Kitabı oku: «La Porta Accanto», sayfa 3
“Vuoi che metta su del caffè?” chiese Danielle.
“Sì, sarebbe fantastico.”
Andarono in cucina, che come il soggiorno aveva solo lo stretto necessario. Il tavolo era stato chiaramente comprato ad una svendita, e ad abbellirlo c’era solo una tovaglia stropicciata. Due sedie solitarie erano ai lati opposti.
“Sei qui per obbligarmi a venire alla festa di quartiere?” chiese Danielle.
“Niente affatto” disse Chloe. “Oggi durante il tirocinio mi sono trovata su una scena del crimine che… Insomma, ha riportato tutto alla mente.”
“Ahia.”
Tra loro calò il silenzio mentre Danielle preparava la caffettiera. Chloe osservò la sorella muoversi in cucina, un po’ inquietata dal fatto che non sembrasse minimamente cambiata. Quella che aveva davanti potuto benissimo essere la ragazzina diciassettenne che se n’era andata di casa con la speranza di mettere su una band, nonostante le proteste dei nonni. Tutto sembrava uguale, compresa l’espressione assonnata.
“Sai qualcosa di papà?” chiese Chloe.
Danielle si limitò a fare di no con la testa. “Con il tuo lavoro, pensavo che avresti potuto imparare tu qualcosa. Sembra che ci sia qualcosa da sapere.”
“Ho smesso di informarmi qualche tempo fa.”
“Facciamo un brindisi a questo” disse Danielle, coprendo uno sbadiglio con il dorso della mano.
“Mi sembri stanca” disse Chloe.
“Perché è così. Solo che non è semplice stanchezza. Il dottore mi aveva dato degli stabilizzanti dell’umore; sono stati quelli a incasinarmi il sonno. E quando lavori in un bar e di solito non rientri prima delle tre del mattino, l’ultima cosa che ti serve sono farmaci che ti scombussolino i ritmi.”
“Hai detto che il dottore ti dava delle medicine. Non le prendi più?”
“No. Interferivano con il sonno, l’appetito, la libido. Da quando ho smesso, mi sento molto meglio… Solo che sono sempre stanca.”
“Ma perché te le ha prescritte?” chiese Chloe.
“Per poter sopportare la mia sorella ficcanaso” disse Danielle, scherzando solo in parte. Dopo un istante, le rispose in modo sincero. “Iniziavo a diventare facilmente depressa. Mi capitava all’improvviso. E io gestivo la cosa in modo… Piuttosto stupido. Alcol, sesso, Una casa su misura.”
“Se erano per la depressione, probabilmente dovresti ricominciare a prenderle” disse Chloe, realizzando mentre lo diceva che si stava comportando in modo invadente. “E comunque, a che ti serve la libido?” chiese con una risatina.
“Per quelle di noi che non stanno per sposarsi, è piuttosto importante. Non possiamo semplicemente sdraiarci sul letto e farci scopare quando ci pare e piace.”
“Non hai mai avuto problemi a trovare ragazzi, prima” le fece notare Chloe.
“È ancora così” disse Danielle portando le tazze di caffè al tavolo. “Solo che ci vuole troppo impegno. Soprattutto adesso. Quello nuovo è un ragazzo serio. Abbiamo deciso di fare le cose con calma… diciamo.”
“Infatti è l’unico motivo per cui sposerò Steven, lo sai” disse Chloe, cercando di imitare il suo tono scherzoso. “Mi ero stancata di dovermi impegnare per trovare qualcuno con cui poter fare sesso.”
Entrambe si misero a ridere. Sarebbe dovuto sembrare naturale ridere insieme di nuovo, invece in qualche modo sembrava forzato.
“Allora, che mi racconti, sorellina?” Chiese Danielle. “Non è da te fare improvvisate. Non che io possa saperlo, dato che non ce n’è stata occasione per quasi due anni.”
Chloe annuì, ricordando l’unica volta in cui avevano passato insieme del tempo nel corso degli ultimi anni. Danielle si era trovata a Philadelphia per un concerto, e dopo aveva passato la notte da Chloe, nel suo appartamento. Avevano parlato per un po’, ma non molto. Danielle era esausta ed era crollata sul divano. Nei loro discorsi erano saltati fuori la madre e il padre. Fu l’unica volta in cui Chloe sentì Danielle dire apertamente di volerlo andare a trovare.
“Quella scena stamattina” disse Chloe. “Mi ha fatto ripensare a quella mattina fuori da casa nostra. Continuavo di vedere il sangue in fondo alle scale e non ho retto. Credevo di stare per vomitare. E io non sono quel tipo di persona, sai? La scena del crimine era “alla vaniglia”, se paragonata ad altra roba che ho visto. È solo che mi ha colpito. Mi ha fatto pensare a te e al fatto che volessi vederti. Ha senso?”
“Sì. Gli stabilizzanti dell’umore… Sono quasi sicura che la mia depressione derivi dagli incubi che faccio su mamma e papà. Ogni volta che li avevo stava da schifo per giorni. Addirittura non volevo neanche uscire dal letto e non mi fidavo di nessuno.”
“In realtà avevo intenzione di chiederti come affrontassi tu la cosa quando ripensi a quello che è successo, ma immagino che adesso conosco la risposta, eh?”
Danielle annuì e distolse lo sguardo. “Farmaci.”
“Stai bene?”
Danielle si strinse nelle spalle, ma era come se avesse mostrato a Chloe il dito medio. “Siamo insieme da 10 minuti e hai già tirato fuori l’argomento. Cristo, Chloe… Non hai ancora imparato a vivere la tua vita senza rivangare sempre il passato? Se non ti ricordi, quando mi hai chiamato per dirmi che ti saresti trasferita a Pinecrest, avevamo deciso di non parlarne. Acqua passata, ricordi?”
Chloe fu colta alla sprovvista. Aveva appena visto Danielle passare da impassibile e sarcastica a furiosa in un battito di ciglia. Certo, quell’argomento era un tasto dolente, ma la reazione di Danielle sembrava bipolare.
“Da quant’è che smesso di prendere le medicine?” chiese Chloe.
“Fottiti.”
“Da quanto?”
“Tre settimane, giorno più giorno meno. Perché?”
“Perché sono qui da quindici minuti e riesco già a capire che ne hai davvero bisogno.”
“Grazie, dottoressa.”
“Promettimi che ricomincerai a prenderle, d’accordo? Ti voglio al mio matrimonio. Sei la damigella d’onore, ricordi? Per quanto possa sembrarti egoista, vorrei che tu ti divertissi. Perciò, per favore, ricomincia a prenderle, d’accordo?”
Questo sortì un effetto su Danielle. Sospirò e rilassò le spalle. Adesso riusciva di nuovo a guardar e Chloe negli occhi e, anche se era ancora arrabbiata, c’era anche dell’affetto nel suo sguardo.
“D’accordo” disse.
Si alzò da tavola e andò verso una piccola cesta di vimini sul bancone della cucina. Tirò fuori un flacone di medicinali, lo aprì prendendo una pillola, e la mando giù con il caffè.
“Grazie” disse Chloe. Poi proseguì, percependo che c’era ancora qualcosa che non andava. “Per il resto, tutto bene?”
Daniele ci pensò su per un momento e Chloe la colse a lanciare una rapida occhiata verso la porta d’ingresso. Fu molto breve, ma le parve di cogliere paura nel suo sguardo; anzi, Chloe ne era certa.
“Sì, tutto bene.”
Chloe conosceva abbastanza la sorella da sapere che insistere non sarebbe servito.
“Allora, che accidenti è una festa di quartiere?” chiese Danielle.
Chloe rise; aveva quasi dimenticato la capacità Danielle di cambiare drasticamente argomento con la grazia di un elefante in una cristalleria. E così, si misero a parlare d’altro. Chloe osservava la sorella per controllare se guardasse di nuovo verso la porta con timore, ma non successe.
Eppure, Chloe sentiva che c’era qualcosa di strano. Magari dopo qualche tempo insieme, Danielle avrebbe confessato.
Ma cosa può essere? si domandò Chloe, lanciando uno sguardo verso la porta.
Fu allora che realizzò che non conosceva per niente sua sorella. Una parte di lei sembra ancora la ragazzina diciassettenne dal look gotico che Chloe conosceva così bene. Ma c’è anche qualcosa di nuovo in Danielle, adesso… Qualcosa di più oscuro.
Qualcosa per cui era costretta ad assumere farmaci che tenessero il suo umore sotto controllo e che la aiutassero a dormire e a vivere normalmente.
Chloe si rese conto in quel momento di avere paura per sua sorella e di volerla aiutare in ogni modo possibile.
Anche se avesse significato scavare nel passato.
Ma non adesso. Forse dopo il matrimonio. Dio solo sapeva le emozioni represse che sarebbero riaffiorate parlando della morte della madre e dell’arresto del padre. Eppure, Chloe sentiva i fantasmi del suo passato più forti che mai, seduta lì con Danielle, e questo la portò a chiedersi quanto dovesse esserne perseguitata la gemella.
Quali fantasmi si annidavano nella mente di Danielle? E cosa le stavano dicendo?
Sentiva, come quando stava per scatenarsi un temporale, che qualunque cosa Danielle stesse reprimendo, alla fine l’avrebbe coinvolta. Avrebbe coinvolto il suo nuovo fidanzato, la sua nuova casa. La sua nuova vita, E non avrebbe portato nulla di buono.
CAPITOLO CINQUE
Danielle era seduta sulla poltrona, con la schiena appoggiata a Martin, una gamba allungata sopra quella di lui, ed era perfettamente consapevole di non indossare le mutandine sotto i pantaloni del pigiama. Non che avesse importanza; per qualche motivo, lui l’aveva respinta la scorsa notte, nonostante fosse senza reggiseno e indossasse delle mutandine succinte. A quanto pareva Martin stava prendendo molto sul serio questa storia dell’andarci piano.
Danielle stava iniziando a pensare che Martin cercasse di essere un gentiluomo, oppure che non fosse attratto sessualmente da lei, il che era difficile a credersi, poiché Danielle poteva letteralmente sentire la prova della sua attrazione strofinarsi contro le sue gambe ogni volta che pomiciavano. Cercò di non prendersela. Anche se si sentiva sessualmente frustrata, era degno di nota aver trovato finalmente un uomo che non voleva solo sesso.
Quella sera era un ottimo esempio. Avevano deciso di restarsene tranquilli a casa di lei, a guardare un film. Prima avevano parlato della giornata di Martin, anche se, in quanto vicedirettore di una copisteria, gli spunti di discussione erano limitati. Era come ascoltare qualcuno che raccontava di come la pittura si seccava. Per quanto riguardava Danielle, lei detestava parlare della sua giornata lavorativa. Fare la barista in un ristorante era noioso. Per la maggior parte del tempo stava seduta a leggere. Le serate erano piene di storie da condividere, ma dopo aver dormito ed essersi svegliata all’una del pomeriggio, non voleva tirarle fuori di nuovo.
Dopo la conversazione, si erano baciati un po’ ma era stato tutto molto casto. Ancora una volta, per Danielle non era un problema. Inoltre, fin dalla visita di Chloe, si era sentita giù di morale. Gli stabilizzatori dell’umore probabilmente non avrebbero iniziato a fare effetto prima della seconda dose, che avrebbe preso prima di andare a letto.
Grazie alla visita di Chloe, Danielle aveva ricominciato a pensare alla madre, al padre e a quell’infanzia che era passata come uno schiocco di dita. Tutto ciò che voleva era stare tra le braccia di Martin, anche se faceva fatica ad ammetterlo con se stessa.
Avevano scelto uno dei suoi DVD, Le ali della libertà, e si erano accoccolati sul divano come una coppia di scolaretti nervosi e alle prime armi. Un paio di volte la mano di lui era scesa lungo la sua schiena, e Danielle si era chiesta se stesse prendendo l’iniziativa. Invece non si era spinto oltre, il che era al tempo stesso piacevole e snervante.
Inoltre si era accorta che il suo cellulare aveva suonato un paio di volte. Era sul tavolino davanti a loro, ma Martin non guardò chi fosse. All’inizio Danielle immaginò che volesse semplicemente essere educato e non interrompere il loro appuntamento. Ma dopo un po’, dopo il settimo o ottavo trillo, la cosa iniziava a darle sui nervi. Proprio durante la scena in cui Tim Robbins si chiude nell’ufficio del direttore e trasmette dagli altoparlanti un’opera lirica per i detenuti del carcere di Shawshank, trillò ancora una volta. Danielle guardò prima il telefono, poi Martin.
“Non guardi chi è?” chiese. “Si vede che qualcuno ha proprio bisogno di te.”
“No, non credo” disse lui. La strinse di più a sé e si stiracchiò. Adesso erano sdraiati uno di fianco all’altra. Volendo, Danielle avrebbe potuto facilmente baciargli il collo. Osservò il pezzetto di pelle nuda e ci pensò, chiedendosi come avrebbe reagito lui se oltre a baciarlo gli avesse fatto scorrere lentamente la lingua sul collo.
Il telefono trillò di nuovo. Danielle ridacchiò e, senza preavviso, si sporse oltre il petto di Martin, afferrò il telefono e se lo portò al petto. Non riuscendo a togliere la schermata di blocco, chiese “qual è la tua pass…”
Martin le strappò con violenza il cellulare di mano. Sembrava più sorpreso che arrabbiato. “Perché diavolo l’ha fatto?” sbottò.
“Così” disse lei. “Per scherzo. Guarda che puoi usare il cellulare mentre sei com’è. Non mi dà fastidio. Però se si tratta di un’altra ragazza, potrei dover attivare la modalità stronza.”
“Non ho bisogno che tu mi dica come usare il mio cellulare” scattò lui.
“Ehi, aspetta. Non c’è bisogno di scaldarsi tanto, stavo solo scherzando.”
Lui sogghignò e si mise il telefono in tasca. Sospirò e si alzò, a quanto pare non più interessato a restare lì a coccolarla.
“Ah, allora sei uno di quelli” disse Danielle, in bilico tra lo scherzo e la troppa insistenza. “Uno di quelli che protegge il telefonino come se fosse il suo cazzo.”
“Lascia perdere” disse lui. “Non ti fissare così.”
“Io? Martin, credevo che mi avresti spezzato il polso per togliermelo di mano.”
“Be’, non è mica il tuo cellulare, no? Non ti fidi di me?”
“Non lo so” disse lei alzando la voce. “Non è che ci frequentiamo da così tanto. Cristo, non c’è bisogno di essere così sulla difensiva.”
Martin alzò gli occhi al cielo, poi tornò a guardare la TV. Era un gesto sprezzante, che la fece incazzare. Danielle scosse la testa e, facendo del proprio meglio per mantenere un atteggiamento scherzoso, si mise a cavalcioni su di lui. Allungò una mano come puntando alla zip dei suoi pantaloni, poi invece la infilò nella tasca dove aveva messo cellulare. Con l’altra mano iniziò a fargli il solletico sul fianco destro.
Martin fu colto alla sprovvista, non sapendo bene come reagire. Eppure, nell’istante in cui le dita di lei toccarono il telefonino, fu come se qualcuno avesse schiacciato un interruttore. Le afferrò un braccio e lo tirò verso l’altro con una stretta poderosa. Poi se la tolse di dosso senza lasciarle andare il braccio. Le faceva un male cane, ma non gli avrebbe dato la soddisfazione di sentirla gridare dal dolore. La sua velocità e la sua forza le ricordarono che un tempo praticava la boxe amatoriale.
“Ehi, cazzo, lasciami il braccio!”
Lui lo fece, guardandola con espressione stupita. Il suo sguardo le fece capire che non aveva intenzione di essere così violento. Aveva sorpreso persino se stesso, ma era anche arrabbiato; le sopracciglia aggrottate e le spalle che tremavano di rabbia ne erano la prova.
“Adesso devo andare” disse lui.
“Sì, buona idea” disse Danielle. “E non disturbarti a richiamarmi se non ha intenzione di scusarti.”
Lui scosse la testa, ma Danielle non era sicura se fosse per le proprie azioni o se fosse rivolto a lei. Lo osservò andarsene dalla porta, chiudendosela alle spalle con un movimento deciso. Danielle rimase seduta sul divano, guardando verso la porta per parecchi secondi mentre cercava di capire cosa fosse successo di preciso.
Non vuole scopare con me e salta fuori che ha un temperamento aggressivo, pensò. Quel tipo potrebbe rivelarsi più un problema che altro.
Naturalmente era sempre stata attratta da quel genere di uomini.
Si guardò il braccio e vide dei segni rossi nei punti in cui l’aveva afferrata. Era sicura che le sarebbero venuti i lividi. Non sarebbe stata la prima volta che un ragazzo alzava le mani con lei, ma non se lo sarebbe aspettata da Martin.
Accarezzò l’idea di andargli dietro per capire cosa gli fosse preso. Invece rimase sul divano a guardare il film. Se il passato le aveva insegnato qualcosa, era che non valeva la pena correre dietro agli uomini. Nemmeno a quelli che parevano troppo belli per essere veri.
Finì di guardare film da sola e decise di finire lì la serata. Mentre spegneva le luci, ebbe la sensazione di essere osservata, di non essere da sola. Sapeva che era ridicolo, naturalmente, eppure non poté fare a meno di guardare verso la porta d’ingresso, dove il giorno prima (e molte altre volte ancora) la busta era apparsa come dal nulla.
Rimase sul divano a osservare l’ingresso, quasi aspettandosi che un’altra lettera venisse fatta scivolare al di sotto dell’uscio. Venti minuti più tardi, quando si alzò e iniziò a prepararsi per andare a lavorare, lo fece con tutte le luci della casa accese.
Lentamente, una paranoia strisciante prese ad agitarsi dentro di lei. Era una sensazione familiare, che era diventata quasi un amico nel corso degli anni, un amico molto intimo da quando avevano iniziato ad arrivare quelle lettere.
Pensò ai medicinali e si chiese per un momento se stesse succedendo tutto nella sua testa. Tutto quanto. Incluse le lettere.
C’era qualcosa di reale?
La sua mente andò automaticamente indietro nel tempo, ricordandole quell’oscurità alla quale credeva di essere sfuggita.
Stava perdendo di nuovo la testa?
CAPITOLO SEI
Chloe sedeva nella sala d’aspetto, guardando la scarsa selezione di letture sul tavolino. In seguito alla morte della madre aveva visto due psicoterapeuti, ma non aveva mai compreso lo scopo di quelle sedute. Adesso invece, all’età di ventisette anni, sapeva perché si trovava lì. Seguendo il consiglio di Green, aveva chiamato lo psicoterapeuta del Bureau per prendere appuntamento e parlare della reazione che aveva avuto il giorno prima di fronte alla scena del crimine. Stava cercando di ricordare gli uffici in cui era stata da bambina, quando la voce di una donna la chiamò dall’altro lato della stanza: “Signorina Fine?”
Chloe era così assorta nei suoi pensieri che non aveva sentito aprirsi la porta della sala d’attesa. Una donna dall’aspetto gradevole le stava facendo segno con la mano. Chloe si alzò in piedi e fece del proprio meglio per non sentirsi una fallita, mentre seguiva la donna lungo il corridoio verso l’ufficio.
Ripensò a ciò che le aveva detto Green il giorno prima, mentre prendevano il caffè insieme. Nella sua mente le sue parole erano ancora fresche, anche perché era stato il primo consiglio datole da un agente con molta esperienza, da quando aveva iniziato la sua carriera.
“Durante il mio primo anno sono stato parecchie volte in analisi. La mia quarta scena del crimine era un omicidio suicidio. Quattro corpi in totale. Uno apparteneva a un bambino di tre anni. Mi ha sconvolto nel profondo. Ecco perché mi sento di poterle dire senza esitazione che… la terapia funziona. Soprattutto se inizia a questo stadio della sua carriera. Ho visto agenti credersi dei duri che non avevano bisogno di aiuto. Non sia uno di quelli, Fine.”
Perciò, no… Avere bisogno di uno psicoterapeuta non faceva di lei un agente fallito. Anzi, sperava che l’avrebbe resa più forte.
Entrò nell’ufficio e vide un signore sulla sessantina seduto ad una grande scrivania. Dalla finestra dietro la scrivania si vedeva una piccola siepe con farfalle che vi svolazzavano sopra. Il nome dello psicoterapeuta era Donald Skinner, e praticava quella professione da più di trent’anni. Chloe lo sapeva perché lo aveva cercato su Google prima di decidersi a prendere appuntamento. Skinner era molto calmo e composto; sembrava quasi che la sua presenza si espandesse fino a riempire la stanza quando si alzò per andarle incontro.
Le fece cenno di sedersi su una poltrona dall’aria confortevole sistemata al centro della stanza.
“Prego, si metta comoda.” Le disse.
Chloe si sedette, visibilmente nervosa. Si rendeva conto che probabilmente si stava sforzando troppo per nasconderlo.
“L’ha mai fatto prima?” domandò Skinner.
“Quando ero molto più giovane” rispose lei.
L’uomo annuì mentre prendeva posto in una poltrona identica alla sua, posizionata proprio di fronte a lei. Una volta seduto, accavallò le gambe e intrecciò le mani.
“Signorina Fine, perché non mi racconta di lei… Di cosa l’ha portata qui, oggi.”
“Da dove devo partire?” fece lei, a mo’ di battuta.
“Per ora concentriamoci solo sulla scena del crimine di ieri” rispose Skinner.
Chloe si prese un momento per riflettere, quindi iniziò a raccontare. Raccontò tutto, aggiungendo persino qualche particolare che riguardava il suo passato, per fargli avere un quadro più completo della situazione. Skinner rimase attento in ascolto, poi rimuginò su quanto gli era stato riferito.
“Mi dica” disse Skinner. “Tra tutte le scene del crimine che ha visto ad oggi, è stata quella di ieri la più raccapricciante?”
“No. Però è stata quella più sanguinolenta che mi è stato permesso di vedere davvero.”
“Perciò lei è disposta ad ammettere tranquillamente che è stato quell’evento del suo passato a causare la sua reazione?”
“Immagino di sì. Insomma, non mi era mai successo prima. E anche quando sembrava che qualcosa fosse sul punto di turbarmi, riuscivo a fermarlo in tempo.”
“Capisco. E mi dica, ci sono altri fattori che potrebbero essere entrati in gioco? È una nuova città. Ha un nuovo istruttore, una nuova casa. Ci sono stati molti cambiamenti.”
“Mia sorella gemella” disse Chloe. “Vive qui a Pinecrest. Forse… Forse l’idea di rivederla dopo un anno ha contribuito alla mia crisi, oltre alla scena in sé.”
“Sì, potrebbe essere” disse Skinner. “La prego di scusarmi se le faccio una domanda così semplice, ma è stato l’omicidio di sua madre a spingerla a intraprendere una carriera nell’FBI?”
“Sì. All’età di dodici anni sapevo che era questo che volevo fare.”
“E sua sorella? Lei cosa fa?”
“Lavora in un bar. Credo che le piaccia perché deve sforzarsi di essere socievole solo per un paio d’ore al giorno, dopodiché può andarsene casa e dormire fino a mezzogiorno.”
“E lei ricorda quel giorno bene quanto lei? Ne avete parlato insieme?”
“Sì, ne abbiamo parlato, ma lei non è mai scesa nei dettagli. Ogni volta che ci provo, mi zittisce praticamente subito.”
“Allora scenda in questi dettagli con me, adesso” disse Skinner. “È evidente che ha bisogno di parlarne, perciò perché non farlo con me… che sono imparziale?”
“Be’, come le ho detto poco fa, a quanto pare si è trattato di un semplice ma sfortunato incidente.”
“Eppure suo padre è stato arrestato” le fece notare Skinner. “Perciò a me, che sono una persona che non ha familiarità con il caso, non sembra proprio che si tratti di un incidente. Mi incuriosisce come possa affermare così tranquillamente che sia trattato di un incidente. Perciò provi a rivivere i fatti. Cosa è successo quel giorno? Cosa si ricorda?”
“Be’, è stato un incidente, ma è stato causato da mio padre. Ecco perché è stato arrestato. Non ha nemmeno mentito in proposito. Lui era ubriaco, mia madre l’aveva fatto arrabbiare e così l’ha spinta.”
“Le sto dando la possibilità di scendere nei particolari, e questo è tutto quello che ha da dirmi?” chiese Skinner in tono amichevole.
“Ecco, molte parti sono sfuocate” ammise Chloe. “Ha presente come accade spesso con i ricordi, che sono come avvolti da una nebbia?”
“Certo, certo. Allora… Voglio provare qualcosa con lei. Dato che questa è la prima volta che ci vediamo, non ho intenzione di provare l’ipnosi. Però voglio tentare un’altra terapia altrettanto efficace. È quella che alcuni chiamano “terapia temporale”. Spero che oggi ci possa servire per tirare fuori dalla sua mente ulteriori particolari di quella giornata; particolari che sono già nella sua mente, ma che è come se fossero nascosti perché lei ha paura di vederli. Si continuerà a fare le sedute con me, questa tecnica ci aiuterà a estirpare la paura e l’angoscia che si risvegliano in lei ogni volta che deve affrontare il ricordo di quel giorno. Che gliene pare? È disposta a provare oggi?”
“Sì” rispose senza esitazione.
“D’accordo, bene. Allora… Iniziamo da dove era seduta. Voglio che chiuda gli occhi e si rilassi. Si prenda qualche secondo per liberare la mente e mettersi comoda. Mi faccia un cenno quando si sente pronta.”
Chloe fece come le era stato detto. Si appoggiò allo schienale. La poltrona era in ecopelle ed era molto comoda. Si sentiva le spalle contratte, per il disagio di mostrarsi così vulnerabile davanti ad una persona che non aveva mai visto prima. Prese un profondo respiro e sentì i muscoli rilassarsi. Sprofondò nella poltrona e ascoltò il ronzio dell’aria condizionata. Rimase sintonizzata su quel suono per qualche istante, quindi fece un cenno del capo. Era pronta.
“D’accordo” disse Skinner. “Lei è fuori sulla gradinata del palazzo con sua sorella. Ora, anche se non ricorda esattamente le scarpe che indossava quel giorno, voglio che immagini di guardarsi i piedi, le scarpe. Voglio che si concentri su quelle e su nient’altro, solo sulle scarpe che indossava quel giorno quando aveva dieci anni. Lei e sua sorella siete sulla gradinata d’ingresso, ma tenga gli occhi solo sulle scarpe. Me le descriva.”
“Sono delle Chuck Taylor” disse Chloe. “Rosse. Consumate. Con i lacci larghi e flosci.”
“Perfetto, adesso studi quei lacci. Si concentri solo su di essi. Poi voglio che si alzi senza distogliere lo sguardo dai lacci. Si alzi e ritorni nel punto in cui era prima di scoprire il sangue sulla moquette ai piedi delle scale. Voglio che torni indietro di un paio d’ore, ma senza smettere di guardarsi i lacci delle scarpe. Pensa di riuscirci?”
Chloe sapeva di non essere sotto ipnosi, ma le istruzioni sembravano davvero semplici. Così chiare e facili. Nella sua mente, si alzò e tornò dentro l’appartamento. Una volta dentro, vide il sangue, vide sua madre.
“Ecco la mamma in fondo alle scale” disse. “C’è un sacco di sangue. Danielle è da qualche parte che piange. Papà cammina avanti e indietro.”
“D’accordo, ma guardi solo i lacci delle scarpe” le rammentò Skinner. “Adesso provi ad andare ancora più indietro. Ci riesce?”
“Certo, è facile. Sono insieme a Beth… una mia amica. Siamo appena tornate dal cinema. Sua madre ci ha riaccompagnate. Mi ha fatto scendere ed è rimasta sul marciapiede finché non sono entrata nel palazzo. Lo faceva sempre, non se ne andava finché non mi vedeva entrare.”
“Ok. Adesso continui a guardare i lacci delle scarpe mentre scende dall’auto e sale le scale. Poi mi racconti resto del pomeriggio.”
“Sono entrata nel palazzo e poi sono salita fino a secondo piano, dov’era il nostro appartamento. Quando mi sono avvicinata alla porta e ho preso le chiavi per aprire, da dentro ho sentito mio padre. Poi sono entrata, ho chiuso la porta e sono andata in soggiorno, ma ho visto il corpo della mamma. Era ai piedi delle scale. Il braccio destro era incastrato sotto il corpo. Il naso sembrava rotto e c’era sangue dappertutto. Il suo viso era quasi completamente sporco di sangue.
Il sangue aveva imbrattato tutta la moquette alla base delle scale. Credo che mio padre abbia cercato di spostare il corpo…”
La voce di Chloe si affievolì. Trovava sempre più difficile restare concentrata su quei vecchi lacci delle scarpe. La scena era troppo vivida perché potesse ignorarla.
“Danielle è lì in piedi, proprio davanti alla mamma. Ha le mani e i vestiti sporchi di sangue. Papà sta urlando al telefono, chiedendo di mandare in fretta qualcuno perché c’è stato un incidente. Quando chiude la conversazione, mi guarda e inizia a piangere. Lancia il telefono dall’altra parte della stanza, facendolo rompere contro il muro. Poi viene verso di noi e si china, dicendo che gli dispiace… Dicendo che l’ambulanza sta arrivando. Poi guarda Danielle e farfuglia qualcosa tra le lacrime, che noi capiamo a malapena. Sta dicendo che Danielle deve andare di sopra a cambiarsi i vestiti.
“È quello che fa, e io la seguo. Le chiedo cosa è successo ma lei non vuole parlarmi. Non sta neanche piangendo. Dopo un po’ sentiamo il suono delle sirene. Ci sediamo insieme a papà, aspettando che ci dica cosa succederà. Ma non ce l’ha mai detto. Arriva l’ambulanza, poi la polizia. Un poliziotto gentile ci accompagna fuori sulle scale e rimane con noi finché papà non viene portato via ammanettato. Finché non portano fuori il corpo della mamma…”
All’improvviso l’immagine dei lacci consunti delle scarpe svanì e Chloe era di nuovo a sedere sulla scalinata, che aspettava che la nonna l’andasse a prendere. Il poliziotto in sovrappeso era con lei e, anche se non lo conosceva, la faceva sentire al sicuro.
“Tutto ok?” Chiese Skinner.
“Sì” disse Chloe con un sorriso nervoso. “La parte di papà che lancia il telefonino… Me l’ero completamente dimenticata.”
“E cosa ha provato ricordando?”
Era una domanda difficile. Suo padre era sempre stata una persona irascibile, ma vederlo compiere quel gesto dopo quello che era appena successo a sua madre lo faceva quasi apparire debole, vulnerabile.
“Sono rattristata per lui.”
“Lo ha mai incolpato per la morte di sua madre da quando è successo?” Chiese Skinner.
“A essere sincera, dipende dai giorni. Dipende dal mio umore.”
Skinner annuì e abbandonò la sua posizione, alzandosi e guardandola con un sorriso rassicurante.
“Credo che per oggi possa bastare. La prego di chiamarmi se le capita di avere un’altra reazione del genere davanti ad una scena del crimine. E, comunque, vorrei che ci rivedessimo. Potremmo fissare un appuntamento?”
Chloe ci pensò su, poi annuì. “Va bene, ma sto per sposarmi e ho ancora molte cose da preparare; i fiori, la torta… È un incubo. Posso richiamarla con una data più precisa?”
“Certamente. Fino ad allora… Rimanga vicina all’agente Greene. È un brav’uomo. E ha fatto bene a mandarla da me. Voglio che lei sappia che, essendo all’inizio della sua carriera, il fatto che sia dovuta venire da uno psicoterapeuta per risolvere i suoi problemi non significa nulla. Non è indicativo del suo talento.”
Chloe annuì. Lo sapeva, ma era comunque bello sentirlo dire la Skinner. Si alzò e lo ringraziò. Mentre usciva dalla porta per tornare nella sala d’aspetto, rivide il padre che lanciava il telefonino. Poi però le sovvenne anche un commento che aveva fatto; non che se lo fosse scordato, ma fino a quel giorno era rimasto confuso.
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