Kitabı oku: «La Casa Perfetta», sayfa 2

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Quando fu certa di essere da sola e al sicuro, controllò la mezza dozzina di piccole videocamere che aveva disposto nell’appartamento. Poi valutò i lucchetti alle finestre. Tutto era in perfetta funzione. Le restava solo un posto da controllare.

Entrò nel bagno e aprì lo stretto armadietto con all’interno mensole per scorte come carta igienica, uno sturalavandino, alcune saponette, spugne e detergente per specchi. C’era un piccolo gancio sul lato sinistro dell’armadietto, quasi invisibile, a meno che uno non sapesse dove guardare. La piegò e tirò, sentendo la piccola molla nascosta.

La paretina si aprì, rivelando una sbarra estremamente stretta dietro ad essa, con una scala di corda attaccata al muro di mattoni. Il tubo e la scala scendevano dal quarto piano fino allo spazio della lavanderia al piano interrato. Era stata progettata come uscita di emergenza estrema se tutte le altre misure di sicurezza avessero fallito. Jessie sperava di non doverne mai fare uso.

Rimise a posto la mensola e stava per tornare in salotto quando scorse la propria immagine riflessa nello specchio del bagno. Era la prima volta che si guardava davvero da vicino da quando era partita. Quello che vide le piacque.

In superficie non sembrava poi tanto diversa da prima. Aveva compiuto gli anni mentre si trovava all’FBI e ora aveva ventinove anni, ma non le sembrava di avere un aspetto più vecchio. A dirla tutta, le pareva di essere meglio di quando era partita.

I capelli erano ancora castani, ma in qualche modo sembravano più elastici, meno flosci rispetto a quando era stata a Los Angeles tutte quelle settimane fa. Nonostante i lunghi giorni passati all’FBI, i suoi occhi verdi sprizzavano energia e non avevano più quelle ombre scure sotto, che le erano diventate tanto familiari prima. Era sempre alta quasi un metro e ottanta, ma si sentiva più forte e salda di prima. Le braccia erano più toniche e il busto era sodo per gli innumerevoli addominali e flessioni. Si sentiva… preparata.

Portandosi in salotto, finalmente accese le luci. Le ci vollero un paio di secondi per ricordare che tutti i mobili in quello spazio erano suoi. Ne aveva comprati la maggior parte subito prima di partire per Quantico. Non aveva avuto molta scelta. Aveva venduto tutta la roba della casa di cui era stata proprietaria insieme al suo ex marito Kyle, sociopatico e attualmente incarcerato. Per un poco era rimasta nell’appartamento della vecchia amica del college Lacy Cartwright, ma dopo che qualcuno vi aveva fatto irruzione inviando a Jessie un messaggio per conto di Bolton Crutchfield, Lacy aveva giustamente preferito che lei se ne andasse.

Quindi lei aveva fatto proprio così, abitando in un hotel per un poco, fino a che aveva trovato un posto – questo posto – che fosse adatto per le sue necessità di sicurezza. Ma non era arredato, quindi aveva bruciato una parte del capitale che aveva ottenuto dal divorzio per arredamento ed elettrodomestici. Dato che era dovuta partire per l’Accademia Nazionale subito dopo l’acquisto, non aveva avuto la possibilità di apprezzare per bene il tutto.

Ora sperava di poterlo fare. Si sedette sulla poltroncina e si appoggiò allo schienale mettendosi il più comoda possibile. C’era una scatola di cartone con scritto “roba da controllare” sul pavimento accanto a lei. La raccolse e iniziò a rovistarci dentro. Per lo più erano scartoffie che non aveva voglia di guardare adesso. In fondo alla scatola c’era una foto 8x10 del matrimonio di lei e Kyle.

La fissò quasi senza capire, stupita che la persona che aveva avuto quella vita fosse la stessa donna seduta lì desso. Quasi dieci anni prima, durante il loro ultimo anno alla USC, Jessie aveva iniziato a uscire con Kyle Voss. Erano andati a vivere insieme subito dopo la laurea e si erano sposati tre anni fa.

Per un lungo periodo le cose erano sembrate fantastiche. Vivevano in un bell’appartamento poco distante da lì, nel centro di Los Angeles, o Downtown, come veniva spesso chiamato. Kyle aveva un lavoro nella finanza e Jessie stava prendendo la laurea specialistica. Avevano una vita agiata. Andavano spesso a provare nuovi ristoranti e nei migliori bar. Lei era felice e probabilmente sarebbe potuta rimanere in quella condizione per parecchio tempo.

Ma poi Kyle aveva avuto una promozione ed era stato trasferito nell’ufficio che la sua società aveva nella Contea di Orange, e aveva insistito perché si trasferissero in una mega villa lì. Jessie aveva acconsentito, nonostante la sua apprensione. Solo allora la vera natura di Kyle era venuta in superficie. Era diventato ossessionato dall’idea di diventare membro di un club segreto che si era rivelato essere la facciata di copertura per una cerchia legata alla prostituzione. Aveva intrapreso una relazione con una delle donne del posto, e quando le cose erano andate storte, l’aveva uccisa cercando di far ricadere la colpa su Jessie. Ciliegina sulla torta: quando Jessie aveva scoperto il suo intrigo, aveva tentato di uccidere anche lei.

Ma anche adesso, mentre osservava attentamente la foto del matrimonio, non c’era traccia di ciò che suo marito era capace di fare. Sembrava un uomo bello e amabile, pronto a diventare il padrone dell’universo. Jessie accartocciò la foto e la gettò verso il cestino dell’immondizia in cucina. Cadde dritta al centro, dandole un inaspettato senso di catartica soddisfazione.

Canestro! Deve pur significare qualcosa.

C’era un qualcosa di liberatorio in questo posto. Tutto – l’arredamento nuovo, la mancanza di ricordi personali, addirittura le misure di sicurezza al limite della paranoia – appartenevano a lei. Era davvero un nuovo inizio.

Jessie si stiracchiò, permettendo ai suoi muscoli di rilassarsi dopo il lungo volo sull’aereo pieno zeppo di gente. Questo appartamento era suo, il primo posto dopo cinque o sei anni che poteva definire veramente tale. Poteva mangiare pizza sul divano e lasciare lì l’incarto senza doversi preoccupare che qualcuno se ne lamentasse. Non che fosse il tipo da fare una cosa così. Il punto era che poteva.

Il pensiero della pizza le fece venire improvvisamente fame. Si alzò e andò a dare un’occhiata al frigorifero. Non solo era vuoto, ma non era neppure acceso. Solo allora si ricordò di averlo lasciato così, non vedendo alcun motivo per dover pagare l’elettricità dato sarebbe mancata di casa per due mesi e mezzo.

Lo collegò e, sentendosi inquieta, decise di fare un salto al supermercato. Poi le venne un’altra idea. Dato che non avrebbe iniziato a lavorare fino al giorno dopo, e non era troppo tardi nel pomeriggio, c’era un’altra fermata che poteva fare: un posto – e una persona – che conosceva e che alla fine doveva andare a trovare.

Era riuscita a levarsela dalla testa per la maggior parte del tempo a Quantico, ma c’era ancora la questione di Bolton Crutchfield. Sapeva che avrebbe dovuto lasciar perdere e che lui durante il loro ultimo incontro aveva tentato di adescarla.

Eppure doveva sapere: Crutchfield aveva davvero trovato un modo per incontrare suo padre, Xander Thurman, il Boia dell’Ozarks? Aveva trovato un modo per mettersi in contatto con l’assassino di innumerevoli persone, inclusa sua madre, l’uomo che l’aveva lasciata, quando aveva sei anni, legata vicino al suo cadavere, dove sarebbe di certo morta congelata in un isolato capanno?

Aveva intenzione di scoprirlo.

CAPITOLO TRE

Eliza stava aspettando quando Gray arrivò a casa quella sera. Arrivò in tempo per la cena, con un’espressione in viso che lasciava intendere che si aspettava quello che sarebbe successo. Dato che Millie ed Henry erano seduti lì, intenti a mangiare il loro mac&cheese con fette di hot dog, nessuno di loro due disse nulla sulla situazione.

Fu solo quando i bambini furono andati a dormire che la questione venne alla ribalta. Eliza era in piedi in cucina quando Gary entrò dopo aver messo a letto i bambini. Si era tolto la giacca, ma aveva ancora addosso la cravatta allentata e i pantaloni del completo da ufficio. Eliza sospettò che fosse per apparire più credibile.

Gray non era un uomo imponente. Alto un metro e ottanta scarsi, la superava solo di un paio di centimetri, anche se con i suoi 75 chili, pesava ben di più. Sapevano bene entrambi che il suo aspetto era decisamente meno autoritario con indosso solo una maglietta e i pantaloni della tuta. La tenuta da lavoro era la sua armatura.

“Prima che tu dica qualcosa,” disse, “ti prego di lasciarmi spiegare.”

Eliza, che aveva passato gran parte della giornata a chiedersi come sarebbero andate le cose, fu felice di permettere alla sua ansia di restare momentaneamente in attesa, lasciando che fosse lui a dimenarsi nel tentativo di giustificarsi.

“Accomodati pure,” gli disse.

“Prima di tutto, mi spiace. Indipendentemente da qualsiasi altra cosa possa dire, voglio che tu sappia che ti chiedo scusa. Non avrei mai dovuto permettere che succedesse. È stato un momento di debolezza. Mi conosce da anni e sa quali siano i miei punti deboli. Sapeva cosa avrebbe stuzzicato il mio interesse. Avrei dovuto controllarmi, ma ci sono cascato.”

“Cosa stai dicendo?” chiese Eliza, stupefatta e nel contempo ferita. “Che Penny è stata una seduttrice e che ti ha manipolato costringendoti ad avere una relazione con lei? Sappiamo entrambi che sei un uomo debole, Gray, ma mi stai prendendo in giro?”

“No,” rispose lui, scegliendo di non dare seguito al commento sul ‘debole’. “Mi prendo la completa responsabilità delle mie azioni. Mi ero fatto tre whiskey. Sono stato attratto dalle sue gambe in quel vestito con lo spacco laterale. Ma lei sa cosa mi fa andare nel pallone. Immagino siano state tutte quelle confidenze che vi fate da anni. Ha saputo come solleticarmi il braccio con la punta delle dita, ha saputo come parlare, quasi facendo le fusa sussurrandomi nell’orecchio. Probabilmente sapeva che tu non facevi queste cose da tanto tempo. E sapeva che non saresti entrata in quel bar perché eri a casa, messa al tappeto dalle pillole per il sonno che prendi quasi tutte le sere.”

Quell’affermazione rimase sospesa tra loro per diversi secondi, mentre Eliza cercava di assumere un certo contegno. Quando fu certa che non avrebbe gridato, rispose con voce incredibilmente calma.

“Stai dando a me la colpa di questa cosa? Perché sembra che tu stia dicendo di non essere potuto restare nei tuoi pantaloni perché io ho problemi a dormire la notte.”

“No, non intendevo questo,” piagnucolò lui, ritraendosi davanti alle sue parole avvelenate. “È solo che hai sempre problemi a dormire la notte. E non sembri mai tanto interessata a voler restare sveglia insieme a me.”

“Giusto per essere chiari, Grayson: dici che non mi stai incolpando. Ma poi passi immediatamente a dire che io sono messa KO dal Valium e non ti riservo sufficienti attenzioni, per cui hai dovuto portarti a letto la mia migliore amica.”

“Ma che razza di migliore amica è se ti fa una cosa del genere?” provò a dire Gray, in un tentativo disperato.

“Non cambiare argomento,” disse lei con tono seccato, costringendosi a mantenere la voce stabile, in parte per evitare di svegliare i bambini, ma soprattutto perché era l’unico modo per evitare di perdere il controllo. “È già sulla mia lista. Ora tocca a te. Non potevi forse venire tu da me e dirmi: ‘Ehi, tesoro, mi piacerebbe tantissimo passare una serata romantica con te stasera”, oppure “Amore, sento che siamo distanti ultimamente. Possiamo stare un po’ vicini questa sera?’ Queste non erano forse buone opzioni?”

“Non volevo svegliarti e darti fastidio con domande del genere,” rispose lui, la voce mite, ma le parole taglienti.

“Quindi hai deciso che il sarcasmo è il modo migliore in questa circostanza?” chiese Eliza.

“Guarda,” disse lui, alla disperata ricerca di una via di scampo, “con Penny è finita. Me l’ha detto oggi pomeriggio e io sono d’accordo con lei. Non so come andremo avanti da qui, ma è mia intenzione farlo, se non altro per i bambini.”

“Se non altro per i bambini?” ripeté lei, stupita dal modo eclatante in cui suo marito stava fallendo. “Vattene e basta. Ti concedo cinque minuti per fare i bagagli e salire in macchina. Prenotati una stanza d’albergo fino a prossime istruzioni.”

“Mi stai cacciando da casa mia?” le chiese incredulo. “La casa che ho pagato?”

“Non solo ti sto cacciando,” sibilò lei. “Ma se non esci dal vialetto entro cinque minuti, chiamo la polizia.”

“E cosa gli dici?”

“Mettimi alla prova,” ribatté lei furente.

Gray rimase a fissarla. Per niente turbata, Eliza andò al telefono e lo prese. Fu solo quando sentì il suono del numero che veniva digitato che Gray scattò in azione. Nel giro di tre minuti stava uscendo di casa come un cane con la coda tra le gambe, la borsa di tela piena zeppa di camicie e giacche. Una scarpa cadde mentre scappava via. Lui non la notò ed Eliza non disse nulla.

Fu solo quando sentì la macchina che si allontanava, che Eliza riappoggiò il telefono sul mobiletto. Abbassò lo sguardo sulla propria mano sinistra e vide che il palmo sanguinava dove vi aveva piantato le unghie stringendo il pugno. Solo in quel momento ne sentì il bruciore.

CAPITOLO QUATTRO

Nonostante fosse fuori allenamento, Jessie si divincolava nel traffico del centro di Los Angeles diretta verso Norwalk senza grossi problemi. Strada facendo, decise di fare un colpo di telefono ai suoi genitori, se non altro come modo per distrarsi dall’incombente arrivo alla destinazione che si era prefissata.

I suoi genitori adottivi, Bruce e Janine Hunt, vivevano a Las Cruces, Nuovo Messico. Lui era un agente dell’FBI in pensione e lei una ex insegnante. Jessie aveva trascorso qualche giorno con loro prima di arrivare a Quantico e aveva sperato di poter fare lo stesso al suo ritorno. Ma non c’era stato sufficiente tempo tra la fine del corso e la ripresa del lavoro, quindi aveva dovuto abbandonare l’idea di una seconda visita. Sperava di tornare presto a trovarli, soprattutto dato che sua madre stava lottando contro il cancro.

Non le sembrava giusto. Erano una decina d’anni ormai che Janine viveva questa battaglia, e questo era solo un tassello da aggiungere all’altra tragedia che la coppia aveva affrontato anni prima. Subito prima che prendessero Jessie con loro quando lei aveva sei anni, avevano perso il loro bambino di due anni, anche lui portato via dal cancro. Erano stati felici di riempire il vuoto che questo evento aveva lasciato nei loro cuori, anche se significava adottare la figlia di un serial killer, un uomo che aveva assassinato la madre della bambina, abbandonando quest’ultima a morte certa. Dato che Bruce stava nell’FBI, l’abbinamento era sembrato logico agli US Marshals che avevano inserito Jessie nel programma protezione testimoni. Sulla carta, era tutto molto sensato.

Lei cacciò dalla testa quel pensiero e digitò il numero.

“Ciao pa’,” disse. “Come va?”

“Ok,” rispose lui. “Ma’ sta pisolando. Vuoi richiamare più tardi?”

“No. Possiamo parlare noi. Farò due chiacchiere con lei stasera o un altro giorno. Come vanno le cose lì?”

Quattro mesi prima sarebbe stata riluttante a parlargli senza la madre lì presente. Bruce Hunt era un uomo difficile da avvicinare, e neanche Jessie era particolarmente coccolona. I ricordi della sua infanzia con lui erano un miscuglio di gioia e frustrazione. C’erano state settimane bianche sugli sci, campeggio e camminate in montagna, e vacanze di famiglia in Messico, a neanche un centinaio di chilometri da casa.

Ma c’erano anche stati confronti farciti di grida, soprattutto quando lei era entrata nell’adolescenza. Bruce era un uomo che apprezzava la disciplina. Jessie, con anni di dolore represso per aver perso sua madre, il proprio nome e la propria dimora in un colpo solo, tendeva a volte ad esagerare. Durante gli anni trascorsi alla USC e anche dopo, probabilmente avevano parlato in tutto una ventina di volte. E anche le visite erano state rare.

Ma recentemente il ritorno del cancro di ma’ li aveva costretti a parlare senza intermediari. E il ghiaccio si era in qualche modo spezzato. Lui era addirittura venuto a Los Angeles per aiutarla a riprendersi dopo la ferita all’addome causatale dall’aggressione ad opera di Kyle lo scorso autunno.

“Qui è tutto tranquillo,” le disse, rispondendo alla sua domanda. “Ma’ ha fatto un’altra sessione di chemio ieri, motivo per cui ora sta recuperando. Se si sente meglio, potremmo uscire per cena più tardi.”

“Con tutta la squadra di poliziotti?” chiese lei con tono scherzoso. Pochi mesi prima i suoi genitori si erano trasferiti da casa loro a una struttura abitativa popolata per lo più da pensionati del dipartimento di polizia di Las Cruces, del Dipartimento dello Sceriffo e dell’FBI.

“No, solo noi due. Stavo pensando a una cenetta a lume di candela. Ma in un posto dove sia possibile metterle affianco un secchio in caso le venga da vomitare.”

“Sei veramente un romanticone, pa’.”

“Ci provo. E a te come va? Mi pare di capire che hai passato l’addestramento dell’FBI.”

“Cosa te lo fa capire?”

“Perché sapevi che te l’avrei chiesto, e non mi avresti chiamato se non ci fossero state buone notizie in merito.”

Questa Jessie doveva concedergliela. Per essere un vecchio lupo, era ancora piuttosto sveglio.

“Sono passata,” gli confermò. “Ora sono di nuovo a Los Angeles. Ricomincio a lavorare domani e sto… svolgendo delle commissioni.”

Non voleva preoccuparlo con la sua attuale reale destinazione.

“Mi pare di cattivo auspicio. Perché ho la sensazione che tu non stia facendo la spesa?”

“Non intendevo farla apparire così. Mi sa che sono solo ancora frastornata dal viaggio. Sono quasi arrivata,” mentì. “Meglio che chiami di nuovo stasera o aspetto domani? Non voglio rovinare la tua seducente cena con secchio del vomito al seguito.”

“Magari domani,” le consigliò lui.

“Ok, di’ ciao a ma’. Vi voglio bene.”

“Anch’io ti voglio bene,” le disse, e riagganciò.

Jessie cercò di concentrarsi sulla strada. Il traffico stava peggiorando e il tragitto verso la struttura del DNR, che richiedeva generalmente circa tre quarti d’ora, le lasciava ancora una buona mezz’ora di guida.

Il DNR, acronimo di Divisione Non Riabilitativa, era una speciale unità isolata affiliata all’Ospedale di Stato-Metropolitano di Norwalk. L’ospedale principale era la sede di una vasta gamma di esecutori malati di mente, ritenuti incapaci di essere detenuti in una prigione convenzionale.

Ma l’annesso del DNR, sconosciuto al pubblico e quasi alla maggior parte del personale della polizia e dei medici addetti alla salute mentale, ricopriva un ruolo più clandestino. Era progettato per ospitare un massimo di dieci malviventi tenendoli isolati dalla rete. In questo momento c’erano solo cinque persone trattenute lì, tutti uomini, tutti stupratori o assassini seriali. Uno di loro era Bolton Crutchfield.

La mente di Jessie andò con il ricordo all’occasione più recente in cui era stata lì a fargli visita. Era stato il loro ultimo incontro prima di partire per l’Accademia Nazionale, anche se non gliel’aveva detto. Jessie aveva fatto visita a Crutchfield regolarmente dall’ultimo autunno, quando aveva ottenuto il permesso di interrogarlo come parte del suo tirocinio di laurea specialistica. Secondo il personale lì presente, quasi nessun medico o ricercatore era mai riuscito a parlargli. Ma per motivi che non le erano stati chiari se non verso la fine, lui aveva acconsentito a parlarle.

Nel corso delle ultime settimane avevano raggiunto una sorta di accordo. Lui avrebbe discusso i particolari dei suoi crimini, inclusi metodi e moventi, se lei avesse condiviso con lui alcuni dettagli della propria vita. Inizialmente era sembrato un baratto onesto. Dopotutto l’obiettivo di Jessie era diventare una profiler criminale specializzandosi nei serial killer. Averne uno propenso a discutere dei dettagli di ciò che aveva fatto poteva rivelarsi un tesoro senza prezzo.

E si era poi presentato anche un vantaggio aggiunto. Crutchfield aveva un’abilità alla Sherlock Holmes nel dedurre le informazioni, anche se si trovava chiuso a chiave nella cella di un ospedale psichiatrico. Era riuscito a cogliere dettagli della vita di Jessie solo guardandola in faccia.

Aveva usato quella sua abilità, insieme alle informazioni sul caso che lei aveva condiviso, per darle indizi su diversi crimini, incluso l’assassinio di una ricca filantropa di Hancock Park. Le aveva anche messo la pulce nell’orecchio che il suo stesso marito potesse non essere affidabile come sembrava.

Sfortunatamente per lei, le sue abilità deduttive lavoravano anche contro di lei. Il motivo per cui aveva voluto inizialmente incontrare Crutchfield era che aveva notato come avesse modellato i suoi omicidi su quelli di suo padre, il leggendario serial killer Xander Thurman, mai catturato. Ma Thurman aveva commesso i suoi crimini nelle campagne del Missouri oltre vent’anni prima. Sembrava una scelta oscura e fatta a caso per un killer con pianta stabile nella California meridionale.

Ma era venuto fuori che Bolton era un grande ammiratore di suo padre. E quando Jessie aveva iniziato a fargli domande sul suo interesse per quei vecchi omicidi, non gli ci era voluto molto per mettere insieme i pezzi del puzzle e capire che la giovane donna che aveva davanti era personalmente collegata a Thurman. Alla fine aveva ammesso di sapere che lei era sua figlia. E le aveva anche rivelato un tassello in più: due anni prima aveva incontrato suo padre.

Con voce gioiosa l’aveva informata che suo padre era entrato nella struttura sotto le mentite spoglie di un medico ed era riuscito ad avere una lunga conversazione con il prigioniero. A quanto pareva stava cercando sua figlia, che aveva cambiato nome e che era stata inserita nel Programma Protezione Testimoni dopo l’uccisone della madre. L’uomo sospettava che un giorno lei sarebbe andata a trovare Crutchfield, dato che i loro crimini erano simili. Thurman voleva che Crutchfield gli facesse sapere se lei si sarebbe fatta viva, fornendogli poi nome e luogo in cui si trovava.

Da quel momento in poi la loro relazione aveva avuto una disparità che l’aveva messa incredibilmente a disagio. Crutchfield le forniva ancora informazioni sui suoi crimini e dettagli sugli altri. Ma entrambi sapevano che era lui ad avere tutte le carte in mano.

Sapeva il suo nuovo nome. Sapeva che aspetto aveva. Conosceva la città in cui viveva. A un certo punto era venuta a sapere che aveva addirittura scoperto che abitava nell’appartamento dell’amica Lacy. E a quanto pareva, nonostante fosse incarcerato in una struttura ipoteticamente segreta, era in grado di dare a suo padre tutti quei dettagli.

Jessie era piuttosto certa che quello fosse almeno parte del motivo per cui Lacy, un’aspirante stilista di moda, aveva colto al volo l’occasione di un lavoro a Milano per sei mesi. Era un’opportunità grandiosa, ma era anche mezzo mondo di distanza dalla vita pericolosa di Jessie.

Quando Jessie uscì dall’autostrada, pochi minuti prima di raggiungere il DNR, ricordò come Crutchfield avesse tirato alla fine il colpo decisivo della tacita minaccia che era sempre rimasta sospesa durante i loro incontri.

Forse l’aveva fatto perché sentiva che lei se ne sarebbe andata per diversi mesi. Forse era solo per dispetto. Ma l’ultima volta che lei aveva guardato attraverso il vetro fissando i suoi occhi infidi, lui le aveva scagliato addosso una bomba.

“Farò una piccola chiacchierata con tuo padre,” le aveva detto con quel suo raffinato accento meridionale. “Non voglio rovinare le cose dicendo quando, ma sarà una cosa adorabile, ne sono certo.”

Lei era riuscita a malapena a pronunciare la parola: “Quando?”

“Oh, non preoccuparti di questo, signorina Jessie,” le aveva risposto con tono mirato a darle sollievo. “Sappi solo che quando parleremo, mi assicurerò di portargli i tuoi saluti.”

Mentre entrava nella proprietà dell’ospedale, Jessie si pose la stessa domanda che l’aveva divorata da allora, quella che era capace di levarsi dalla testa solo quando si concentrava intentamente su altri lavori: l’aveva fatto davvero? Mentre lei era stata via a imparare come catturare gente come lui o suo padre, i due si erano veramente incontrati una seconda volta, nonostante tutte le precauzioni di sicurezza progettate per prevenire proprio quel genere di cose?

Aveva la sensazione che quel mistero fosse sul punto di essere risolto.

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Litres'teki yayın tarihi:
15 nisan 2020
Hacim:
271 s. 2 illüstrasyon
ISBN:
9781094311012
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