Kitabı oku: «Killer per Caso»

Yazı tipi:

KILLER PER CASO

(UN MISTERO DI RILEY PAIGE—LIBRO 5)

B L A K E P I E R C E

TRADUZIONE ITALIANA

A CURA

DI

IMMACOLATA SCIPLINI

Blake Pierce

Blake Pierce è l’autore della serie di successo I misteri di RILEY PAIGE, composta da gialli ricchi di suspense: IL KILLER DELLA ROSA (libro #1), IL SUSSURRATORE DELLE CATENE (libro #2), OSCURITA’ PERVERSA (#3) e IL KILLER DELL’OROLOGIO (#4). Blake Pierce è anche l’autore della serie I misteri di MACKENZIE WHITE.

Avido lettore, e da sempre ammiratore, dei romanzi gialli e dei thriller, Blake apprezza i vostri commenti: pertanto siete invitati a visitare www.blakepierceauthor.com per saperne di più e restare in contatto con l'autore.

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LIBRI DI BLAKE PIERCE

I MISTERI DI RILEY PAIGE

IL KILLER DELLA ROSA (Libro #1)

IL SUSSURRATORE DELLE CATENE (Libro #2)

OSCURITA’ PERVERSA (Libro #3)

IL KILLER DELL’OROLOGIO (Libro #4)

KILLER PER CASO (Libro #5)

CORSA CONTRO LA FOLLIA (Libro #6)

I MISTERI DI MACKENZIE WHITE

PRIMA CHE UCCIDA (Libro #1)

UNA NUOVA CHANCE (Libro #2)

PRIMA CHE BRAMI (Libro #3)

I MISTERI DI AVERY BLACK

IL KILLER DI COLLEGIALI (Libro #1)

CORSA CONTRO IL TEMPO (Libro #2)

INDICE

PROLOGO

CAPITOLO UNO

CAPITOLO DUE

CAPITOLO TRE

CAPITOLO QUATTRO

CAPITOLO CINQUE

CAPITOLO SEI

CAPITOLO SETTE

CAPITOLO OTTO

CAPITOLO NOVE

CAPITOLO DIECI

CAPITOLO UNDICI

CAPITOLO DODICI

CAPITOLO TREDICI

CAPITOLO QUATTORDICI

CAPITOLO QUINDICI

CAPITOLO SEDICI

CAPITOLO DICIASSETTE

CAPITOLO DICIOTTO

CAPITOLO DICIANNOVE

CAPITOLO VENTI

CAPITOLO VENTUNO

CAPITOLO VENTIDUE

CAPITOLO VENTITRE'

CAPITOLO VENTIQUATTRO

CAPITOLO VENTICINQUE

CAPITOLO VENTISEI

CAPITOLO VENTISETTE

CAPITOLO VENTOTTO

CAPITOLO VENTINOVE

CAPITOLO TRENTA

CAPITOLO TRENTUNO

CAPITOLO TRENTADUE

CAPITOLO TRENTATRE’

CAPITOLO TRENTAQUATTRO

CHAPTER THIRTY FIVE

CAPITOLO TRENTASEI

CAPITOLO TRENTASETTE

CAPITOLO TRENTOTTO

CAPITOLO TRENTANOVE

CAPITOLO QUARANTA

CAPITOLO QUARANTUNO

CAPITOLO QUARANTADUE

PROLOGO

L’auto dell’Agente Speciale Riley Paige sfrecciava per le buie strade di Fredericksburg, rompendo il silenzio della notte. Sua figlia, di appena quindici anni, era scomparsa, ma Riley era più furiosa che spaventata. Immaginava di sapere dove fosse la ragazza: con il suo nuovo ragazzo, il diciassettenne Joel Lambert, ritiratosi dal liceo.

Riley aveva fatto del suo meglio per mettere fine a quella relazione, evidentemente senza riuscirci.

Stasera tutto questo cambierà, pensò con determinazione.

Parcheggiò proprio di fronte alla casa di Joel, una piccola abitazione fatiscente in un quartiere malfamato. Ci era già stata in precedenza ed aveva intimato al ragazzo di stare lontano da sua figlia. Ovviamente, non le aveva dato retta.

Notò immediatamente l’assenza di luci in casa. Forse, non c’era nessuno. O, forse, Riley avrebbe trovato una situazione molto difficile da gestire. Ma non le importava. Bussò forte alla porta.

Poi, intimò: “Joel Lambert! Apri!”.

Seguirono alcuni istanti di silenzio. Riley bussò nuovamente alla porta, con ancora maggior violenza. Stavolta, sentì delle flebili imprecazioni provenienti dall’interno. La luce del porticato si accese. Qualcuno aprì la porta di pochi centimetri, senza rimuovere la catenella di sicurezza. Grazie alla luce del porticato, Riley riuscì a intravedere un volto non familiare. Si trattava di un ragazzo con la barba, di circa diciannove o vent’anni, chiaramente molto agitato.

“Che cosa vuole?” il giovane chiese, con voce ancora assonnata.

“Sono qui per mia figlia” Riley rispose.

Il ragazzo sembrò perplesso.

“E’ venuta nel posto sbagliato, signora” rispose, tentando poi di chiudere la porta.

Riley non si fece sorprendere e la aprì con un calcio talmente forte, da rompere la catenella di sicurezza.

“Ehi!” il giovane protestò.

Senza porre tempo in mezzo, Riley entrò nell’edificio. La casa sembrava più o meno come l’ultima volta in cui ci era stata: ovunque vi erano un’orribile confusione e sgradevoli odori sospetti.

Il ragazzo era alto ed atletico. Riley notò una forte rassomiglianza tra lui e Joel. Ma era troppo giovane per essere il padre di Joel.

“Chi sei?” domandò.

“Sono Guy Lambert” l’altro rispose.

“Il fratello di Joel?” Riley tirò ad indovinare.

“Sì. Chi diavolo è lei?”

Riley estrasse il proprio distintivo.

“Agente Speciale Riley Paige, FBI” si presentò la donna.

Gli occhi del giovane si spalancarono, mentre veniva colto dal panico.

“FBI? Accidenti, dev’esserci un errore qui.”

“I tuoi genitori sono in casa?” Riley replicò.

Guy Lambert alzò le spalle.

“Genitori? Quali genitori? Io e Joel siamo soli qui.”

Riley non ne fu sorpresa. L’ultima volta che era stata lì, aveva sospettato che i genitori di Joel fossero scomparsi. Non aveva idea di ciò che ne era stato di loro.

“Dov’è mia figlia?” chiese Riley.

“Signora, io non conosco nemmeno sua figlia.”

Riley fece un passo in avanti, diretta alla porta più vicina.

Guy Lambert provò a bloccarla. “Ma non dovrebbe avere un mandato di perquisizione?” chiese.

Riley lo spinse da parte. “Sono io che faccio le regole ora” urlò.

Oltrepassò la porta ed entrò in una camera da letto disordinata. Non c’era nessuno.

Allora, continuò per un’altra porta, ritrovandosi in un bagno sudicio. Aprì un’altra porta ancora, entrando in una seconda camera da letto. Anche qui nessuno.

Sentì una voce chiamare dal soggiorno.

“Aspetta lì!”

Poi, tornò di corsa nel soggiorno.

Ora vide che il suo partner, l’Agente Bill Jeffreys, era fermo sulla porta d’ingresso. Lei aveva richiesto il suo aiuto prima di uscire di casa. Guy Lambert era curvato sul divano, sembrando sconfortato.

“Questo ragazzo sembrava sul punto di uscire” Bill disse. “Gli ho appena spiegato che doveva aspettarti qui.”

“Dove sono?” Riley chiese a Lambert. “Dove sono tuo fratello e mia figlia?”

“Non ne ho idea.”

Riley lo afferrò per la maglietta e lo tirò verso di sé.

“Dove sono tuo fratello e mia figlia?” ripeté.

Il ragazzo, cocciutamente, rispose: “Non lo so”.

La donna lo sbatté contro la parete. Alle sue spalle Bill emise un lamento di disapprovazione. Indubbiamente, era preoccupato che potesse perdere il controllo. Ma non le importava.

Terrorizzato, Guy Lambert cambiò versione.

“Sono andati ad un isolato da qui, su questa stessa strada. Al milletrecentotrentaquattro.”

Riley lo lasciò. Senza aggiungere un’altra parola, la donna uscì di corsa dalla porta principale, e Bill la seguì a ruota.

Riley mise mano alla torcia e controllò i numeri civici. “E’ da questa parte” indicò.

“Dobbiamo chiedere aiuto” Bill esclamò.

“Non ci servono rinforzi” Riley ribatté, correndo lungo il marciapiede.

“Non è questo che mi preoccupa” commentò Bill, seguendola.

Pochi minuti dopo Riley entrava nel giardino di una casa a due piani. Era fatiscente e dichiarata inagibile, con lotti vuoti su entrambi i lati: un tipico rifugio per eroinomani. Le ricordava la casa in cui un sadico psicopatico di nome Peterson l’aveva tenuta prigioniera in una gabbia, tormentandola poi con una torcia al propano, finché non era riuscita a fuggire, facendo saltare in aria il posto grazie alla scorta di propano del suo aguzzino.

Per un istante, esitò, scossa dal ricordo. Poi ricordò a se stessa:

April è lì dentro.

“Preparati” disse a Bill.

L’uomo prese torcia e pistola, e si mossero insieme verso la casa.

Avvicinandosi al porticato, Riley vide che le finestre erano sbarrate da assi di legno.

Non aveva alcuna intenzione di bussare stavolta: non voleva dare a Joel, o a chiunque altro fosse all’interno, alcun preavviso.

Provò a muovere la maniglia, che sembrava funzionare; ma la porta era chiusa da una serratura di sicurezza. Allora, mise mano alla pistola e sparò, facendo saltare la serratura di sicurezza. Poi, mosse di nuovo la maniglia e la porta si aprì.

Sebbene anche all’esterno l’illuminazione fosse molto scarsa, stante l’ora notturna, Riley e Bill fecero fatica a mettere a fuoco la scena, non appena entrati in quello che doveva essere stato il soggiorno. La sola luce proveniva da candele sparpagliate, che lasciavano intuire una scena agghiacciante, disseminata di rifiuti di ogni genere, tra cui sacchetti vuoti di eroina, aghi ipodermici e altri attrezzi per droga. Videro forse sette persone: due o tre si stavano rimettendo pigramente in piedi, dopo il blitz di Riley, gli altri erano ancora distesi sul pavimento o abbandonati su sedie malconce, ovviamente sotto l’effetto della droga. Tutti sembravano strafatti. I loro abiti erano sudici e lacerati.

Riley rimise la pistola nella fondina. Chiaramente, non le occorreva, almeno non per il momento.

“Dov’è April?” la donna gridò. “Dov’è Joel Lambert?”

Un uomo, che si era appena alzato in piedi, rispose con voce confusa: “Di sopra.”

Seguita da Bill, Riley si fece strada fino al piano di sopra, salendo delle scale buie, con la torcia che illuminava il percorso. Sentiva gli scalini fatiscenti scricchiolare pericolosamente sotto il suo peso. Infine, si ritrovarono nel corridoio in cima alle scale e videro tre soglie, prive di porta, dietro cui si aprivano un bagno maleodorante e due stanze visibilmente vuote. C’era solo una porta, ed era chiusa.

Riley si avviò in quella direzione ma Bill le fece un cenno con la mano.

“Lascia entrare me per primo” suggerì.

Ignorandolo, Riley lo superò, aprì la porta ed entrò.

Le gambe quasi le cedettero, quando guardò nella stanza. April era distesa su un materasso spoglio e mormorava “No, no, no” continuamente. Si contorceva a fatica, mentre Joel Lambert lottava per spogliarla. Un brutto uomo sovrappeso era fermo lì vicino, in attesa che Joel portasse a termine la sua missione. Un ago e un cucchiaio erano sul comodino, illuminati da una candela.

Riley comprese tutto in un istante. Joel aveva drogato April, fino a farle perdere conoscenza e la stava offrendo come favore sessuale a quell’uomo orrendo: per denaro o per un altro motivo, a Riley non era dato saperlo.

Tirò di nuovo fuori la pistola e la puntò contro Joel, lottando contro il desiderio di sparargli immediatamente.

“Allontanati da lei” ordinò.

Joel comprese chiaramente il suo stato mentale. Alzò le mani e si allontanò dal letto.

Indicando l’altro uomo, Riley disse a Bill: “Ammanetta questo bastardo. Portalo alla tua auto. Ora puoi chiamare i rinforzi.”

“Riley, ascoltami …” la voce di Bill si bloccò.

Riley intuì il pensiero inespresso di Bill. Il suo partner comprendeva perfettamente che tutto quello che voleva Riley erano pochi minuti da sola con Joel ed era comprensibilmente riluttante a permetterlo.

Tenendo la pistola sempre puntata su Joel, Riley guardò Bill con un’espressione implorante e questi annuì lentamente; poi si dedicò all’uomo, leggendogli i suoi diritti, lo ammanettò e lo condusse all’esterno.

Riley chiuse la porta dietro di loro e rimase a guardare silenziosamente Joel, con la pistola sempre puntata. Questo era il ragazzo di cui April si era innamorata.

Ma non era un adolescente comune. Era coinvolto nel commercio della droga, aveva usato quella droghe su sua figlia, aveva ovviamente avuto intenzione di vendere il corpo di April e non si trattava di una persona in grado di amare.

“Che cosa pensa di fare, signora poliziotta?” disse. “Ho i miei diritti, lo sa.” Sfoderò lo stesso lieve sorrisetto che le aveva rivolto l’ultima volta che lo aveva visto.

La pistola tremò leggermente nella mano di Riley. Non vedeva l’ora di premere il grilletto e fare fuori quell’essere spregevole. Ma non poteva permetterselo.

Notò che Joel stava avanzando lentamente verso il tavolino da salotto. Era piuttosto robusto, ed era più alto di Riley. Era evidente che si stesse dirigendo verso una mazza da baseball, ovviamente tenuta lì per autodifesa, appoggiata contro il tavolo. Riley soffocò un sorriso severo. Sembrava che lui stesse per fare esattamente ciò che lei voleva che facesse.

“Sei in arresto” disse.

Poi, mise la pistola nella fondina e prese le manette appese alla sua cintura. Esattamente come Riley aveva sperato, Joel si avvicinò alla mazza da baseball, l’afferrò e tentò di colpirla con violenza.

La donna scansò agilmente il colpo, e si preparò il successivo.

Stavolta, Joel sollevò la mazza, con l’evidente intenzione di sfondarle il cranio. Ma, non appena il suo braccio si abbassò, Riley deviò e si protese verso l’estremità più piccola della mazza. La afferrò e lo disarmò, godendosi lo sguardo sorpreso sul suo volto, mentre perdeva l’equilibrio.

Joel si afferrò al tavolino da salotto, per mantenere l’equilibrio. Nell’istante in cui la sua mano raggiungeva il tavolo, Riley la colpì forte con la mazza. Sentì frantumarsi le ossa.

Joel emise un urlo patetico e cadde al suolo.

“Puttana pazza!” gridò. “Mi hai rotto la mano.”

Col respiro affannato, Riley lo ammanettò al montante del letto.

“Non sono riuscita ad evitarlo” rispose gelida. “Hai opposto resistenza, e ho accidentalmente sbattuto la tua mano contro la porta. Sono spiacente per questo.”

Riley ammanettò la mano sana in fondo ad un montante del letto. Poi, salì con un piede sulla mano rotta e ci spostò sopra il proprio peso.

Joel gridò e si contorse. I suoi piedi si dimenarono disperatamente.

“No, no, no!” urlò.

Tenendo ancora il piede sulla mano, Riley si accovacciò accanto al viso del ragazzo.

Beffardamente, disse: “‘No, no, no!’ Dove ho sentito queste parole prima d’ora? Negli ultimi minuti?”

Joel piangeva per il dolore ed il terrore.

Riley fece ancora più forza con il piede.

“Chi le ha dette?” lei domandò.

“Tua figlia … è stata lei.”

“Che cos’ha detto?”

“‘No, no, no …’”

Riley allentò un po’ la pressione.

“E perché mia figlia l’ha detto?” domandò.

Joel riusciva a malapena a parlare, tra un singhiozzo e l’altro.

“Perché … era indifesa … e stava male. D’accordo. Ho capito.”

Riley alzò il piede. Probabilmente il ragazzo aveva recepito il messaggio: almeno per ora, anche se probabilmente non per sempre. Ma questo era il meglio, o il peggio, che lei potesse fare per adesso.

Meritava la morte, o anche qualcosa di peggio. Ma non poteva ucciderlo. Almeno, lui non avrebbe mai più usato quella mano normalmente.

Riley lasciò Joel, ammanettato e sottomesso, e si precipitò dalla figlia. Le pupille di April erano dilatate, e Riley intuì che faceva fatica a vederla.

“Mamma?” April disse con un filo di fiato, piangendo.

Il suono di quella parola scatenò un mondo di angoscia in Riley. Scoppiò in lacrime mentre cominciava ad aiutare April a rivestirsi.

“Ti porto fuori di qui” la donna disse tra i singhiozzi. “Andrà tutto bene.”

Anche mentre pronunciava quelle parole, Riley pregò che fossero vere.

CAPITOLO UNO

Riley stava strisciando nella polvere, in un’umida intercapedine sotto una casa. Era circondata da un’assoluta oscurità e si chiese perché non avesse portato con sé una torcia. Dopotutto, era già stata in quell’orribile posto prima.

Di nuovo, sentì la voce di April gridare nelle tenebre.

“Mamma, dove sei?”

L’angoscia attanagliò il cuore di Riley. Sapeva che April era in una gabbia, da qualche parte in quella malvagia oscurità. Un crudele mostro la stava torturando.

“Sono qui” Riley gridò in risposta. “Sto arrivando. Continua a parlare, così che possa trovarti.”

“Sono proprio qui” April gridò.

Riley strisciò nella direzione della voce, ma un istante dopo sentì la voce della figlia parlare da un’altra direzione.

“Sono proprio qui.”

Poi, la voce riecheggiò nell’oscurità.

“Sono qui … sono qui … sono qui …”

Non si trattava di una sola voce, e non apparteneva ad una sola ragazza. Molte ragazze stavano gridando aiuto. E lei non aveva idea di come raggiungerle.

Riley si risvegliò dal suo incubo, sentendo una mano che stringeva la sua. Si era addormentata mano nella mano di April, e ora la figlia stava iniziando a svegliarsi. Riley si tirò su, e guardò la ragazza sdraiata nel letto.

April era ancora molto pallida in volto ma la sua mano era più forte e non più fredda. Sembrava star meglio del giorno precedente: la notte alla clinica le aveva fatto molto bene.

April riuscì a puntare lo sguardo sulla madre. Poi, sgorgarono le lacrime, proprio come Riley si aspettava.

“Mamma, che sarebbe successo se non fossi venuta tu?” April chiese con voce strozzata.

Anche Riley iniziò a piangere. April aveva ripetuto quella stessa domanda molte volte ormai. Riley non riusciva a sopportare neppure l’idea di rispondere, ancora meno di farlo ad alta voce.

Il cellulare di Riley squillò. Era una chiamata di Mike Nevins, uno psichiatra forense, che era anche un suo buon amico. L’aveva aiutata a superare molte crisi personali, ed era stato felice di aiutarla anche in questo caso.

“Ho chiamato solo per controllare” Mike disse. “Spero che non sia un brutto momento.”

Riley si era rallegrata al sentire la voce amica di Mike.

“Niente affatto Mike. Grazie di aver chiamato.”

“Come sta?”

“Credo meglio.”

Riley non sapeva che cosa avrebbe fatto senza l’aiuto di Mike. Dopo aver portato la figlia via da Joel, il giorno prima, era stata una grande confusione tra il pronto soccorso, le cure mediche e i rapporti della polizia. La sera precedente Mike aveva fatto in modo che April fosse ricoverata al Corcoran Hill Health e Rehab Center.

Era molto meglio dell’ospedale. Anche se dotata di tutti gli strumenti necessari, la camera era bella e confortevole. Dalla finestra, Riley poteva vedere gli alberi, sparpagliati su terreni ben curati.

Proprio in quel momento il medico di April entrò nella camera e Riley interruppe la telefonata. Il Dottor Ellis Spears era un uomo dall’aspetto gentile, con un viso giovanile, anche se alcuni capelli bianchi lo tradivano.

L’uomo toccò la mano di April e chiese: “Come ti senti?”

“Non benissimo” rispose.

“Devi concederti un po’ di tempo” lui disse. “Starai bene. Signora Paige, potrei parlarle un attimo?”

Riley annuì e lo seguì fuori nel corridoio. Il Dottor Spears dette un’occhiata ad alcuni dati sul suo portablocco.

“L’eroina è stata quasi eliminata dal suo sistema ormai” disse. “Il ragazzo le ha dato una dose pericolosa. Per fortuna, lascia in fretta il flusso sanguigno. Lei non avrà più sintomi fisici di astinenza. La sofferenza che ora sta vivendo è più emotiva che fisica.”

“Avrà …?” Riley non riuscì a terminare la domanda.

Fortunatamente, il medico comprese ciò che intendeva dire.

“Una ricaduta o avrà voglia di drogarsi ancora? E’ difficile da dire. Assumere eroina per la prima volta può far sentire alla grande, come nient’altro al mondo. A questo punto, lei non ne è dipendente, ma non dimenticherà quella sensazione. C’è sempre il pericolo che ricada nella tentazione …”.

Riley afferrò al volo ciò che il medico intendeva dire. Da quel momento in poi, sarebbe stato di vitale importanza tenere April lontana da qualsiasi uso di droga. Era una prospettiva terrificante. April aveva ammesso di fumare erba e prendere pasticche: alcune erano apparentemente degli antidolorifici, oppiacei molto pericolosi.

“Dottor Spears, io—”

Per un istante, Riley ebbe difficoltà a formulare la domanda che aveva in mente.

“Non capisco che cosa sia successo” disse. “Perché dovrebbe fare qualcosa del genere?”

Il medico le sorrise con comprensione. Riley immaginava che l’uomo avesse sentito quella domanda piuttosto spesso.

“Fuga” disse. “Ma non mi riferisco ad una completa fuga dalla vita. Lei non è quel tipo di drogata. Infatti, non penso che sia una vera drogata a dire il vero. Come tutti gli adolescenti, è davvero priva di controllo degli impulsi. Questo è semplicemente un dato di fatto in un cervello immaturo. Le piacevano davvero le droghe che la facevano subito sballare, che lui le dava. Per fortuna, non ne ha abusato tanto da procurarsi danni persistenti.”

Il Dottor Spears rifletté silenziosamente per un momento.

“La sua esperienza è stata insolitamente traumatica” disse. “Mi riferisco a come quel ragazzo stava provando a sfruttarla sessualmente. Quel ricordo soltanto potrebbe bastare a tenerla definitivamente lontana dalle droghe. Ma la sofferenza emotiva potrebbe anche essere una pericolosa causa scatenante.”

Il cuore di Riley sprofondò. La sofferenza emotiva sembrava un fatto inevitabile nella vita familiare in quei giorni.

“Deve restare sotto osservazione per alcuni giorni” il medico disse. “Dopodiché, avrà bisogno di molta cura, riposo e aiuto a guardare in se stessa.”

Il medico si scusò e continuò il suo giro di visite. Riley restò nel corridoio, sentendosi sola e agitata.

E’ questo che è successo a Jilly? si chiese. April sarebbe finita come quella ragazza disperata?

Due mesi prima a Phoenix, Arizona, Riley aveva salvato una ragazza, persino più giovane di April, dalla prostituzione. Un curioso legame emotivo si era creato tra di loro, e Riley aveva provato a restare in contatto con lei, dopo averla portata in un ricovero per adolescenti. Ma un paio di giorni prima, a Riley era stato detto che Jilly era scappata via. Impossibilitata a tornare a Phoenix, Riley si era rivolta ad un agente dell’FBI, in cerca di aiuto. Sapeva che l’uomo si sentiva in debito con lei, e si aspettava di avere notizie oggi.

Nel frattempo, almeno Riley era dove era necessario essere per aiutare April.

Stava tornando verso la camera della figlia, quando sentì una voce chiamarla nel corridoio. Si voltò e vide il volto preoccupato del suo ex marito, Ryan, che stava raggiungendola. Quando lo aveva chiamato il giorno prima, per dirgli dell’accaduto, l’uomo si trovava a Minneapolis a lavorare ad un caso per il tribunale.

Riley fu sorpresa al vederlo. La figlia tendeva a stare in fondo alla sua lista delle priorità: più in basso del suo lavoro di avvocato, e molto più in basso della libertà di cui ora godeva in quanto scapolo. Aveva dubitato persino che l’uomo si presentasse.

Invece l’uomo si precipitò verso Riley e l’abbracciò, il viso profondamente segnato dalla preoccupazione.

“Come sta? Come sta?”

Ryan continuava a ripetere la domanda, rendendo difficile a Riley rispondere.

“Starà bene” finalmente Riley riuscì a dire.

Ryan si sottrasse all’abbraccio e guardò Riley con un’espressione angosciata.

“Mi dispiace” disse. “Mi dispiace davvero tanto. Mi hai detto che April aveva dei problemi, ma non ti ho ascoltato. Avrei dovuto esserci per voi due.”

Riley non sapeva che cosa dire. Scusarsi non era affatto nello stile di Ryan.

In effetti, si era aspettata che la incolpasse di ciò che era successo, poiché questo era il suo solito modo di gestire le crisi di famiglia. Sembrava invece che la disavventura di April fosse stata tanto terribile da toccarlo. Doveva aver parlato con il medico, apprendendo l’intera tremenda storia.

Lui fece un cenno con il capo verso la porta.

“Posso vederla?” l’uomo domandò.

“Certamente” Riley rispose.

Restò sulla porta e osservò Ryan precipitarsi verso il letto di April e prenderla poi tra le braccia. La strinse forte per alcuni istanti. A Riley sembrò di aver intravisto una lacrima negli occhi di lui.

Infine, Ryan sedette accanto ad April, tenendole la mano.

April stava piangendo di nuovo.

“Oh, papà, ho fatto un gran casino” disse. “Vedi, avevo una storia con questo ragazzo—”

Ryan le toccò le labbra per tranquillizzarla.

“Shh. Non devi dirmi niente. Va tutto bene.”

Riley sentì un nodo formarsi in gola. Improvvisamente, per la prima volta dopo davvero tanto tempo, sentì che loro tre erano una famiglia. Era una cosa positiva o negativa? Era un segnale del fatto che tempi migliori stavano per arrivare, o che sarebbe avvenuta un’altra delusione e ci sarebbe stato altro strazio? Non ne aveva idea.

Riley osservò dalla porta Ryan accarezzare gentilmente i capelli di sua figlia, ed April chiuse gli occhi e si rilassò. Fu una scena toccante.

Quando hanno iniziato ad andare male le cose? lei si chiese.

Si trovò a desiderare di tornare indietro nel tempo, fino ad un momento cruciale, quando aveva commesso un terribile errore: avrebbe voluto fare ogni cosa in modo differente e cambiare quello che era stato. Era certa che anche Ryan stesse pensando la stessa cosa.

Era un pensiero ironico, e lei lo sapeva. Il killer che aveva catturato l’altro ieri era ossessionato dagli orologi: posizionava ed arrangiava le sue vittime come lancette sul quadrante di un orologio. E ora era lì, con i suoi desideri sul tempo passato.

Se soltanto avessi potuto tenere Peterson lontano da lei, pensò con un sussulto.

Come Riley, April era stata tenuta prigioniera in una gabbia e tormentata da quel sadico mostro e la sua torcia al propano. La povera ragazza aveva lottato contro la PTSD da allora.

Ma la verità era che Riley sapeva che il problema andava oltre.

Forse se io e Ryan non avessimo mai divorziato, rifletté.

Ma come si sarebbe potuto evitare? Ryan era stato distante e disimpegnato sia come marito sia come padre; e in più si era rivelato un donnaiolo. Non che lo ritenesse l’unico colpevole. Anche lei aveva commesso la sua bella dose di errori. Non aveva mai trovato il giusto equilibrio tra il suo lavoro all’FBI e l’essere madre. E non aveva visto molti dei segnali di avvertimento relativi ai problemi di April. La sua tristezza aumentò. No, non riusciva a pensare ad un momento particolare in cui avrebbe potuto cambiare tutto. La sua vita era stata troppo piena di errori e opportunità mancate. Inoltre, sapeva perfettamente bene che non poteva riportare indietro il tempo. Non poteva desiderare l’impossibile.

Il suo telefono squillò, e poi uscì di nuovo in corridoio. Il cuore le batté più forte, quando vide che si trattava di una chiamata di Garrett Holbrook, l’agente dell’FBI che si era assunto l’incarico di cercare Jilly.

“Garrett!” disse, prendendo la chiamata. “Che cosa succede?”

Garrett rispose con la sua caratteristica voce monotona.

“Ho delle buone notizie.”

Riley cominciò immediatamente a respirare meglio.

“La polizia l’ha trovata” Garrett disse. “E’ stata per strada tutta la notte senza soldi e nessun posto dove andare. E’ stata sorpresa a taccheggiare in un minimarket. Sono con lei alla stazione di polizia in questo momento. Le pagherò la cauzione, ma …”

Garrett si fermò. A Riley non piacque il suono della parola “ma”.

“Forse dovrei farti parlare con lei” le disse.

Pochi istanti dopo, Riley sentì la voce familiare di Jilly.

“Ehi, Riley.”

Ora che il panico stava scemando, Riley stava cominciando ad arrabbiarsi.

“Non dirmi ‘ehi’. Che cosa pensavi di fare, scappando via in quel modo?”

“Non tornerò lì” Jilly disse.

“Sì che lo farai.”

“Ti prego, non farmici tornare.”

Riley non rispose per un momento. Non sapeva che cosa dire. Riteneva che il ricovero dove la ragazza era stata fino ad allora fosse un buon posto educativo. Aveva conosciuto parte dello staff e le erano apparsi tutti persone in gamba.

Ma comprendeva anche come si sentiva Jilly. L’ultima volta che avevano parlato, la ragazza si era lamentata del fatto che nessuno la volesse, che i genitori adottivi continuassero a scegliere qualcun altro invece di lei.

“A loro non piace il mio passato” Jilly aveva osservato.

Quella conversazione si era conclusa male, con Jilly in lacrime a pregare Riley di adottarla. Riley si era dimostrata incapace di spiegare le mille ragioni per cui era una cosa impossibile. Sperava che quella conversazione non sarebbe terminata allo stesso modo.

Prima che Riley potesse pensare a che cosa dire, Jilly esclamò: “Il tuo amico vuole parlarti.”

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