Kitabı oku: «La Casa Perfetta», sayfa 4

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CAPITOLO SETTE

Jessie stava allerta, in guardia per notare qualsiasi cosa o persona che fosse fuori dall’ordinario.

Mentre svoltava verso casa sua, seguendo il solito percorso intricato di prima quello stesso giorno, tutte le precauzioni di sicurezza di cui era stata così fiera solo poche ore prima, adesso le apparivano miseramente inadeguate.

Questa volta si era raccolta i capelli in una crocchia sulla nuca e li aveva nascosti sotto a un berrettino da baseball e al cappuccio della felpa che aveva comprato tornando da Norwalk. Si era appesa davanti al petto la piccola borsa a forma di zainetto. Nonostante quelle misure extra di anonimità, non indossò gli occhiali da sole, preoccupata che potessero limitare la sua visuale.

Kat aveva promesso di visionare tutti i nastri relativi alle recenti visite di Crutchfield per vedere se qualcosa fosse sfuggito ai controlli. Aveva anche detto che se Jessie avesse potuto aspettare fino alla fine del turno, sarebbe andata fino al centro di Los Angeles, anche se lei abitava nella più distante città di Industry, per darle una mano e assicurarsi che tornasse sana e salva. Jessie aveva educatamente declinato l’offerta.

“Non posso contare su una scorta armata ovunque vada da ora in poi,” aveva insistito.

“Perché no?” le aveva chiesto Kat con tono parzialmente scherzoso.

Ora, mentre percorreva il corridoio fino al suo appartamento, si chiedeva se avrebbe dovuto accettare l’offerta dell’amica. Si sentiva particolarmente vulnerabile con la borsa della spesa sottobraccio. L’atrio era avvolto in un silenzio di tomba e Jessie non aveva visto assolutamente nessuno da quando era entrata nell’edificio. Prima che potesse levarsi quel pensiero dalla testa, un’idea folle le si accese in mente: che suo padre avesse ucciso tutti in modo da non dover gestire complicazioni quando l’avesse finalmente incontrata?

La luce dello spioncino era verde, cosa che le consentì una certa sicurezza quando aprì la porta, guardando entrambi i lati del corridoio per assicurarsi che non ci fosse nessuno in procinto di saltarle addosso. Non successe nulla. Una volta all’interno, accese le luci e poi chiuse tutte le serrature prima di disconnettere entrambi gli allarmi. Subito dopo riattivò la modalità ‘in casa’ per potersi muovere per l’appartamento senza far scattare i sensori di movimento.

Posò la borsa della spesa sul bancone della cucina e perlustrò la casa, il manganello pronto in mano. Aveva fatto domanda di un porto d’armi da fuoco prima di partire per Quantico e quando fosse andata al lavoro il giorno dopo avrebbe potuto prendere la sua pistola. In parte avrebbe voluto averla già presa quando si era fermata a prendere la posta poco prima quello stesso giorno. Quando fu finalmente sicura che l’appartamento fosse privo di pericoli, iniziò a mettere via la spesa, lasciando fuori il sashimi che aveva preso per cena invece della pizza.

Non c’è niente di meglio che un sushi del supermercato di lunedì per rendere particolarmente felice una ragazza single nella grande città.

Il pensiero la fece sorridere brevemente, prima che le tornasse in mente il pensiero che il suo padre serial killer aveva ottenuto degli indizi per trovare il suo luogo di residenza. Forse non era proprio una mappa, ma da quello che Crutchfield aveva detto, poteva essergli sufficiente per riuscire a trovarla alla fine. La grossa domanda era: quando sarebbe stato questo ‘alla fine’?

*

Novanta minuti dopo Jessie stava prendendo a pugni un grosso sacco pesante, madida di sudore che le ricopriva tutto il corpo. Dopo aver finito il sushi si sentiva irrequieta e fremente e aveva deciso di allenarsi per eliminare le sue frustrazioni in modo costruttivo in palestra.

Non era mai stata una grossa appassionata di allenamento. Ma nel tempo trascorso all’Accademia Nazionale, aveva fatto una scoperta inaspettata. Quando si allenava fino ad essere esausta, non restava spazio per le ansie e le paure che la consumavano così tanto nel resto del tempo. Se solo lo avesse saputo una decina d’anni prima, si sarebbe risparmiata migliaia di notti insonni, o infiniti incubi.

Questo le avrebbe anche risparmiato probabilmente alcuni viaggi dalla sua terapeuta, la dottoressa Janice Lemmon, una rinomata psicologa forense. La dottoressa Lemmon era una delle poche persone a conoscere i dettagli del passato di Jessie. Era stata una risorsa di estremo valore negli anni più recenti.

Attualmente però si trovava in fase di ripresa dopo un trapianto di fegato e per qualche settimana ancora non sarebbe stata disponibile per una seduta. Anche se la terapia dell’allenamento poteva essere più economica, Jessie sapeva che ci sarebbero di certo stati momenti in cui avrebbe avuto bisogno di vedere la dottoressa in futuro.

Mentre proseguiva con una nuova serie di pugni, ricordò come, prima del viaggio a Quantico, si fosse spesso svegliata sudando freddo e respirando affannosamente, cercando di ricordare a se stessa che si trovava al sicuro a Los Angeles e non in un piccolo capanno nell’Ozarks del Missouri, legata a una sedia con gli occhi fissi sul sangue che gocciolava dal cadavere in lento congelamento di sua madre.

Se solo fosse stato solo un sogno. Ma era reale. Quando aveva sei anni e il matrimonio dei suoi genitori aveva iniziato ad avere delle difficoltà, suo padre aveva portato lei e sua madre in un capanno isolato. In quella circostanza aveva rivelato loro che rapiva, torturava e uccideva la gente, e che lo faceva da anni. Poi aveva riservato lo stesso trattamento alla sua stessa moglie, Carrie Thurman.

Dopo averle ammanettato i polsi alle travi del soffitto per pugnalarla a intervalli regolari con un coltello, aveva costretto Jessie – allora Jessica Thurman – a guardare. Le aveva legato le braccia a una sedia e le aveva messo del nastro adesivo sugli occhi perché stessero aperti, fino a che aveva definitivamente ucciso sua madre.

Poi aveva usato lo stesso coltello per fare un grosso taglio sulla pelle della sua stessa figlia, dalla spalla sinistra alla base del collo. Dopodiché se n’era semplicemente andato dal capanno. Dopo tre giorni, due cacciatori che passavano di lì per caso, avevano trovato la bambina, in ipotermia e in completo stato di shock.

Quando si era ripresa, aveva raccontato alla polizia e all’FBI la sua storia. Ma a quel punto suo padre era sparito da tempo e con lui se n’era andata anche ogni speranza di acciuffarlo. Jessica era stata inserita nel programma protezione testimoni a Las Cruces con gli Hunt. Jessica Thurman era diventata Jessie Hunt ed era iniziata per lei una nuova vita.

Jessie si scosse dalla testa quei ricordi, passando dai pugni ai calci. Accolse il dolore che derivava da quello sforzo e a ogni calcio l’immagine della pelle pallida e priva di vita di sua madre si dissolse a poco a poco. Poi un altro ricordo le si accese nella memoria, quello dell’ex marito Kyle che la aggrediva nella loro stessa casa, cercando di ucciderla e incastrarla per l’omicidio della sua amante. Jessie poteva quasi sentire ancora il bruciore dell’attizzatoio del caminetto che le si piantava nel lato sinistro dell’addome.

Il dolore fisico di quel momento andava a braccetto con l’umiliazione che Jessie ancora provava per aver passato dieci anni di relazione con un sociopatico senza neanche rendersene conto. Dopotutto lei doveva essere un’esperta nell’identificare quel genere di persone.

Jessie eliminò anche quel pensiero, sperando di cacciare dalla mente anche la vergogna passando a una serie di colpi di gomito mirati alla mandibola di un ipotetico assalitore. Le spalle stavano iniziando a farle davvero male, ma lei continuò a battere colpi contro il sacco, sapendo che la sua mente sarebbe stata presto troppo stanca per essere angosciata.

Questa era la parte di sé che non si era aspettata di scoprire all’FBI: l’aggressività fisica. Nonostante le apprensioni standard che provava quando era arrivata, aveva pensato che se la sarebbe cavata bene nella parte accademica del programma. Aveva appena trascorso tre anni in quell’ambiente, immersa nella psicologia criminale.

E aveva avuto ragione. Le lezioni di legge, scienza forense e terrorismo le erano venute facili. Anche il seminario in scienza comportamentale, dove gli insegnanti erano eroi per lei e dove pensava che sarebbe stata nervosa, si era rivelato naturale. Ma erano state le lezioni di allenamento fisico e di autodifesa che l’avevano davvero sorpresa.

I suoi istruttori le avevano insegnato che con quasi un metro e ottanta di altezza e 65 chili di peso aveva la struttura per confrontarsi con i maggiori criminali, se fosse stata debitamente preparata. Probabilmente non avrebbe mai avuto le abilità nel combattimento corpo a corpo di una veterana ex soldato delle Forze Speciali come Kat Gentry, ma aveva lasciato il corso con la certezza di sapersi difendere nella maggior parte delle situazioni.

Jessie si tolse i guantoni e andò al tapis roulant. Lanciando un’occhiata all’orologio vide che erano quasi le otto di sera. Decise che una bella corsa di 7 o 8 chilometri le sarebbe stata sufficiente per poter dormire senza fare brutti sogni. Era una priorità, dato che avrebbe ricominciato a lavorare il giorno dopo, e sapeva che tutti i colleghi le avrebbero sicuramente rotto le scatole aspettandosi che lei fosse una specie di supereroe dell’FBI adesso.

Impostò il tempo in quaranta minuti e diede il massimo per completare otto chilometri con un ritmo di circa 12 chilometri all’ora. Poi alzò il volume nelle cuffiette. Quando i primi secondi di ‘Killer’ di Seal partirono, la mente le si svuotò e Jessie si concentrò solo sul compito che aveva davanti. Era completamente ignara del titolo della canzone o di qualsiasi ricordo personale questa potesse risvegliare. C’erano solo il ritmo e le sue gambe che correvano in armonia con esso. Era la situazione più vicina al senso di pace che Jessie potesse pensare di ottenere.

CAPITOLO OTTO

Eliza Longworth si presentò alla porta di Penny il più rapidamente possibile. Erano quasi le otto di mattina, l’ora in cui in genere arrivava la loro insegnante di yoga.

Era stata una notte per lo più insonne. Solo alle prime luci del giorno le era parso di percepire quale fosse la strada giusta da percorrere. Una volta presa la decisione, Eliza sentì un peso che le si levava di dosso.

Aveva mandato un messaggio a Penny per dirle che la lunga notte le aveva concesso il tempo per pensare e riconsiderare se fosse stata troppo frettolosa a porre fine alla loro amicizia. Avrebbero dovuto fare la lezione di yoga. E poi, quando la loro insegnante Beth se ne fosse andata, avrebbero potuto trovare un modo per sistemare le cose.

Penny non aveva risposto, ma questo non aveva impedito ad Eliza di andare comunque da lei. Quando raggiunse la porta, vide l’auto di Beth risalire la via del quartiere mentre la donna le faceva un cenno di saluto.

“Penny!” gridò mentre bussava alla porta. “Beth è arrivata. Siamo sempre d’accordo per la lezione di yoga?”

Non ci fu risposta, quindi premette il pulsante del campanello e agitò le braccia davanti alla videocamera.

“Penny, posso entrare? Dovremmo parlare un secondo prima che arrivi Beth.”

Ancora nessuna risposta, e Beth era a un centinaio di metri di distanza dalla casa, in fondo alla strada, quindi Eliza decise di entrare. Sapeva della chiave di scorta nascosta, ma tentò comunque di spingere la porta per vedere se fosse già aperta. Lo era. Entrò, lasciando l’ingresso aperto per Beth.

“Penny,” chiamò. “Hai lasciato la porta aperta. Beth sta arrivando. Ti è arrivato il mio messaggio? Possiamo parlare in privato un minuto prima di iniziare?”

Entrò nell’atrio e aspettò. Ancora nessuna risposta. Passò allora in salotto, dove di solito facevano la loro lezione di yoga. Anche quello era vuoto. Stava per andare verso la cucina, quando Beth entrò.

“Signore, sono qui!” salutò dalla porta.

“Ciao Beth,” disse Eliza volandosi per salutarla. “La porta era aperta, ma Penny non risponde. Non sono sicura di cosa stia succedendo. Magari si è addormentata, oppure è in bagno o qualcosa del genere. Posso controllare di sopra se intanto vuoi prenderti qualcosa da bere. Ci metto un minuto.”

“Nessun problema,” disse Beth. “La mia cliente delle nove e mezza ha annullato la lezione, quindi non sono di fretta. Dille di fare con comodo.”

“Perfetto,” disse Eliza iniziando a salire le scale. “Dacci solo un minuto.”

Era quasi a mezza rampa quando si chiese e non avesse dovuto forse prendere l’ascensore. La camera da letto era al terzo piano e lei non era proprio entusiasta di quella scarpinata. Prima di poterci veramente ripensare, sentì un grido provenire dal piano di sotto.

“Cosa c’è?” esclamò mentre si girava e correva giù.

“Sbrigati!” strillò Beth. “Oh santo Dio! Veloce!”

La sua voce veniva dalla cucina. Eliza partì di corsa non appena fu alla base delle scale, attraversando il salotto e svoltando l’angolo con la cucina.

Sul pavimento della cucina in ceramica spagnola c’era un’enorme pozza di sangue, al centro della quale era riverso il corpo di Penny. Aveva gli occhi spalancati nel terrore, il corpo contorto in un orribile spasmo di morte.

Eliza corse accanto alla sua più cara amica, scivolando sul denso liquido. Il piede scivolò di lato e lei cadde di peso a terra, facendo spruzzare sangue ovunque.

Cercando di controllare gli sforzi di vomito, mise le mani sul petto di Penny. Anche con gli abiti addosso, era fredda. Nonostante tutto Eliza la scosse, come se in qualche modo fosse possibile svegliarla.

“Penny,” la implorò. “Svegliati!”

L’amica non rispose. Eliza sollevò lo sguardo verso Beth.

“Sai come si pratica la rianimazione?” le chiese.

“No,” disse la donna con voce tremante, scuotendo la testa. “Ma penso sia troppo tardi.”

Ignorando il commento, Eliza cercò di ricordare la lezione di rianimazione che aveva seguito anni prima. Era rivolta al soccorso dei bambini, ma di sicuro si potevano applicare gli stessi principi. Aprì la bocca di Penny, le reclinò la testa all’indietro, le chiuse il naso e soffiò con forza nella gola dell’amica.

Poi le si mise a cavalcioni, posò le proprie mani una sopra all’altra e spinse con forza contro lo sterno di Penny. Lo fece una seconda volta e poi una terza, cercando di raggiungere un certo ritmo.

“Oddio,” sentì Beth mormorare, quindi sollevò lo sguardo per vedere cosa stesse succedendo.

“Cosa c’è?” le chiese con voce ansiosa.

“Quando premi, il sangue le esce dal petto.”

Eliza abbassò lo sguardo. Era vero. Ogni compressione causava una lenta perdita di sangue da quelli che apparivano essere degli ampi squarci nella cavità del petto. Eliza sollevò lo sguardo di nuovo.

“Chiama il nove-uno-uno!” gridò, anche se sapeva che non c’era nulla da fare.

*

Jessie, che si sentiva sorprendentemente nervosa, arrivò presto al lavoro.

Con tutte le precauzioni extra che aveva preso in merito di sicurezza, aveva deciso di partire presto per il suo primo giorno di lavoro dopo tre mesi di assenza, in modo da essere certa di arrivare per le nove, l’ora in cui il capitano Decker le aveva detto di presentarsi. Ma avrebbe dovuto impegnarsi a calcolare meglio tutto il tragitto di svolte e scale nascoste, perché non le ci volle poi così tanto per arrivare alla Stazione Centrale.

Mentre andava a piedi dalla struttura del parcheggio all’ingresso centrale del commissariato, i suoi occhi sfrecciavano a destra e a sinistra alla ricerca di qualsiasi cosa fosse fuori posto. Ma poi ricordò la promessa che si era fatta subito prima di addormentarsi la notte precedente. Non avrebbe permesso alla minaccia di suo padre di consumarla.

Non aveva idea di quanto vaghe o specifiche fossero state le informazioni che Bolton Crutchfield aveva dato a suo padre. Non poteva neanche essere certa che l’uomo le avesse detto la verità. Nonostante questo, non c’era molto altro che lei potesse fare rispetto a ciò che già stava facendo. Kat Gentry stava controllando i nastri con le registrazioni delle visite ricevute da Crutchfield. Fondamentalmente viveva in un bunker. Oggi avrebbe avuto la sua arma personale. E oltre a questo doveva vivere la sua vita. Altrimenti sarebbe diventata pazza.

Si diresse verso il corpo centrale del commissariato, un po’ più apprensiva del necessario dopo così tanto tempo. E poi, l’ultima volta che era stata lì, era semplicemente una consulente profiler junior con contratto provvisorio.

Ora il contratto a termine era scaduto e anche se lei era tecnicamente ancora una consulente, era pagata dal Dipartimento di Polizia di Los Angeles e riceveva tutti i benefici connessi. Questo comprendeva l’assicurazione sanitaria, di cui aveva decisamente bisogno, se le esperienze più recenti potevano essere considerate un esempio.

Quando entrò nell’ampia area di lavoro centrale, contenente decine di scrivanie separate tra loro da poco più che pannelli di sughero, respirò e aspettò. Ma non accadde nulla. Nessuno disse niente.

In effetti nessuno parve notare il suo arrivo. Alcune teste erano abbassate nello studio di cartelle di lavoro. Altri erano con gli occhi fissi su persone che avevano davanti, molto spesso testimoni o sospettati in manette.

Jessie si sentì leggermente avvilita. Ma più di questo, si sentiva sciocca.

Cosa mi aspettavo, una festa?

Non era che avesse vinto il mitico Premio Nobel per la risoluzione di casi. Era andata all’accademia di addestramento dell’FBI per due mesi e mezzo. Era una bella cosa, ma nessuno le avrebbe fatto un applauso per questo.

Camminò in silenzio in mezzo al labirinto di scrivanie, passando accanto a detective con cui aveva precedentemente lavorato. Callum Reid, un uomo sui quarantacinque anni, sollevò lo sguardo dalla cartella che stava leggendo. Quando le fece un cenno di saluto, gli occhiali quasi gli caddero dalla fronte, dove li aveva appoggiati.

Anche Alan Trembley, sulla ventina, i suoi ricci biondi come al solito spettinati, portava gli occhiali, ma i suoi erano inforcati sul naso mentre lui interrogava con concentrazione un uomo che sembrava essere ubriaco. Non notò neanche Jessie che gli passava accanto.

Raggiunse la sua scrivania, che era ordinata in modo quasi imbarazzante, si levò la giacca e posò la borsa zainetto. Poi si sedette. Subito vide Garland Moses che usciva lentamente dalla sala del personale, caffè alla mano, diretto al suo ufficio del secondo piano che era fondamentalmente uno sgabuzzino per le scope.

Dava l’idea di essere uno spazio non particolarmente adeguato per il profiler criminale più celebrato che il Dipartimento di Polizia di Los Angeles avesse, ma Moses non sembrava curarsene più di tanto. A dire il vero non erano molte le cose che gli davano fastidio. Aveva più di settant’anni e lavorava come consulente per il dipartimento più che altro per evitare la noia, e in dette circostanze il leggendario profiler aveva la concessione di fare qualsiasi cosa volesse. Era un ex agente dell’FBI e si era trasferito nella Costa occidentale per andare in pensione, ma poi lo avevano convinto a fare da consulente alla centrale. Lui aveva accettato, a condizione di poter scegliere i casi e gli orari di lavoro. Considerata la sua carriera, nessuno al tempo si era opposto, e ancora oggi la cosa andava bene a tutti.

Con un cespo di capelli bianchi in disordine, la pelle rugosa e spessa e un guardaroba che risaliva agli anni Ottanta, aveva la reputazione di essere al meglio scontroso, e decisamente scorbutico quando si arrabbiava. Ma nell’unica interazione significativa che Jessie aveva avuto con lui, lo aveva trovato, se non proprio caloroso, almeno propenso alla conversazione. Avrebbe voluto cogliere più dettagli della sua mente, ma era ancora un po’ timorosa nel confrontarsi con lui direttamente.

Mentre saliva le scale e scompariva alla vista, Jessie si guardò attorno cercando Ryan Hernandez, il detective con cui aveva lavorato più spesso e che reputava il più vicino a poter definire amico. Avevano anche iniziato recentemente a darsi del tu chiamandosi per nome, un grosso passo nella cerchia della polizia.

Si erano effettivamente conosciuti in circostanze non professionali, quando il suo professore universitario lo aveva invitato a parlare durante la sua lezione di psicologia criminale nell’ultimo semestre alla UC Irvine lo scorso autunno. Ryan aveva presentato un caso di studio che Jessie – unica nella sua classe – era stata capace di risolvere. Poi era venuta a sapere di essere stata solo la seconda persona ad averne mai trovato la soluzione.

Dopodiché erano rimasti in contatto. Lei lo aveva chiamato per aiuto dopo che aveva iniziato a nutrire dei sospetti sui moventi di suo marito, ma prima che tentasse di ucciderla. E quando si era nuovamente trasferita nel centro di Los Angeles, aveva trovato lavoro al Dipartimento di Polizia dove lui operava.

Avevano lavorato insieme a numerosi casi, incluso l’omicidio della ricca filantropa Victoria Missinger. Era stata in gran parte la scoperta del killer da parte di Jessie ad assicurarle il rispetto che l’aveva condotta al colpaccio con l’FBI. E tutto questo non sarebbe stato possibile senza l’esperienza e l’istinto di Ryan Hernandez.

In effetti l’uomo era così fortemente stimato che gli avevano assegnato un’unità speciale nel Furto e Omicidio, chiamata Sezione Speciale Omicidi, detta anche SSO in breve. Erano specializzati in casi di alto profilo che davano origine ad alto interesse mediatico e giudizio pubblico. Generalmente si trattava di incendi dolosi, omicidi con più vittime, omicidi di persone note e ovviamente serial killer.

Oltre al suo dono come investigatore, Jessie doveva riconoscere che non era per niente spiacevole passare del tempo con lui. I due avevano un buon rapporto, come se si conoscessero da più di sei mesi. In qualche occasione a Quantico, quando aveva avuto il tempo di fermarsi un attimo, Jessie si era chiesta se le cose sarebbero potute andare diversamente se si fossero incontrati in altre circostanze. Ma al tempo Jessie era già sposata ed Hernandez e sua moglie stavano insieme da più di sei anni.

Proprio in quel momento il capitano Roy Decker aprì la porta del suo ufficio e uscì. Alto, magro e quasi completamente calvo, se non per pochi ciuffi di capelli, Decker non aveva ancora sessant’anni. Ma sembrava molto più anziano, con un volto scavato e rugoso che suggeriva una costante situazione di stress. Aveva il naso adunco e gli occhi piccoli e sempre allerta, come se sempre impegnato in una caccia, cosa che Jessie supponeva fosse reale.

Si portò nello spazio centrale della stazione e qualcuno lo seguì. Era Ryan. Era proprio come Jessie lo ricordava. Alto più o meno un metro e ottantacinque per novanta chili di peso, con i capelli corti neri e gli occhi castani, indossava un completo di giacca e cravatta che nascondeva la sua struttura muscolosa.

Aveva trent’anni, giovane per essere un detective già affermato. Ma aveva fatto rapidamente carriera, soprattutto dopo che aveva contribuito ad arrestare un noto serial killer di nome Bolton Crutchfield quando ancora faceva parte della polizia stradale.

Quando lui e il capitano Decker uscirono, qualcosa che gli disse il capo lo fece sorridere. Era uno di quei sorrisi semplici e disarmanti anche per i sospettati che interrogava. Con sua grande sorpresa, Jessie si sentì reagire in modo inaspettato nel vederlo. Da qualche parte nello stomaco percepì la strana sensazione che non provava da anni: farfalle.

Hernandez la vide e le fece un cenno di saluto mentre insieme al capo le si avvicinava. Lei si alzò in piedi, scocciata dall’inaspettata sensazione e sperando che il movimento la sedasse. Costringendo il cervello a passare alla modalità professionale, cercò di capire, studiando le loro espressioni, di cosa potessero aver parlato in privato. Ma entrambi gli uomini indossavano maschere che suggerivano il loro tentativo di tenere nascosto il contenuto della loro discussione privata. Jessie però notò una cosa: Ryan sembrava stanco.

“Bentornata, Hunt,” disse Decker con tono sbrigativo. “Spero che il tempo passato in Virginia sia stato illuminante.”

“Veramente molto, signore,” rispose.

“Eccellente. Anche se mi piacerebbe un sacco sentire i particolari, dovremo aspettare per il momento. Invece metterai subito a frutto le tue nuove abilità. Hai un caso.”

“Signore?” disse lei, leggermente sorpresa. Aveva pensato che il capo avrebbe voluto aspettare che lei si ambientasse e capisse i suoi nuovi doveri nel ruolo di profiler a tempo pieno.

“Hernandez te ne spiegherà i dettagli strada facendo,” disse Decker. “Il caso è un po’ delicato e sono stati richiesi nello specifico i tuoi servizi.”

“Davvero?” chiese Jessie, pentendosi subito di aver dimostrato tanto entusiasmo nella voce.

“Davvero, Hunt,” rispose Decker, leggermente accigliato. “A quanto pare ti sei guadagnata una certa reputazione in quanto Sussurratrice di Periferia. Non posso aggiungere altro adesso. Basti dire che la gente di sopra vuole che questo caso sia gestito con delicatezza. Mi aspetto che tu lo tenga a mente mentre procedi.”

“Sì signore.”

“Bene. Ci possiamo aggiornare più tardi,” le disse. Poi si girò e si allontanò senza aggiungere un’altra parola.

Ryan, che non aveva parlato fino a quel momento, finalmente aprì bocca.

“Bentornata a casa,” le disse. “Come va?”

“Non malissimo,” disse lei, ignorando quella sensazione allo stomaco che era improvvisamente tornata. “Mi sto reintroducendo nel flusso delle cose.”

“Bene, rituffarsi a capofitto dovrebbe essere di aiuto,” commentò lui. “Dobbiamo uscire subito.”

“Ho tempo di prendere l’arma che ho richiesto prima di andare a Quantico?”

“Ho controllato per te questa mattina presto,” disse lui mentre iniziavano ad attraversare l’ufficio centrale. “Purtroppo ci sono stati degli inghippi burocratici e non è ancora stata preparata. Ho risolto i problemi con le carte, ma probabilmente non avrai la tua pistola fino alla prossima settimana. Immagino che tu possa sopravvivere usando solo il tuo cervello come arma per qualche giorno, no?”

Le sorrise, ma Jessie notò una cosa che non aveva colto prima. Aveva le borse sotto agli occhi, che erano a loro volta un po’ arrossati.

“Certo,” gli rispose annuendo, cercando di tenere il passo con la sua camminata rapida. “Va tutto bene?”

“Sì, perché?” le chiese, voltandosi a guardarla.

“Sembri solo un po’… stanco.”

“Sì,” le rispose, guardando dritto davanti a sé mentre parlava. “Ho qualche problema a dormire ultimamente. Shelly e io ci stiamo separando.”

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Yaş sınırı:
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Litres'teki yayın tarihi:
15 nisan 2020
Hacim:
271 s. 2 illüstrasyon
ISBN:
9781094311012
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