Kitabı oku: «Il Killer Dell’orologio»
IL KILLER DELL’OROLOGIO
(UN MISTERO DI RILEY PAIGE—LIBRO 4)
B L A K E P I E R C E
TRADUZIONE ITALIANA
A CURA
DI
IMMACOLATA SCIPLINI
Blake Pierce
Blake Pierce è l’autore della serie di successo I misteri di RILEY PAIGE, composta da gialli ricchi di suspense: IL KILLER DELLA ROSA (libro #1), IL SUSSURRATORE DELLE CATENE (libro #2), OSCURITA’ PERVERSA (#3) e IL KILLER DELL’OROLOGIO (#4). Blake Pierce è anche l’autore della serie I misteri di MACKENZIE WHITE.
Avido lettore, e da sempre ammiratore, dei romanzi gialli e dei thriller, Blake apprezza i vostri commenti: pertanto siete invitati a visitare www.blakepierceauthor.com per saperne di più e restare in contatto con l'autore.
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LIBRI DI BLAKE PIERCE
I MISTERI DI RILEY PAIGE
IL KILLER DELLA ROSA (Libro #1)
IL SUSSURRATORE DELLE CATENE (Libro #2)
OSCURITA’ PERVERSA (Libro #3)
IL KILLER DELL’OROLOGIO (Libro #4)
I MISTERI DI MACKENZIE WHITE
PRIMA CHE UCCIDA (Libro #1)
I MISTERI DI AVERY BLACK
IL KILLER DI COLLEGIALI (Libro #1)
INDICE
PROLOGO
CAPITOLO UNO
CAPITOLO DUE
CAPITOLO TRE
CAPITOLO QUATTRO
CAPITOLO CINQUE
CAPITOLO SEI
CAPITOLO SETTE
CAPITOLO OTTO
CAPITOLO NOVE
CAPITOLO DIECI
CAPITOLO UNDICI
CAPITOLO DODICI
CAPITOLO TREDICI
CAPITOLO QUATTORDICI
CAPITOLO QUINDICI
CAPITOLO SEDICI
CAPITOLO DICIASSETTE
CAPITOLO DICIOTTO
CAPITOLO DICIANNOVE
CAPITOLO VENTI
CAPITOLO VENTUNO
CAPITOLO VENTIDUE
CAPITOLO VENTITRE
CAPITOLO VENTIQUATTRO
CAPITOLO VENTICINQUE
CAPITOLO VENTISEI
CAPITOLO VENTISETTE
CAPITOLO VENTOTTO
CAPITOLO VENTINOVE
CAPITOLO TRENTA
CAPITOLO TRENTUNO
CAPITOLO TRENTADUE
CAPITOLO TRENTATRE'
CAPITOLO TRENTAQUATTRO
CAPITOLO TRENTACINQUE
CAPITOLO TRENTASEI
CAPITOLO TRENTASETTE
CAPITOLO TRENTOTTO
CAPITOLO TRENTANOVE
CAPITOLO QUARANTA
CAPITOLO QUARANTUNO
CAPITOLO QUARANTADUE
CAPITOLO QUARANTATRE’
CAPITOLO QUARANTAQUATTRO
CAPITOLI QUARANTACINQUE
CAPITOLO QUARANTASEI
CAPITOLO QUARANTASETTE
CAPITOLO QUARANTOTTO
PROLOGO
L’uomo sedeva nella propria auto, in preda alla preoccupazione. Sapeva di dover fare presto. Quella notte era importante mantenere tutto sotto controllo. Ma la donna sarebbe comparsa lungo quella strada alla sua solita ora?
Erano le undici di sera e gli rimaneva poco tempo.
Ricordò la voce che aveva sentito rimbombare nella testa, prima di arrivare lì. Era quella del nonno.
“Sarà meglio che non ti sia sbagliato sui suoi piani, Scratch.”
Scratch. All’uomo nell’auto non piaceva quel nomignolo. Non era il suo vero nome. Era quello dato al diavolo, secondo un racconto popolare. Per il nonno, lui era sempre stato un “seme cattivo.”
L’uomo l’aveva chiamato Scratch più a lungo di quanto riuscisse a ricordare. Sebbene tutti gli altri lo chiamassero col suo vero nome, Scratch era rimasto impresso nella sua mente. Odiava suo nonno. Ma non riusciva a scacciarlo dalla propria testa.
Scratch si allungò e si schiaffeggiò il cranio per diverse volte, provando a cancellare quella voce.
Alla fine si fece male e, per un istante, riuscì a provare un senso di calma.
Poi udì la risata soffocata del nonno riecheggiare lì da qualche parte. Ora era un po’ più debole, quantomeno.
L'uomo tornò a guardare ansiosamente l'orologio: le undici erano passate da pochi minuti. Sarebbe stata in ritardo stasera? Sarebbe andata altrove? No, non era affatto da lei. Aveva registrato i suoi movimenti per giorni. Era sempre stata una donna puntuale, molto legata alla propria routine.
Se solo lei avesse compreso quanto ci fosse in ballo. Il nonno lo avrebbe punito in caso di fallimento. Ma c’era molto di più. Per il mondo intero stava scadendo il tempo e lui aveva un’enorme responsabilità, che gli pesava enormemente.
Apparve la luce dei fari di un'auto, in lontananza, lungo la strada, e l'uomo sospirò di sollievo. Era certamente lei.
Quella strada di campagna conduceva soltanto a poche abitazioni. Era spesso deserta a quell’ora, fatta eccezione per la donna che tornava dal lavoro alla casa, in cui era in affitto.
Scratch aveva fatto inversione con l’auto, per trovarsi di fronte a quella della donna, e si era fermato proprio nel bel mezzo di quella piccola strada sterrata. Era fuori, con mani tremanti, e fingeva di controllare nel cofano dell'auto con una torcia, sperando che l'inganno funzionasse.
Il cuore batté forte, mentre l’altro veicolo incrociava il suo.
Fermati! implorò silenziosamente. Per favore, fermati!
Pochi istanti dopo l’altra auto si arrestò a breve distanza.
Trattenne un sorriso.
Scratch si voltò e guardò verso le luci. Sì, era la sua piccola auto trasandata, proprio come aveva sperato.
Ora, doveva soltanto attirarla verso di lui.
La donna abbassò il finestrino; l'uomo guardò nella sua direzione, sfoggiando il suo sorriso più gradevole.
“Credo di essere rimasto bloccato” esclamò.
Puntò brevemente i fari sul volto dell'interlocutore. Sì, era senz’altro lei.
Scratch notò che la donna aveva un'espressione aperta e ricca di fascino. Ma soprattutto, era molto magra, il che si sposava alla perfezione con il suo scopo.
Era un peccato, quello che stava per farle. Ma come il nonno diceva sempre: “E’ per un bene più grande.”
Era vero, e Scratch lo sapeva. Se solo la donna avesse potuto comprendere, forse si sarebbe persino sacrificata. Dopotutto, il sacrificio era una delle migliori caratteristiche della natura umana. Lei doveva essere contenta di servire a tale scopo.
Ma l’uomo sapeva che non poteva attendersi tanto. Le cose sarebbero diventate violente e caotiche, proprio come accadeva sempre.
“Che problema ha?” la donna chiese.
L'uomo notò qualcosa di affascinante nel suo modo di parlare, senza riuscire ad individuarlo compiutamente.
“Non lo so” rispose laconicamente. “Si è appena spenta.”
La donna sporse la testa fuori dal finestrino, consentendogli di guardarla dritto negli occhi. Il suo volto lentigginoso era incorniciato da riccioli rossi, vivace e sorridente. Non sembrava turbata da quell'imprevisto.
Ma si sarebbe fidata abbastanza da scendere dall’auto? Probabilmente si, almeno stando a come si erano comportate le altre donne.
Il nonno gli ripeteva sempre quanto lui fosse orribilmente brutto ed aveva finito per essere d'accordo. Ma sapeva che gli altri—specialmente le donne—lo trovavano piuttosto gradevole da guardare.
Poi, gesticolò verso il cappuccio aperto. “Non so nulla di auto” gridò.
“Nemmeno io” la donna rispose.
“Ecco, forse insieme possiamo cercare di capire che cosa c’è che non va” le disse. “Le dispiace, se facciamo un tentativo?”
“No, affatto. Ma non si aspetti che io sia di grande aiuto.”
Lei aprì lo sportello, scese dall’auto e si diresse verso di lui. Sì, tutto stava procedendo alla perfezione. L’aveva attirata fuori dalla propria auto. Ma il tempo era ancora un fattore essenziale.
“Diamo un'occhiata” gli disse, avvicinandosi e guardando il motore.
In quell'istante lui capì che cosa apprezzava della sua voce.
“Ha un accento interessante” osservò. “E’ scozzese?”
“Irlandese” fu la gentile risposta. “Sono qui da soltanto due mesi, ho ottenuto la carta verde, così da poter lavorare qui con una famiglia.”
Le sorrise. “Benvenuta in America”.
“Grazie. L’adoro già.”
Lui indicò verso il motore.
“Aspetti un attimo” disse. “Di che cosa pensa si tratti?”
La donna si abbassò per dare un’occhiata più approfondita e l'uomo ne approfittò per lasciare cadere il cofano sulla sua testa con un colpo.
Lo sollevò poi, sperando di non doverla colpire di nuovo. Per fortuna, era svenuta e giaceva inerte distesa sul motore, a faccia in giú.
Si guardò intorno. Non c’era nessuno nei paraggi. Nessuno aveva assistito alla scena.
Tremò per la gioia.
La prese tra le braccia, notando che il volto e la parte anteriore del suo vestito ora erano impregnati di grasso.
La donna era leggera come una piuma.
Girò intorno alla sua auto, aprì lo sportello e la depose sul sedile posteriore.
Era certo che sarebbe ben servita al suo scopo.
*
Non appena Meara cominciò a riprendere conoscenza, si sentì quasi aggredita da dei rumori assordanti; sembrava che intorno a lei rimbombasse ogni sorta di suono che si potesse immaginare: gong, campanelli, cinguettii e melodie assortite, che parevano provenire da una dozzina di carillon. Tutti quei suoni sembravano ostili.
La donna aprì gli occhi, senza però riuscire a concentrare lo sguardo su qualcosa. La testa le scoppiava quasi per il dolore.
Dove mi trovo? si chiese.
Era da qualche parte a Dublino? No, era in grado di ricostruire un po’ di quadro cronologico. Era arrivata lì due mesi fa e aveva subito cominciato a lavorare. Era senz’altro in Delaware. Con uno sforzo, ricordò di essersi fermata ad aiutare un uomo con la sua auto. Poi, qualcosa era accaduto. Qualcosa di brutto.
Ma che cos’era quel posto, con tutti quegli orribili rumori?
Si rese conto consapevole del fatto che era trasportata come un pacco. Sentì la voce dell’uomo che la stava trasportando, che parlava al di sopra del frastuono.
“Non preoccuparti, siamo arrivati qui in tempo.”
Gli occhi cominciarono a mettere a fuoco la zona circostante. Vi era un’incredibile quantità di orologi di ogni grandezza, forma e stile concepibili: c'erano imponenti pendoli, altri orologi più piccoli, alcuni dei quali a cucù; ne notò altri dotati di piccole serie di uomini meccanici. Orologi ancora più piccoli erano stipati su delle mensole.
Tutti stanno scoccando l’ora, comprese.
Ma in tutto quel caos sonoro, non riusciva a decifrare l’esatto numero di gong e campanelli.
Voltò la testa, per vedere chi la stava trasportando. L'uomo la guardò. Sì, era quello che le aveva chiesto aiuto. Era stata una sciocca a fermarsi per lui. Era caduta nella sua trappola. Ma che cosa le avrebbe fatto?
Mentre il suono degli orologi cessava, si accorse che non riusciva a tenere gli occhi aperti. Si sentì svenire.
Devo restare sveglia, pensò.
Avvertì poi un tintinnio metallico, e si accorse di essere stata delicatamente deposta su una superficie rigida e fredda. Ci fu un altro tintinnio, seguito da passi, e infine una porta si aprì e si chiuse. La moltitudine di orologi continuava a ticchettare.
Poi, sentì un paio di voci femminili.
“E’ viva.”
“Male per lei.”
Le voci erano sommesse e roche. Meara riuscì ad aprire di nuovo gli occhi. Vide che il pavimento era solido e grigio. Si voltò dolorosamente, e vide tre forme umane sedute sul pavimento vicino a lei. O almeno, credeva che fossero umane. Sembravano giovani donne, adolescenti, ma erano magrissime, più che scheletriche: le loro ossa s’intravedevano chiaramente sotto la pelle. Una di loro pareva a malapena cosciente, con la testa pendente in avanti e gli occhi fissi sul pavimento grigio. Le rammentavano alcune foto di prigionieri nei campi di concentramento.
Erano ancora vive? Sì, dovevano esserlo. Le aveva appena sentite entrambe parlare.
“Dove siamo?” Meara chiese.
Riuscì a stento ad udire la risposta, debole come un sibilo.
“Benvenuta” una delle ragazze rispose, “all’inferno.”
CAPITOLO UNO
Riley Paige non vide partire il pugno ma i suoi riflessi erano ancora buoni. Sentì il tempo rallentare, mentre il primo colpo si dirigeva verso il suo stomaco. La donna indietreggiò, mandandolo a vuoto. Poi, notò un violento gancio sinistro diretto alla sua testa, saltò di lato e lo scansò. Quando l'avversario si fece più sotto, sferrando un colpo verso il suo volto, Riley si mosse fulminea e bloccò il pugno tra i guantoni.
A quel punto, il tempo riprese il suo normale ritmo. Riley sapeva che quella serie di colpi era durata meno di due secondi.
“Bene” commentò Rudy.
Riley sorrise. Rudy ora si limitava a tenersi in costante movimento, per evitare i colpi, più che pronto al contrattacco della donna. Riley faceva lo stesso, muovendosi, facendo finte e provando a tenerlo sulle spine.
“Non c’è alcuna di fretta” Rudy disse. “Riflettici a fondo. Pensa come se stessi giocando una partita a scacchi.”
Riley si sentì infastidita ma proseguì i suoi movimenti laterali. Ci stava andando piano con lei. Perché?
Ma sapeva che era giusto così. Questa era la prima volta che affrontava un vero avversario sul ring. Fino ad allora, aveva messo alla prova le sue mosse su un sacco pesante. Ricordò a se stessa di essere soltanto una principiante in questo tipo di combattimento. Era davvero un ottimo suggerimento quello di non avere fretta.
Mike Nevins aveva voluto che lei si allenasse. Lo psichiatra forense, che collaborava con l’FBI, era anche un buon amico di Riley. Lei lo aveva spesso consultato, quando aveva affrontato i suoi momenti di crisi.
Di recente, si era lamentata con Mike riguardo alla propria difficoltà a controllare gli impulsi aggressivi. Perdeva la pazienza troppo spesso. Era agitata.
“Prova ad allenarti” Mike aveva suggerito. “E’ un ottimo modo per sfogarsi.”
In quel momento, era sicura che Mike avesse ragione. Era bello trovarsi a prendere decisioni rapide, affrontando vere minacce invece di quelle immaginarie; al tempo stesso era rilassante affrontare minacce non mortali.
Altrettanto valida si era rivelata l'idea di iscriversi in una palestra che l’aveva allontanata dal quartier generale di Quantico, dove aveva trascorso innumerevoli ore. Questo invece era stato un cambiamento gradito.
Si accorse, d'improvviso, di aver indugiato troppo a lungo. E vide negli occhi di Rudy che l’uomo si stava preparando ad un altro attacco.
Lei scelse mentalmente la sua prossima mossa e si lanciò brutalmente contro di lui. Il suo primo pugno fu un diretto sinistro, che l’altro evitò in meno di un secondo, rispondendo con un destro a incrociare, che sfiorò l'elmetto d'allenamento di Riley, la quale replicò con un diretto destro, bloccato con i guantoni. In un lampo, la donna reagì con un diretto sinistro, che lui evitò spostandosi lateralmente.
“Bene” Rudy ripeté.
Ma non andava bene per Riley. Non aveva messo a segno un solo pugno, mentre lui l’aveva colpita leggermente, pur rimanendo sulla difendeva, e la donna iniziava a sentire l’irritazione crescere dentro di sé. Ma rammentò le parole che Rudy le aveva detto all’inizio dell’allenamento …
“Non aspettarti di mettere a segno molti pugni. Non lo fa nessuno. Non durante l’allenamento, in ogni caso.”
Ora stava guardando i guantoni dell’avversario, consapevole di un nuovo imminente attacco. Ma proprio in quel momento, una strana trasformazione operò nella sua mente.
I due guantoni si trasformarono in una sola fiamma—la bianca fiamma sibilante di una torcia al propano. Era di nuovo in una gabbia, al buio, prigioniera di un killer sadico di nome Peterson, che stava giocando con lei, costringendola ad evitare la fiamma e a sottrarsi al suo calore ustionante.
Ma era stanca di essere umiliata. Questa volta era determinata a ribellarsi. Quando la fiamma si avvicinò al suo viso, si spostò e, contemporaneamente, sferrò un forte diretto, che non andò a segno. La fiamma le girò intorno e lei contrattaccò con una colpo incrociato, anch'esso a vuoto. Ma, prima che Peterson potesse fare un’altra mossa, assestò un montante proprio al mento …
“Ehi!” Rudy gridò.
Quella voce riportò Riley alla realtà. Vide che Rudy era disteso sulla schiena sul tappetino.
Come ci è finito? si chiese.
Poi, si rese conto di averlo colpito — e forte.
“Oh mio Dio” gridò. “Rudy, mi dispiace!”
Rudy sorrise e si rimise in piedi.
“Non preoccuparti” le disse. “Sei stata brava.”
Ripresero l’allenamento. Il resto della sessione fu tranquillo, e nessuno di loro mandò a segno i pugni. Ma ora, tutto sembrava positivo per Riley. Mike Nevins aveva ragione. Era proprio la terapia di cui lei aveva bisogno.
In ogni caso, continuò a chiedersi quando sarebbe riuscita a liberarsi da quei ricordi.
Forse mai, pensò.
*
Riley tagliò entusiasticamente la sua bistecca.
Lo chef del Blaine’s Grill proponeva altri ottimi piatti meno convenzionali, ma l’allenamento in palestra di oggi le aveva fatto venire fame, e aveva voglia di bistecca con insalata. Sua figlia April e la sua amica Crystal avevano ordinato degli hamburger. Blaine Hildreth, il padre di Crystal era in cucina, e sarebbe tornato da un momento all'altro, per finire il suo mahi-mahi.
Nella bella sala da pranzo Riley si guardò intorno, con un profondo senso di soddisfazione. Si rese conto che la vita le aveva riservato troppo poche serate calde come questa, con amici, famiglia e un buon pasto. Le scene che era costretta a vedere durante il suo lavoro spesso erano brutte ed inquietanti.
Nell’arco di pochi giorni, sarebbe stata testimone in un procedimento per la concessione della libertà condizionale, promosso da un assassino di bambini, che sperava di uscire prima di galera. E doveva far sì che non se la cavasse in quel modo.
Diverse settimane prima, aveva chiuso un brutto caso a Phoenix. Lei e il suo partner, Bill Jeffreys, avevano catturato un killer di prostitute. Riley trovava ancora difficile convincersi di aver fatto abbastanza nel risolvere quel caso. Infatti, aveva imparato troppe cose di un intero mondo di donne e ragazze sfruttate e la consapevolezza del male che era rimasto là fuori, nonostante il suo intervento, le impediva di stare bene.
Ma era determinata a tenere quei pensieri fuori dalla sua mente. Sentiva di potersi rilassare a poco a poco. Mangiare fuori, in un ristorante, con un amico e le loro figlie, le ricordò com’era vivere una vita normale. Ora aveva una bella casa e si stava legando ad un simpatico vicino.
Blaine tornò e si sedette. Riley non poté fare a meno di osservare, ancora una volta, quanto fosse bello. I capelli stempiati gli davano un gradevole aspetto maturo, e poi era slanciato e in forma.
“Scusa” Blaine disse. “Questo posto va bene senza di me quando non ci sono, ma, se sono in vista, tutti decidono che hanno bisogno del mio aiuto.”
“So com’è” disse Riley. “Spero che, se mi tengo alla larga, il BAU mi dimentichi per un po’.”
April replicò: “Impossibile. Chiameranno presto. Sarai spedita da qualche altra parte del paese.”
Riley sospirò: “Potrei abituarmi a non venire chiamata costantemente.”
Blaine finì un boccone del suo mahi-mahi.
“Hai pensato a cambiare lavoro?” le chiese.
Riley alzò le spalle. “Che cosa d'altro potrei fare? Sono stata un’agente per la maggior parte della mia vita da adulta.”
“Oh, sono sicuro che ci siano molte cose che una donna dotata dei tuoi talenti possa fare” Blaine disse. “E la maggior parte è più sicura del lavoro di agente dell’FBI.”
L’uomo rifletté per un momento. “Riuscirei a vederti come insegnante” aggiunse.
Riley rise sommessamente. “E tu credi che sia più sicuro?” gli chiese.
“Dipende da dove lo fai” l’uomo le rispose. “Che ne dici del college?”
“Ehi, è un’idea mamma” intervenne April. “Non dovresti viaggiare per tutto il tempo. E riusciresti comunque ad aiutare le persone.”
Riley non disse niente, rimuginandoci sopra. Insegnare in un college sarebbe stato senz’altro simile a quando aveva insegnato all’accademia di Quantico. Le era piaciuto farlo. Le dava sempre una possibilità di ricaricarsi. Ma avrebbe voluto essere insegnante a tempo pieno? Poteva davvero trascorrere tutte le sue giornate all’interno di un edificio senza alcuna vera attività?
Infilzò un fungo con la forchetta.
Potrei diventare una di queste, pensò.
“Che mi dici di diventare investigatrice privata?” Blaine le chiese.
“Credo di no” gli rispose Riley. “Scavare negli sporchi segreti delle coppie divorziate non mi attrae.”
“Non fanno solo questo gli investigatori privati” disse Blaine. “Che mi dici di indagare sulle frodi assicurative? Ecco, ho questo cuoco che deve riscuotere l’invalidità, e dice che ha mal di schiena. Sono certo che stia fingendo, ma non posso provarlo. Potresti cominciare con lui.”
Riley scoppiò a ridere. Naturalmente, Blaine stava scherzando.
“O potrebbe cercare le persone scomparse” intervenne Crystal. “O gli animali scomparsi.”
Riley rise di nuovo. “Ora questo mi farebbe sentire come se facessi davvero del bene al mondo!”
April si era estraniata dalla conversazione. Riley vide che stava scrivendo messaggi e ridacchiando. Crystal si allungò dall’altra parte del tavolo, verso Riley.
“April ha un nuovo ragazzo” l’amica disse. Poi, mimò silenziosamente con le labbra, “lui non mi piace.”
Riley fu infastidita dal fatto che la figlia stesse ignorando tutti gli altri presenti al tavolo.
“Smettila” disse alla ragazza. “E’ da maleducati.”
“Cosa è da maleducati?” domandò April.
“Ne abbiamo parlato” la madre rispose.
April l’ignorò e digitò un messaggio.
“Mettilo via” disse Riley.
“Tra un minuto, mamma.”
Riley soffocò un gemito. Aveva imparato da molto tempo, ormai, che “tra un minuto” per gli adolescenti equivaleva a “mai”.
Proprio in quel momento il suo cellulare si mise a vibrare. Era arrabbiata con se stessa per non averlo spento prima di uscire di casa. Guardò e vide che aveva ricevuto un messaggio dal suo partner dell’FBI, Bill. Pensò di non rispondergli, ma non ci riuscì.
Mentre si apprestava a rispondere al messaggio, sollevò lo sguardo e vide April ridere chiaramente di lei. La figlia si stava godendo l’ironia. Ribollendo silenziosamente di rabbia, Riley lesse l’sms di Bill.
Meredith ha un nuovo caso. Vuole discuterne con noi al più presto possibile.
L’Agente Speciale in Carica Brent Meredith era il capo di Riley e Bill. Lei si sentiva molto legata a lui. Non solo era un capo buono e giusto, ma si era battuto per Riley molte volte, quando era nei guai con il bureau. Nonostante ciò, era determinata a non lasciarsi trascinare, almeno non per il momento.
Non posso viaggiare ora, gli rispose.
La risposta di Bill non tardò ad arrivare: E’ proprio qui in zona.
Riley scosse la testa, scoraggiata. Restare calma non sarebbe stato facile.
Allora, rispose all’sms: Sarò da te.
Non ci fu alcuna risposta, e Riley ripose di nuovo il cellulare nella borsa.
“Credevo che avessi detto che è da maleducati, mamma” April osservò in un tono calmo e imbronciato, mentre stava ancora messaggiando.
“Io ho finito con il mio” la madre disse, provando a non sembrare infastidita, così come si sentiva.
April la ignorò. Il cellulare di Riley vibrò di nuovo. Lei lo maledisse silenziosamente. Vide che stavolta si trattava di un sms di Meredith.
Riunione al BAU domani alle 9.
Riley stava pensando ad un modo per scusarsi, ma seguì subito un altro messaggio.
E’ un ordine.