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Il Volto della Morte

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Zoe accostò e Shelley uscì immediatamente, trasmettendo informazioni alla radio portatile. Un gruppetto di agenti con i cani si stavano già avvicinando da sud-est; gli animali abbaiavano in preda all’eccitazione di aver scoperto la fonte dell’odore che avevano rilevato.

Zoe raccolse la mappa lasciata da Shelley, confrontandola con il GPS. Si trovavano nel raggio di duecento metri dal punto in cui aveva ipotizzato che lui sarebbe stato, lungo una traiettoria dritta. Doveva essere scappato dalla formazione rocciosa dopo aver sentito i cani.

Si concesse un sorriso di successo, uscendo dall’auto per unirsi agli altri con rinnovato vigore. Fuori, sotto il sole cocente, Shelley le rivolse un sorriso di rimando, ovviamente felice che avessero già chiuso il loro primo caso insieme.

Più tardi, tornate in auto, si ristabilì il silenzio. Zoe non sapeva cosa dire, non lo sapeva mai. I convenevoli restavano un mistero assoluto per lei. Quante volte, esattamente, era lecito parlare del clima, prima di trasformare il discorso in un cliché? Per quanti viaggi avrebbe potuto impegnarsi in conversazioni sterili riguardanti cose senza importanza, prima che il silenzio diventasse socievole anziché imbarazzante?

“Non hai parlato molto, lì fuori,”disse Shelley, rompendo finalmente il silenzio.

Zoe esitò prima di rispondere. “No,” riconobbe, cercando di apparire amichevole. Non c’era molto altro da aggiungere, a parte convenirne.

Il silenzio si appesantì. Zoe calcolava i secondi nella sua mente, rendendosi conto che era ormai trascorso il tempo di una normale pausa nella conversazione.

Shelley si schiarì la voce. “Con i partner che ho avuto durante l’addestramento, cercavamo di comunicare durante il caso,” disse. “Lavorare per risolverlo insieme. Non da soli.”

Zoe annuì, mantenendo lo sguardo fisso sulla strada. “Capisco,” rispose, anche se provava un senso crescente di panico. Non capiva, non completamente. In un certo senso si rendeva conto di come le persone si sentissero in sua presenza, perché glielo dicevano sempre. Ma non sapeva cosa avrebbe dovuto fare al riguardo. Ci stava già provando, ci provava con tutte le sue forze.

“Parlami, la prossima volta,” disse Shelley, sprofondando nel suo sedile come se fosse tutto chiarito. “Dovremmo essere partner. Desidero davvero lavorare con te.”

Questo non prometteva bene per il futuro. L’ultimo partner di Zoe si era impegnato per almeno un paio di settimane, prima di lamentarsi di quanto lei fosse silenziosa e distaccata.

Questa volta aveva pensato che sarebbe andata meglio. Non le aveva forse comprato un caffè? E Shelley le aveva sorriso, prima. Avrebbe dovuto acquistare altre bevande per spostare l’equilibrio? Esisteva una determinata quantità alla quale puntare per rendere la loro relazione più piacevole?

Zoe fissò la strada sfrecciare davanti al parabrezza, sotto un cielo che iniziava ad oscurarsi. Sentiva di dover aggiungere qualcos’altro, sebbene non immaginasse cosa. Era tutta colpa sua, ne era consapevole.

Sembrava sempre così facile per gli altri. Parlavano, e parlavano, e parlavano, e diventavano amici da un giorno all’altro. Lo aveva visto accadere così tante volte, ma non sembrava ci fosse alcuna regola da seguire. Non dipendeva da un determinato periodo di tempo o da un certo numero di interazioni, o dalla quantità di cose che le persone dovevano avere in comune.

Erano soltanto magicamente brave ad andare d’accordo con altre persone, come lo era Shelley. Oppure non lo erano. Come Zoe.

Non capiva cosa stava sbagliando. Tutti le ripetevano continuamente di comportarsi in modo più caloroso e amichevole, ma cosa voleva dire, in pratica? Nessuno le aveva mai fornito una guida che spiegasse tutte le cose che avrebbe dovuto sapere. Zoe strinse ancora più forte il volante, cercando di non far capire a Shelley quanto si sentisse turbata. Era l’ultima cosa che voleva che la sua partner capisse.

Zoe si rese conto di essere lei stessa il problema. Non si illudeva. Semplicemente, non sapeva come essere diversa, come facevano gli altri, e provava imbarazzo per il fatto di non averlo mai imparato. Ammetterlo sarebbe stato, in qualche modo, anche peggio.

***

Il volo verso casa fu ancora più imbarazzante.

Shelley sfogliava distrattamente le pagine di una rivista femminile che aveva acquistato in aeroporto, rivolgendo ad ogni pagina non più di uno sguardo superficiale prima di arrendersi e voltare pagina. Una volta letta tutta, dall’inizio alla fine, guardò verso Zoe; quindi, dopo aver pensato meglio all’eventualità di intraprendere una conversazione, aprì nuovamente la rivista, dedicando più tempo agli articoli.

Zoe odiava leggere cose come quella. Le immagini, le parole, qualsiasi cosa venisse fuori dalle pagine. Dimensioni dei caratteri e volti, articoli contraddittori. Immagini che pretendevano di provare che una celebrità si era sottoposta a chirurgia estetica, mostrando soltanto i naturali cambiamenti che il viso subiva nel tempo e con l’età, facilmente rilevabili da chiunque avesse avuto conoscenze di base della biologia umana.

Più volte, Zoe si era sforzata di pensare a qualcosa da dire alla sua nuova partner. Non poteva parlare della rivista. Cos’altro avrebbero potuto avere in comune? Le parole non le venivano.

“Ottimo lavoro con il nostro primo caso,”disse infine, bisbigliando, senza avere quasi neanche il coraggio di dire questo.

Shelley alzò lo sguardo con un’espressione sorpresa, occhi larghi e vaghi per un istante, prima di liberare un sorrisetto. “Oh, si,”disse. “Abbiamo fatto un buon lavoro.”

“Speriamo che il prossimo vada altrettanto liscio.” Zoe sentì le sue interiora prosciugarsi. Perché chiacchierare le veniva così male? Stava impiegando ogni stilla di concentrazione per portare avanti il discorso.

“Magari riusciremo a chiuderlo più velocemente, la prossima volta,” suggerì Shelley. “Sai, quando saremo in sintonia l’una con l’altra lavoremo molto più rapidamente.”

Quest’ultima frase colpì Zoe come un pugno. Avrebbero potuto catturare il tizio più velocemente, portare l’elicottero sopra la sua esatta posizione sin dal loro arrivo, se soltanto Zoe avesse condiviso ciò che sapeva. Se non fosse stata tanto cauta da tenerlo nascosto.

“Magari,” rispose in maniera evasiva. Cercò di rivolgere a Shelley un sorriso che potesse essere tranquillizzante, da parte di un agente esperto a una recluta. Shelley lo ricambiò con un po’ di esitazione e tornò alla sua rivista.

Non parlarono più fino all’atterraggio.

CAPITOLO DUE

Zoe aprì la porta del suo appartamento con un sospiro di sollievo. Quello era il suo rifugio, il posto in cui poteva rilassarsi e smettere di cercare di essere la persona che chiunque altro avrebbe accettato.

Non appena accese le luci, dalla cucina arrivò un leggero miagolio, e Zoe si diresse da quella parte dopo aver appoggiato le chiavi sul tavolino.

“Ciao, Eulero,” disse, chinandosi per accarezzare dietro le orecchie uno dei suoi gatti. “Dov’è Pitagora?”

Eulero, un soriano grigio, rispose miagolando e guardando verso la credenza dove Zoe teneva i sacchetti e le lattine di cibo per gatti.

Zoe non aveva bisogno di un traduttore per capire. I gatti erano creature piuttosto semplici. Le uniche interazioni che desideravano davvero riguardavano il cibo e una grattatina di tanto in tanto.

Prese una nuova lattina dalla credenza e l’aprì, versandone il contenuto in una ciotola. Il suo Burmese, Pitagora, fiutò subito l’odore e si precipitò da un altro punto della loro casa.

Zoe lì guardò mangiare per un momento, domandandosi se desiderassero avere un altro essere umano che badasse a loro. Vivere soli voleva dire ricevere del cibo quando lei tornava a casa, indipendentemente da quanto tempo sarebbe tracorso. Indubbiamente, avrebbero preferito un programma più regolare; ma c’erano sempre i topi del quartiere da cacciare, nel caso fossero stati affamati. E notò che Pitagora, ultimamente, aveva messo su un paio di chili. Avrebbe dovuto metterlo a dieta.

Non che Zoe fosse in procinto di sposarsi, sia per i gatti che per qualsiasi altro motivo. Non aveva mai neanche avuto una relazione davvero seria. Dopo l’educazione ricevuta, si era quasi del tutto rassegnata al fatto che fosse destinata a morire da sola.

Sua madre era profondamente religiosa, praticamente intollerante. Zoe non era mai stata in grado di trovare il punto in cui la Bibbia dicesse che bisognava comunicare come tutti gli altri e pensare in termini di enigmi linguistici, piuttosto che attraverso formule matematiche, ma evidentemente sua madre aveva comunque letto qualcosa del genere. Era convinta che la figlia avesse qualcosa di sbagliato, qualcosa di immorale.

Zoe portò la mano alla clavicola, percorrendo la linea dove, un tempo, era appeso un crocifisso d’argento a una collanina dello stesso materiale. Per i lunghi anni della sua infanzia e dell’adolescenza, non aveva mai potuto toglierlo senza essere accusata di blasfemia. Neanche per fare una doccia o per dormire.

Non che avesse potuto fare molto senza essere accusata di essere la figlia del diavolo.

“Zoe,” avrebbe detto sua madre, scuotendo un dito e storcendo le labbra. “Smettila immediatamente con questa logica demoniaca. Il diavolo è dentro di te, bambina. Devi espellerlo subito.”

La logica demoniaca, evidentemente, era la matematica, soprattutto in relazione a una bambina di sei anni.

Sua madre le aveva fatto notare numerose volte quanto fosse diversa dagli altri. Quando non socializzava con i bambini della sua età all’asilo o a scuola. Quando non prendeva parte a nessun club doposcuola, fatta eccezione per le ulteriori sessioni di studio della matematica e delle scienze, e anche allora non entrava a far parte di gruppi né faceva amicizia. Quando aveva capito le proporzioni in cucina dopo aver visto cucinare sua madre una sola volta.

 

Zoe aveva imparato piuttosto velocemente a reprimere il suo istinto naturale per i numeri. Quando conosceva la risposta alle domande poste dalle persone senza neanche doversi impegnare, restava in silenzio. Quando scopriva quale bambino della sua classe avesse rubato e nascosto le chiavi della maestra, e dove le avesse nascoste, il tutto attraverso la distanza e gli indizi lasciati alle spalle, non diceva una parola.

In un certo senso, non era cambiato molto da quando quella spaventata bambina di sei anni, disposta a tutto pur di compiacere sua madre, aveva smesso di dire ogni piccola stranezza le venisse in mente e iniziato a fingere di essere normale.

Zoe scosse la testa, riportando la sua attenzione al momento presente. Tutto questo accadeva più di venticinque anni fa. Era inutile rimuginarci sopra, adesso.

Rivolse lo sguardo fuori dalla finestra verso la skyline di Bethesda, guardando come faceva sempre nella precisa direzione di Washington, DC. Aveva colto la direzione giusta in cui guardare il giorno in cui aveva firmato il contratto, notando diversi monumenti locali che si allineavano per mostrarle una direzione cardinale. Non c’era nulla di politico o di patriottico; le piaceva semplicemente il modo in cui combaciassero, creando quella linea perfetta sulla mappa.

Fuori era buio, e anche le luci degli altri edifici intorno al suo si stavano spegnendo, una dopo l’altra. Era tardi, abbastanza per concludere quello che aveva da fare e andare a letto.

Zoe accese il suo portatile e digitò rapidamente la password, aprendo la sua casella e-mail per controllare eventuali aggiornamenti. L’ultimo compito della sua giornata. C’erano alcune cose che poteva cancellare immediatamente: pubblicità, principalmente messaggi di vendite riguardanti marchi di prodotti che non aveva mai acquistato e truffe riguardanti presunti principi Nigeriani.

Dopo aver svuotato il cestino, rimase qualche altra e-mail da leggere e poi eliminare, missive che non necessitavano di risposta. Aggiornamenti dai social network, che raramente visitava, e newsletter dai siti web che seguiva.

Una era un po’ più interessante. Un avviso dal suo profilo di incontri online. Un messaggio breve ma carino: un certo tizio che le chiedeva un appuntamento. Zoe cliccò sulla sua pagina e ne esaminò le immagini, valutandole. Stimò rapidamente la sua vera altezza e fu piacevolmente sopresa di scoprire una corrispondenza con quanto l’uomo avesse scritto nei propri dettagli. Forse qualcuno abbastanza onesto riguardo se stesso.

La mail successiva era ancora più interessante, eppure Zoe provò l’istinto di rinviarne la lettura. Veniva dalla sua mentore ed ex docente, la Dott.ssa Francesca Applewhite. Riusciva a prevedere ciò che la dottoressa stava per chiederle ancora prima di leggere il testo, e non le sarebbe piaciuto.

Zoe sospirò e l’aprì comunque, rassegnata alla necessità di togliersi il pensiero. La Dott.ssa Applewhite era brillante, il tipo di matematico che aveva sempre sognato di diventare prima di rendersi conto che avrebbe potuto impiegare il suo talento come agente. Francesca era anche la sola persona a conoscere la verità su come funzionasse la sua mente: la sinestesia che trasformava gli indizi in numeri visivi e in fatti nella sua testa. La sola persona che le piaceva e di cui si fidava abbastanza per parlarne.

In realtà, la Dott.ssa Applewhite era stata l’unica a indirizzarla verso l’FBI, all’inizio. Era in debito con lei. Ma non era questo il motivo per il quale era riluttante a leggere il suo messaggio.

Salve Zoe, c’era scritto nella e-mail. Volevo soltanto chiederti se avessi contattato la terapista che ti ho suggerito. Sei riuscita a programmare un incontro? Fammi sapere se hai bisogno d’aiuto.

Zoe sospirò. Non aveva contattato la terapista e non era sicura di volerlo fare davvero. Chiuse l’e-mail senza rispondere, relegando il problema al giorno successivo.

Eulero saltò sul suo portatile, ovviamente soddisfatto dopo la cena, e iniziò a fare le fusa. Zoe lo accarezzò nuovamente, guardando lo schermo e riflettendo su cosa fare.

Pitagora emise un miagolio di indignazione per il fatto di essere trascurato, e Zoe lo guardò con un sorriso affettuoso. Non si trattava proprio di un segnale, ma fu sufficiente a indurla a darsi una mossa. Tornò al messaggio precedente, quello del sito di incontri, e digitò una risposta prima che potesse cambiare idea.

Sarei felice di incontrarti. Quando va bene per te? Z.

***

“Dopo di te,” disse lui, sorridendo e indicando il paniere.

Zoe sorrise di rimando e prese un pezzo di pane, la sua mente calcolò automaticamente la larghezza e lo spessore di ogni fetta per prendere quella di dimensione intermedia. Non voleva apparire troppo ingorda.

“Allora, di cosa ti occupi, John?”domandò Zoe. Era piuttosto semplice iniziare la conversazione in questo modo e lei aveva avuto abbastanza appuntamenti per sapere quale fosse la prassi. Inoltre, era sempre un’ottima idea assicurarsi che lui avesse un buon reddito.

“Sono un avvocato,” rispose John, prendendo la sua porzione di pane. Il pezzo più grande. Qualcosa come trecento calorie. Si sarebbe quasi saziato prima dell’arrivo della portata principale. “Mi occupo principalmente di controversie sulla proprietà, quindi non c’è molta sovrapposizione fra il tuo lavoro e il mio.”

Zoe ricordò la retribuzione media per un avvocato che si occupa di proprietà nella loro zona e annuì senza dire nulla, mentre i calcoli iniziarono a lampeggiare nella sua mente. Insieme avrebbero guadagnato abbastanza per un mutuo su una proprietà con tre camere da letto, e questo tanto per cominciare. Una camera per i bambini. Abbastanza opportunità di carriera per rimodernarla in futuro.

Anche il suo viso era quasi simmetrico. Buffo quanto spesso fosse capitato ultimamente. C’era soltanto una piega, un certo modo che aveva di sorridere che gli sollevava la guancia destra, mentre quella sinistra restava più o meno nella stessa posizione. Un sorriso asimmetrico. C’era qualcosa di affascinante in questo, forse per via dell’asimmetria. Contò il numero esatto di denti bianchi e perfettamente dritti che facevano capolino tra le sue labbra.

“Allora, cosa mi dici della tua famiglia? Qualche fratello o sorella?”chiese John con un tono un po’ esitante.

Zoe si rese conto che avrebbe dovuto fare almeno qualche tipo di commento sul suo lavoro, e si ridestò. “Soltanto io,”disse. “Sono stata cresciuta da mia madre. Abbiamo chiuso i rapporti.”

John inarcò un sopracciglio per una frazione di secondo, prima di fare un cenno. “Oh, è un peccato. La mia famiglia è piuttosto unita. Ci ritroviamo pranzare insieme una volta al mese.”

Gli occhi di Zoe si posarono sul suo fisico snello, e pensò che non doveva aver mangiato troppo male durante quelle cene. Beh, era chiaro che andasse in palestra. Quanto sollevava? Forse novanta chili, a giudicare da quelle braccia muscolose che modellavano la camicia a righe blu.

Calò il silenzio tra loro per qualche istante. Zoe staccò un altro pezzo di pane e lo mangiò, masticando velocemente in modo da liberare nuovamente la sua bocca. Le persone non parlano mentre mangiano, quantomeno in una società civile, quindi per lei si trattava di una sorta di scusa.

“Siete soltanto tu e i tuoi genitori?”chiese Zoe, non appena deglutì il boccone, sentendolo scivolare, denso e colloso, in gola. No, pensò. Almeno due fratelli.

“Ho un fratello e una sorella più grandi,” rispose John. “Ci sono quattro anni di differenza tra noi, quindi andiamo piuttosto d’accordo.”

Dietro di lui, Zoe notò la loro cameriera di un metro e sessanta alle prese con un pesante carrello di bevande. Due bottiglie di vino divise tra sette bicchieri, tutti destinati a un tavolo rumoroso in fondo a una fila. Coetanei. Amici del college che facevano una rimpatriata.

“Dev’essere bello,”disse Zoe, distrattamente. Non pensava davvero che fosse bello avere fratelli maggiori. Non aveva la minima idea di come doveva essere. Era soltanto un’esperienza diversa, che lei non aveva mai vissuto.

“Direi di si.”

Le risposte di John erano sempre più distaccate. Non le stava neanche più facendo domande. E non erano ancora arrivati alla portata principale.

Fu con un certo sollievo che Zoe vide la cameriera portare due piatti, sapientemente equilibrati sul proprio braccio, con il peso equamente distribuito tra gomito e palmo.

“Oh, ecco la nostra cena,” disse lei, più che altro per distrarlo.

John si guardò attorno, muovendosi con una grazia che sicuramente rimarcava il suo impegno in palestra. Era un uomo piuttosto in gamba. Attraente, affascinante, con un buon lavoro. Zoe cercò di concentrarsi su di lui, di applicarsi di più. Mangiando sarà più facile, pensò. Guardò con attenzione il cibo nel suo piatto: ventisette piselli, esattamente cinque centimetri di spessore sulla bistecca, e cercò di impedire a qualsiasi cosa di distrarla dai discorsi dell’uomo.

Ciononostante, sentì i silenzi imbarazzanti tanto quanto lui.

Alla fine, John si offrì di pagare per entrambi – la sua quota era di $37.97 – e Zoe accettò con gratitudine. Dimenticò che avrebbe dovuto obiettare almeno una volta per dargli la possibilità di insistere, ma le venne in mente soltanto quando vide la leggera contrazione agli angoli della bocca di lui mentre porgeva la carta di credito alla cameriera.

“Beh, è stata una bellissima serata,” disse John, guardandosi intorno e abbottonandosi la giacca mentre si alzava. “È proprio un ristorante carino.”

“Il cibo era ottimo,” mormorò Zoe, alzandosi. Avrebbe preferito restare seduta ancora un po’.

“È stato bello conoscerti, Zoe,” disse lui. Le porse la mano. Quando lei la strinse, l’uomo si avvicinò e le baciò le guance il più brevemente possibile, prima di allontanarsi di nuovo.

Non si offrì di accompagnarla alla sua auto, né tantomeno a casa. Nessun abbraccio, nessuna richiesta di rivederla. John era piuttosto gentile, tutto sorrisi asimmetrici e gesti attenti, ma il messaggio era chiaro.

“Anche per me, John,” rispose Zoe, prendendo la borsa e permettendogli di uscire dal ristorante prima di lei, in modo che non ci fossero imbarazzanti convenevoli durante il tragitto verso il parcheggio.

Nell’intimità della propria auto, Zoe sprofondò nel sedile del conducente e mise la testa tra le mani. Stupida, stupida, stupida. Farti distrarre così tanto dalla lunghezza del passo dei vari camerieri da non riuscire a concentrarti sul tuo affascinante, attraente ed estremamente idoneo cavaliere.

Le cose stavano oltrepassando ogni limite. Zoe lo sentiva, nel profondo del suo cuore, e probabilmente ne era già consapevole da un po’. Ormai riusciva a stento a concentrarsi sui segnali sociali senza che inutili calcoli e la continua ricerca di schemi le facessero girare la testa. Era già piuttosto grave non capire tutti i segnali quando li sentiva o li vedeva, ma non notarli assolutamente era ancora peggio.

“Che stupida,” mormorò tra sé e sé, sapendo di essere l’unica persona che l’avrebbe sentito. Questo le fece venir voglia di piangere e ridere contemporaneamente.

Per tutto il tragitto verso casa, Zoe ripercorse gli eventi della serata nella sua mente. Diciassette pause imbarazzanti. Almeno venti occasioni in cui John avrebbe desiderato che lei mostrasse più interesse. E chissà quante altre che non aveva neanche notato. Una cena offerta, a base di bistecca: non abbastanza per compensare il fatto di sentirsi un’emarginata che sarebbe morta single e sola.

Insieme ai gatti, naturalmente.

Neanche Eulero e Pitagora, che miagolavano e cercavano di rivaleggiare tra loro per il diritto di saltarle in grembo sul divano, riuscirono a farla sentire meglio. Lei li prese entrambi e li calmò, per niente sorpresa quando il loro interesse si spense e iniziarono ad aggirarsi lungo la parte posteriore del divano.

Aprì ancora una volta l’e-mail ricevuta dalla dott.ssa Applewhite, cercando il numero della terapista che le aveva inviato.

Non ci sarebbe niente di male, vero?

Zoe compose il numero sul suo cellulare, una cifra alla volta, nonostante lo avesse memorizzato al primo sguardo. Trattenne il fiato, il dito rimase sospeso sul pulsante verde di chiamata, ma lo forzò ad abbassarsi e portò il cellulare all’orecchio.

 

Drin-drin-drin.

Drin-drin-drin.

“Salve,”disse una voce femminile dall’altro capo del telefono.

“Salve …” iniziò Zoe, ma si interruppe immediatamente, mentre la voce continuava.

“Avete chiamato gli uffici della dott.ssa Lauren Monk. Siamo spiacenti, al momento siamo fuori dagli orari di servizio.”

Zoe gemette tra sé. Segreteria telefonica.

“Se desiderate fissare un appuntamento, modificare un appuntamento concordato o lasciare un messaggio, vi preghiamo di farlo dopo il …”

Zoe allontanò bruscamente il telefono dall’orecchio, come se bruciasse, e annullò la chiamata. Nel silenzio, Pitagora miagolò vivamente, quindi saltò dal bracciolo del divano sulla sua spalla.

Avrebbe dovuto fissare un appuntamento, e anche alla svelta. Lo promise a se stessa. Ma non c’era nulla di male nel lasciar passare un altro giorno, no?