiano ad essere in balìa d'un mascalzone qualunque? Dove sarebbe la giustizia di Dio?
L'occhio suo si posò più intensamente affettuoso sul dolce viso della moglie addormentata. Ogni traccia d'inquietudine era passata da quei leggiadri lineamenti, e un lieve sorriso aleggiava sulle labbra semiaperte.
– Sarà meglio, disse Alberto a sè stesso, che io m'allontani mentre essa dorme. Al suo risveglio nuove lagrime, nuove preghiere a trattenermi, commuovermi, indebolirmi. Andiamo.
In quella, Cesare cautamente mise il capo dentro dell'uscio. Alberto gli fe' cenno di non inoltrarsi, e s'affrettò a raggiungere il cognato nell'altra stanza.
– Che cosa c'è? gli domandò.
E Cesare gli porse un bigliettino, che disse essergli stato rimesso allor allora dal servo del Lograve.
Alberto lo prese e lo lesse.
«A Cesare Danzàno, «Le brighe, come quella che ora passa fra me e il signor Nori, mi piace finirle presto. Aspetto senza ritardo Cesare Danzàno colle istruzioni del signor Nori, così che tra un'ora tutto sia finito.»
– Ebbene? domandò Cesare, quando Alberto ebbe letto.
– Ebbene, rispose Alberto, vacci subito, e accetta tutte le condizioni che egli proporrà, quando, s'intende, non sieno più vantaggiose per lui. Io esco subito di casa, e t'aspetterò colla risposta presso al pilone di San Giacomo. Fa di stabilire là vicino, che è luogo isolato, dove a quest'ora non passa anima viva, il terreno dello scontro.
Cesare, di gran malavoglia e con molta agitazione nell'anima, si recò presso Emilio.
Alberto rientrò pian piano nella camera, andò a dare uno sguardo ancora ai figli addormentati, di cui lievemente, ma con crudele strazio del cuore, baciò la fronte, e diede poscia anche a Matilde un bacio leggiero leggiero, in cui però c'era tutta l'intensità del suo affetto; passò nel suo studiolo, dove s'armò d'una rivoltella a sei colpi, carica, e si avviò lentamente verso il pilone, dove aveva dato convegno a Cesare.
Emilio neppure non aveva passato sopra un letto di rose le ore che avevano tramezzato fra la sua uscita dalla villetta e l'invio del suo biglietto a Cesare. L'ira e la umiliazione della sua sconfitta, la vergogna delle ricevute percosse ne avevano ancora accresciuto l'odio e la smania della vendetta. Non aveva chiuso occhio, non aveva neppure provato a gettarsi sul letto, nemmeno seduto non aveva potuto stare; un'agitazione febbrile gli concitava muscoli e nervi, cuore e cervello. Aveva passeggiato su e giù, bestemmiando, imprecando, minacciando, si era compiaciuto di passare in rivista una per una tutte le sue rivoltelle, delle migliori fabbriche inglesi, eccellenti, infallibili tutte nella sua mano esercitata. Quante volte aveva spianato or l'una or l'altra a mira, imaginandosi d'aver a giusta distanza l'odiatissimo avversario, ed aveva fatto un sogghigno di trionfo nella certezza di gettarlo a terra col cranio fracassato!
Il tempo gli tornava lungo e pesante, maledisse gli indici dell'orologio che camminavano così lentamente; mandò un'esclamazione di gioja, quando vide alla fine una striscia bianca all'orizzonte annunziare la venuta del giorno. Scrisse sopra un foglio di carta una dichiarazione (e vedremo presto quale), poi il biglietto che mandò subito a Cesare, e stette aspettando impaziente.
La faccia di Emilio, di color verzigno, corsa dalle righe sanguigne delle graffiature, era così contratta, che a Cesare fece quasi ribrezzo e poco meno che paura.
– Che cosa avete da dirmi? domandò asciuttamente Emilio ritto presso la tavola su cui erano il foglio scritto poc'anzi e le armi.
– Che Alberto accetta qualunque condizione, rispose Cesare, per quanto grave essa sia, purchè non a svantaggio d'uno degli avversarî.
– Va bene. Ci batteremo subito.
– È appunto l'intenzione di mio cognato. E anzi questi è già andato ad aspettare presso il pilone di San Giacomo.
– Benissimo: il luogo è adattissimo e ci batteremo colà. Sentite! Perchè le armi sieno uguali, voi sceglierete fra tutte queste, che sono compagne, quella che vi parrà la migliore, e la porterete a… al vostro primo. Armato ciascuno di una di queste rivoltelle a sei colpi, ci metteremo, lui al pilone, io al ponte del torrente. Di là, a un segnale che darete voi, ci cammineremo incontro colla facoltà di sparare i nostri sei colpi quando e come ci piacerà, e di avanzarci tanto che, se nessuno cade, arriviamo a metterci la canna al petto e sparare a bruciapelo. Se uno dei due, soggiunse col suo selvaggio sogghigno, potrà tornare a casa co' suoi piedi sarà stato ben fortunato… Vi va?
Cesare, perplesso, confuso, con un grande turbamento nell'animo e nel cervello, stette lì, senza sapere che rispondere. Egli non era abbastanza esperto, e non aveva bastante freddezza di mente per vedere come un gran vantaggio vi fosse per Emilio in quei patti. La distanza in cui si dovevano porre i duellanti era fuori del tiro delle rivoltelle, camminando l'uno verso l'altro gli avversarî sarebbero entrati poi nel campo del tiro; ora Emilio, dall'occhio praticissimo a misurare le distanze, appena Alberto sarebbesi trovato al punto da poter essere colpito, mercè la sua sicurezza di mira, l'avrebbe fulminato; mentre Alberto, se avesse pure voluto sparar prima, non avrebbe fatto che sciupare il suo colpo.
– E voi? riprese Emilio, dopo avere aspettato un minuto. Avete pur detto che… colui avrebbe accettato ogni condizione!
– Sì, è vero, balbettò Cesare, ma…
E l'altro, senza lasciarlo continuare:
– Non avremo altro testimonio che voi. Credo che piaccia anche al vostro rappresentato che non ci ficchino il naso persone estranee. E siccome, se mai uno di noi n'esce salvo, può avere delle noje dalla giustizia, io ho pensato di redigere questa dichiarazione, cui ciascuno di noi si metterà in tasca, e che salverà da ogni fastidio il superstite. Sentite!
E lesse:
«Per motivi miei particolari, che saranno sempre un segreto per tutti, e che prego tutti di non volere investigare, io mi trovo spinto a uscire di questa vita. Dichiaro che nessuno deve incolparsi della mia morte, e prego di perdonarmi coloro a cui questa sarà un dolore.»
– Il signor Nori scriverà questa dichiarazione tale e quale, ci metterà la data colla sua firma, come ho fatto io, e la terrà in tasca al pari di me. Il cadavere di colui che cadrà sarà lasciato lì sul posto, e quando sarà raccolto presso la giustizia questo scritto farà il suo effetto.
Cesare stette un po' a pensarci, penosamente imbarazzato.
– E se ci rimanete tutt'e due?.. disse poi.
– Eh, allora, rispose Emilio col suo solito sogghigno, tu che sarai il solo superstite cercherai il modo d'aggiustarla, e il fisco non potrà d'altronde molestare nessuno dei due.
Cesare scosse tristamente il capo.
– A una cosa simile non si è affatto pensato, e io non so se Alberto sia disposto ad acconsentire. Bisogna assolutamente ch'io gliene parli.
Emilio crollò impazientemente le spalle.
– O mio Dio! che scrupoli fuor di luogo. Il signor Nori dev'essere contento ancor egli di cosa che lo mette al sicuro da una responsabilità piuttosto grave… Ma sia come volete… Per non perder troppo tempo, facciamo così: portate la dichiarazione al signor Nori; s'egli non affaccia nessuna difficoltà, la ricopia, la firma, e se la ritiene. Se rifiuta, voi verrete subito a dirmelo, e io allora lo inviterò a passare la frontiera ed andarci ad ammazzare in Isvizzera. Sono le sei: aspetterò fino alle sei e mezza: se non siete venuto, vuol dire che mi aspettate senz'altro al luogo del convegno, e io mi vi recherò sollecitamente.
– Va bene, rispose, accennando ad avviarsi Cesare, il quale non vedeva l'ora di esserne fuori.
– E non prendete copia della dichiarazione?
– Ah! è vero.
Cesare sedette al tavolino per iscrivere; ma la mano gli tremava talmente che le parole gli riuscivano sgorbi poco intelligibili.
– Aspettate che ve la scrivo io più in fretta, disse Emilio, ghignando a suo modo.
E in due minuti, con mano ferma egli ebbe scritto quelle righe, che consegnò a Cesare.
– E intanto, soggiunse, potete prendere l'arma pel vostro mandante.
Il cognato d'Alberto ne esaminò due o tre, tanto per avere l'aria di fare una scelta; poi ne prese una che si mise in tasca.
– Ricordatevi! gli gridò Emilio, mentre Cesare stava per varcare la soglia. Se non siete tornato prima, io alle sei e mezza sarò al ponte; il signor Nori dovrà trovarsi al pilone. Scorretto chi ritarda; vile chi manca! A rivederci.
E volgendo le spalle a Cesare che partiva, egli rientrò nel salotto.
Cesare s'affrettò a raggiungere il cognato che già stava aspettando al pilone. A tutta prima Alberto non trovò obiezioni da fare alle proposte dell'avversario, e parve anche a lui che quello della dichiarazione fosse un prudentissimo partito per tenere nascosto alla gente il dramma domestico, per togliere dalle peste il superstite dei duellanti. Ma dove andare a scriverla quella dichiarazione? A casa no, perchè sarebbe andato incontro a quella scena di separazione straziante da Matilde, ch'egli voleva assolutamente evitare. La casa più vicina, di cui si potesse prevalere, era quella del parroco: Alberto decise di correre colà a preparare il documento.
– Tu rimani qui, disse al cognato. Spero fare in tempo da tornarmene prima che quell'altro arrivi; ma se mai dovessi tardare, tu sarai qui a spiegargli la mia assenza e assicurarlo che non avrà molto da attendere.
Così fu fatto. Cesare rimase di sentinella al pilone, e Alberto s'avviò di buon passo verso la casa del parroco. Giunto colà, dovette aspettare un poco prima che la serva, allor allora alzatasi, venisse ad aprirgli; poi, quando fu venuta, fatte le cento meraviglie per quella visita così mattutina, la buona donna disse che il suo padrone era ancora a letto, anzi ella credeva dormisse, ma che il signor Nori avesse la bontà d'aspettare, ed ella sarebbe andata tosto ad avvertire il padrone, svegliandolo, se occorreva. Alberto non ebbe poco a dire per farle comprendere che era inutile svegliare il sor prevosto, al quale egli non aveva nulla da comunicare, che desiderava solamente avere un pezzo di carta, penna e calamajo per iscrivere quattro righe per una certa sua bisogna di premura, la qual cosa egli avrebbe potuto fare senza disturbare nessun altro, quando essa, la serva, lo introducesse un momento nello studiolo del padrone.
Era quindi passato più d'un quarto d'ora, quando Alberto potè sedere alla scrivanìa parrocchiale e cominciare a scrivere: ma rileggendo così più attentamente, come richiede l'azione del ricopiare, quella dichiarazione, Alberto non la trovò più così accettabile, anzi gli parve che e la scritta in sè stessa, e i termini in cui era redatta, non convenissero affatto.
– Tutti sanno la felicità di cui godo, pensò, tutti conoscono l'amore, la pace che regnano nella mia famiglia, le fortunate condizioni che ci permettono un'agiata esistenza. Quali ragioni particolari potrei avere da odiare la vita che tanto mi sorride? O non sarò creduto, o si giudicherà, che questa mia felicità è un inganno e che io la smaschero colla più orribile smentita. Getterò ancora una nota di biasimo alla mia adorata Matilde, agli adorati figli miei. Insieme al crudele dolore che cagionerò loro, lascerò ad essi per ultimo addio un rimprovero che procurerà a quei cuori amorosi un immeritato rimorso. E ciò per salvare dagli impicci quel miserabile? Oh, no, mai, mai!
S'alzò risoluto, stracciò in minutissimi pezzi e il foglio che gli aveva rimesso Cesare e quello che egli aveva già scritto, e fece per partire: ma ecco sulla soglia dello studiolo medesimo fermarlo, sopraggiungendo, il parroco.
Alla serva era parso un troppo gran fallo lo avere introdotto in casa un signore di quella sorte e non avvisarne il padrone, cui ella sapeva aver tanta deferenza per quel signore: e il parroco s'era affrettato a vestirsi per correr giù a complimentare il mattiniero suo parrocchiano e offrirgli i suoi servigî. Alberto dovette impiegare dieci buoni minuti per dire al buon prete quel ch'era venuto a fare e che aveva già fatto e per cui lo ringraziava, e se ne partiva senz'altro, avendo un affare di premura da sbrigare. Ma sì! Alla virtù capitale del parroco pareva una colpa il lasciare partire il signor Nori così a bocca asciutta: ed ecco offrirgli caffè e rosolî e ogni fatta di bibite, e ripetere e trattenerlo con quell'insistenza che dai campagnuoli è creduto debito di cortesia, così che quando Alberto potè liberarsene e lasciare la canonica, guardato l'orologio, vide che le sei e mezza erano passate da cinque minuti.
Corse al luogo del convegno e respirò vedendovi Cesare solo. Emilio non s'era ancora veduto.
– Or bene, va tosto da lui, disse Alberto affrettatamente al cognato, e digli che della sua dichiarazione io non ne voglio assolutamente sapere. Preferisco andare a battermi in Isvizzera. E riportagli la sua rivoltella, che non me ne voglio servire. Ne ho una anch'io di sei colpi, e preferisco d'usare la mia. Va, e fa presto; ti aspetto sempre qui.
Cesare partì di buon passo e Alberto si diede a passeggiare su e giù dal pilone al ponte, trovando eterni i minuti che passavano. E ce ne passarono in verità molti più di quello che Alberto si aspettasse, tanto che l'orologio, dicendogli trascorsa omai mezz'ora, smarrita la pazienza, egli stava per abbandonare il posto e andare a vedere che cosa fosse successo, quando vide Cesare che tornava correndo: ma egli era solo.
– E così? gli gridò Alberto appena Cesare fu a un punto dove gli arrivava la voce. Che cosa risponde?
Ma Cesare, affannato, con segni vibrati che supplivano alle parole, cui per lo strafiato non poteva profferire, gli fece intendere che qualche cosa di nuovo era capitato, e qualche cosa di grosso, per cui egli era tutto sossopra.
– Che cosa c'è? Che cos'è stato? domandò Alberto ansiosamente.
– Ah! vieni, vieni subito, gli disse Cesare. Matilde ha preso male.
– Matilde! esclamò Alberto turbatissimo.
– Sì. Ha delle convulsioni… del delirio… dice parole che non si capiscono… ti chiama…
Alberto si mosse tosto con impeto: ma poi si fermò.
– E quell'altro?
– Ah! non l'ho visto.
– E se viene?
– Non credo che verrà.
– Perchè?
Vieni, vieni ti racconterò.
E andando tutt'e due di buon passo verso casa, Cesare raccontò come, arrivato alla vista della villetta e del palazzotto, aveva visto Matilde che vacillante stava per entrare in casa, quando, assalita da subito malore, cadeva sulla soglia… Egli era corso a sollevarla, e, ajutato dalla cuoca, che a forza di chiamare aveva fatto accorrere, l'aveva trasportata sul letto svenuta. Là, pei soccorsi prestatile, dopo un poco Matilde era tornata alla vita, ma non in cognizione, perchè vaneggiava con isconnesse, incomprensibili parole, chiamando tratto tratto con istraziante voce di preghiera il marito. Cesare aveva pensato necessario il venire ad avvertire Alberto senza indugio. Quanto a Emilio, aggiungeva, dovergli essere sopravvenuto qualche cosa perchè uscendo di casa egli aveva udito il domestico mandare esclamazioni di meraviglia e di spavento e domandare ajuto, ma Cesare affermava di aver troppa premura di venire dal cognato per fermarsi a chiedere che cosa fosse avvenuto.
I due cognati arrivarono correndo alla villetta e furono di balzo nella camera di Matilde.
Alla voce del marito che la chiamava, la giacente si riscosse, aprì gli occhî, la luce dell'intelligenza tornò a brillare in essi; ed esclamando con immenso affetto: – Ah! mio Alberto, mio Alberto! essa gli gettò le braccia al collo e ruppe in un pianto dirotto da cui ebbe subito grandissimo sollievo.
XVII
Emilio, quando Cesare si fu partito da lui, ordinò al servo di andare al villaggio a far allestire il carrozzino, perchè fra un'ora al più, egli sarebbe partito, poi, rimasto solo in casa, egli finì di preparare una sua valigetta, si pose in tasca tutti i denari e i valori, e visto che mancavano appena dieci minuti alle sei e mezza, prese sulla tavola del salotto la rivoltella che già aveva sceverata dalle altre, e si mosse per uscire. Ma sulla porta s'incontrò in una donna che entrava impetuosa. Era Matilde.
Svegliatasi poco dopo la partenza d'Alberto, la misera donna stette dapprima in un momento di fortunato oblìo di quanto era avvenuto; poi la mente ancora confusa travide la funesta verità, ma annebbiata ancora, ed essa si domandò se era un angoscioso sogno che avesse fatto, oppure una crudele realtà. Aimè! il dubbio non durò a lungo. Il sentimento della brutta realtà invase ad un tratto, quasi con violenza, l'animo della poveretta; essa sorse a sedere sul letto: gettandosi le mani alla fronte e chiamando con voce tremula per angoscia e paura: Alberto! Alberto! Nessuno rispose. Matilde volle scendere dal letto; ma si sentì così fiaccata, che si persuase non avrebbe potuto reggersi in piedi. Afferrò il cordone del campanello e suonò. Le altre mattine Lisa era sollecita ad accorrere, quel giorno nessuno venne. Matilde tornò a suonare parecchie volte con crescente forza finchè riuscì a scuotere la cuoca nella lontana cucina e la fece accorrere al letto della padrona.
Questa apprese così che la Lisa e Battista non si trovavano da nessuna parte, che all'alba era venuto il servo del signor Lograve con un biglietto pel signor Cesare e che poco dopo i cognati erano usciti insieme. Dov'erano andati? – Ah! la cuoca non lo sapeva, perchè dalla sua cucina non aveva potuto vedere da qual parte si fossero diretti. Matilde mandò un gemito. Era certo che la provocazione era venuta con quel biglietto di Emilio, e che il duello doveva aver luogo, forse succedeva in quel momento, forse già era avvenuto!
Questa idea, questa terribile paura le ridiede un poco di forza. Si buttò giù dal letto, si fece ajutare dalla cuoca a vestirsi, che da sola non avrebbe potuto. E intanto la sua testa faticosamente, penosamente lavorava.
Maledizione a quel sonno che l'aveva tenuta inerte, mentre avrebbe potuto agire. Agire? Ma come? Che cosa avrebbe essa potuto fare per impedire il passo fatto da Emilio? Le pareva che parlando con Alberto un'idea per ciò le si fosse affacciata: ora quest'idea di cui sentiva pure come una traccia nel cervello, si rifiutava di lasciarsi rievocare, appariva appena, vaga, inafferrabile e svaniva in un bujo che faceva smarrirsi quel povero spirito doloroso. Ma e ora che cosa era da farsi? forse si battevano… Dove?.. Oh saperlo!.. Bisognava scoprirlo, indovinarlo… Ella si sarebbe gettata là in mezzo a loro, avrebbe fatto riparo di sè al padre de' suoi figli. No, non l'avrebbe lasciato ammazzare. Ma dove andare? e sola, svigorita come si sentiva? Se suo padre potesse ajutarla!.. Ma sarebbe stato necessario apprendere tutta la brutta verità a quel povero vecchio malaticcio, che ne avrebbe chi sa quanto sofferto! Matilde ricordò a tal punto il soporifero dato al convalescente da Emilio, e sentì rimorso di non averci pensato prima. Si trascinò nella camera di suo padre. Questi svegliavasi appunto allora; disse aver dormito sodo, ma di un sonno pesante che parevagli averlo stancato più che sollevato, e che gli aveva lasciato il capo confuso, il cervello come vuoto, la bocca allappata, lo stomaco oppresso.
Matilde si convinse viepiù che da quel poveretto non poteva sperare ajuto nessuno, e che era obbligo di carità il tacergli affatto ogni cosa. Si tolse, con grande pena di lui, dal letto del padre e passò nella camera dei figli che dormivano ancora tutti tranquillamente: la loro vista le fece sentire più forte, più imminente la necessità in lei di agire. Per la finestra aperta vide nel salotto a pian terreno del palazzotto Emilio presso alla tavola su cui stavano parecchie rivoltelle. Ah, fortuna! Egli era ancora in casa; s'era ancora in tempo. Matilde si gettò sulle spalle il primo mantelletto che le capitò sotto mano, e corse al palazzotto.
– Tu qui, Matilde! esclamò Emilio, arretrandosi d'un passo per lo stupore.
Matilde non rispose; entrò, prese a un braccio Emilio e con forza superiore alla sua solita, che la disperazione dava alle sue membra un poco prima sfinite, lo trasse nel salotto, dove stette innanzi a lui, ansimante, premendosi colla mano il cuore che le batteva da rompersi.
– Che cosa vuoi? le chiese ruvidamente Emilio, che sentiva ancora al cospetto di lei la vergogna dei trattamenti subiti dal marito di essa.
– Tu vai ad assassinare Alberto, diss'ella con voce soffocata.
Un infernale sogghigno di trionfo si disegnò sulle labbra di Emilio.
– Vado a vendicarmi!
Il petto oppresso da una inesprimibile angoscia, la gola serrata da non poter parlare, Matilde strinse forte il braccio di lui, e, scuotendo il capo, fiammeggiando dagli occhî, non potè pronunziare che un monosillabo:
– No! no!
Emilio liberò violentemente il suo braccio.
– Ah no? proruppe coll'impeto de' suoi pessimi istinti, della sua furente passione, del suo malvagio talento. Ah no?.. E chi me lo impedirà?.. Tu forse?.. Puoi tutto su di me, fuor che questo: tu la cagione dei miei più forti dolori, della infelicità della mia vita… Ti ricordi quando sono venuto a pregarti, a metterti ai piedi l'anima mia, e tu mi hai crudelmente con tanto disprezzo respinto?.. Tu potevi far di me non solo un uomo felice, ma buono, migliore di tanti a cui il difetto di malvagità non è che un difetto di passione e d'intelligenza; hai voluto invece rendermi disgraziato, invidioso, odiatore di tutto e di tutti… e della vita, e fin di me stesso… Pensa qual odio si è accumulato in me contro chi si godeva quel bene ch'io non potei conseguire! Te lo dissi allora: guai se ad alcuno dài quell'amore che a me neghi così oltraggiosamente: tu mi rispondesti che non mi temevi, che l'uomo da te amato bene avrebbe saputo difendersi dall'odio mio… Ebbene, vediamolo!.. Si difenda! Vita contro vita; egli, sorretto dal tuo amore, io dal mio odio; a lui, se vincitore, in premio il tuo amplesso; a me le tue lagrime.
Mentre egli parlava, in Matilde s'era venuta un poco quietando l'agitazione del sangue e dell'animo; essa potè a sua volta trovar le parole, e cominciò a dire con voce debole, ma vibrante di profonda emozione:
– Se il tuo odio volesse appagarsi solamente delle mie lagrime e del sangue dell'uomo che tu odii, il che vuol dire anche del mio, perchè a quell'uomo io non sopravviverei…
Emilio fece un atto fra d'ira, di minaccia e di crudeltà.
– No, non gli sopravviverei, ripetè essa con più forza. Se tu ti soddisfacessi della morte di lui, e mia, sarebbe un'opera iniqua, scellerata, ma che si può comprendere. Il tuo odio invece vuole colpire, più ancora di quelli che odii, degli innocenti che nulla ti hanno fatto, e tale che anzi può vantare titoli alla tua riconoscenza…
– Chi? domandò aspramente Emilio.
– Chi?.. E i miei figli?.. E mio padre?
– I tuoi figli?.. Sono sangue suo; li odio al pari di lui.
– E mio padre?.. Egli ti fu amorevole padrino, ti difese nell'infanzia…
Emilio la interruppe.
– Ha fatto troppo poco, perchè io ora sacrifichi per lui quell'unica cosa che mi rimane cara al mondo, la mia vendetta, perchè io vada a farmi uccidere…
– Uccidere?.. Ah no!
– E che cos'altro sei tu venuta a domandarmi, se non questo? Che io vada ad espormi alle palle di colui senza cercare da parte mia d'offenderlo; in breve, che mi lasci ammazzare come un stupido… chè non sarei altro.
– Ti domando invece di non andarci, disse in fretta Matilde.
– Come? interrogò Emilio, quasi non avesse capito.
– Sì, rispose ella, ti domando di non andare a questo orribile duello.
– Ma sei matta!.. Mi domandi ancora peggio di quel che credevo… Che tu, sapendomi sicuro del mio colpo, fossi venuta a pregarmi di restituirtelo azzoppato, ma vivo, colui, è una temerità a cui non posso far buon viso, ma che posso tollerare: ma venirmi a dire che, per salvare lui, io mi macchii d'una viltà…
– Nessuno ti potrebbe accusare.
– E io?.. E lui?.. Oh donne, donne, che credete tutto il mondo debba cedere ai vostri desiderî!.. Ma tu hai dunque obliato quanto è successo, quanto hai visto tu stessa cogli occhî tuoi?.. Io sono stato assalito brutalmente, con prepotenza percosso nel modo più oltraggioso, tanto che nessuno, fosse pure un santo, lo potrebbe perdonare; ne richiedo, com'è mio diritto, la riparazione, e quando questa mi si dovrebbe dare, io mancherei, fuggirei?.. Oh per Dio!.. tu hai l'audacia di domandarmi addirittura l'impossibile.
– Emilio! Emilio! esclamò Matilde stringendo le mani quasi in atto di preghiera, e mettendo nella sua voce una intonazione più calda. Nessuno, ti ripeto, potrebbe accusarti… Io ti difenderei… Ogni anima bennata… che dico?.. Tutti, tutti riconoscerebbero in questo un atto di generosità, un atto di cui la tua anima deve pure essere capace… Pensa che avresti una riconoscenza eterna in me, ne' miei figli, che ti benediranno e pregheranno per te tutta la vita… Oh, ci deve pur essere nel tuo cuore una fibra che si commova al pensiero di essere benedetto come il salvatore d'una famiglia!.. Pensa al tempo in cui ti sarà sopraggiunta la vecchiaja, in cui s'accosterà il giorno della morte. Non sai tu che il pensiero del male che avrai commesso ti affannerà le ultime tue ore? che vedrai i fantasmi delle tue vittime apparirti ad imprecare e maledire? Invece il ricordo della generosa azione ch'io ti domando, ti sarà di conforto e di speranza!..
Parve a questo punto a Matilde di vedere dileguato dal volto del cugino quel sogghigno scettico e ironico con cui egli aveva ascoltato fin allora le parole di lei e un'ombra di commozione manifestarglisi negli sguardi. Era invece che la emozione della giovane donna dava alla bellezza di lei nuove attrattive, nuovo splendore, e, a dispetto di tutto, ridestavasi in lui la fiamma della concupiscenza.
Essa, illusa, gli si fece più presso, gli prese le mani; pensando ai figli, la madre superò ogni ripugnanza, ogni rancore, ogni disprezzo per quell'uomo, e con voce piena di supplicazione, quasi d'affetto, continuò:
– O Emilio!.. Per tutto quello che c'è di più sacro sulla terra, per l'anima tua, se tu possa esser lieto e felice, non rigettare una povera madre che t'implora… Io sono stata sdegnosa e superba teco… Vuoi che mi umilii a te dinanzi? Eccomi a' tuoi piedi! Abbi pietà di me, abbi pietà di mio padre, abbi pietà de' figli miei!