Kitabı oku: «Il peccato di Loreta», sayfa 11
Ma tutti i generosi conati del giovane si fransero inutili contro la inalterabile freddezza della contessa. In quel frangente decisivo una vigoria, di cui ognuno l'avrebbe supposta incapace, era venuta in lei come per incanto. Era la madre, che sorgeva a difesa disperata de' suoi affetti: la madre, che memore delle mille dubitanze avute per la salute, per la pace, per la vita dei suoi figli-dubitanze avvalorate dal mònito della scienza e ingigantite dalla grandezza dell'affetto-vedeva ora in quell'amore la minaccia più forte, l'imminenza di quel momento fatale, di cui ella aveva sempre tremato.
Animata da questi potenti pensieri, nè obbliando in pari tempo quel sentimento alto di casta, che era stato per lei una legge in ogni fase della sua vita, ella si sentì la forza per imporsi a suo figlio. La madre tenera, arrendevole, indulgente, che aveva fin allora dominato sull'animo de' figli unicamente con l'affetto, s'imponeva ora con la severa manifestazione di una volontà inflessibile. Alvise, dinanzi al rapido mutamento di donna Laura, non seppe più trovare il primiero coraggio: di fronte a quella nuova energia, che non lasciava adito a speranze, si vide ridivenuto fanciullo, inabile ad ogni opposizione, forzato ad una obbedienza tacita e riverente.
Dell'istantaneo abbattimento, in cui col suo ascendente era riuscita a piegare il figlio, donna Laura pensò di dover trarre il partito migliore per raggiungere nel modo più sollecito e radicale il fine cui ella tendeva. La sera stessa, senz'ammettere alcuna dilazione, obbligò suo figlio a lasciare Arsizzo: sua cognata, la contessa Maria Luigia Polverari-Nathan, che si trovava a villeggiare dopo lunga assenza dall'Italia appunto in quei giorni a Bordighera, aveva scritto più volte pregando Alvise di venire a passare con lei qualche settimana: la partenza appariva dunque naturale e giustificata. Ed Alvise, un po' per incapacità di opporsi a sua madre, che vedeva troppo sofferente ed irritata, ed un po' anche con la speranza che mostrandosi ora pieghevole potesse aver adito a rinnovare poi con più fortuna qualche tentativo per ismuoverla dalle sue decisioni, turbatissimo, col pensiero sempre fisso a Loreta ed addolorato intensamente che gli fosse conteso ogni modo di lasciarle almeno un cenno di saluto, di promessa, di intesa, partì come sua madre gli aveva ingiunto.
Fra donna Laura e Loreta le spiegazioni furono brevissime. Allorchè la giovane venne innanzi alla contessa e che questa con un ironico sorriso sul labbro la fissò in volto, alteramente, senza parole, ella, nascondendo tra le palme il viso infiammato, cadde in ginocchio dinanzi a lei. Non pensò a scolparsi: non sapeva e non poteva: il suo fallo in quel momento le parve così grande da rendere vana ogni difesa. Tutte le ragioni possenti della sua anima assetata di amore, del suo sangue ardente di giovinezza e di salute, del suo pensiero sedotto dall'ebbrezza più sublime, ora, dopo averla costretta all'obblio di tutto, si dileguavano dal suo pensiero, si cancellavano, sparivano. Al cospetto di quella madre, di cui aveva tradito la fiducia, volgarmente, si sentiva disarmata, senza scusa, immeritevole di pietà, pronta a sopportare ogni umiliazione.
E quando donna Laura, dopo una lunga pausa, le ebbe con poche frasi secche ed incisive, fatto rimprovero del suo contegno, ella, senza levare gli sguardi, disse candidamente quello che le stava nell'anima; la confessione del proprio errore le parve in quell'ora una espiazione coraggiosa; rassegnata ad obbedire a tutto ciò che la signora le avrebbe ingiunto, una sola cosa chiedeva come una grazia suprema: che le fosse risparmiato il dolore della disistima da parte di Bianca: che il suo ricordo nella mente della cara giovinetta potesse rimanere incontaminato e sereno.
Nel far questa confessione e nel chiedere tale grazia era tanta sincerità vera e forte nelle parole, nello sguardo, nelle lagrime di Loreta, che donna Laura, a malgrado del suo corruccio, non seppe sottrarsi a un imperioso moto di tenerezza. Una voce di pietà si levò in lei a favore di quella giovane, rea forse soltanto di aver amato. E per un momento tutte le inquietudini, che le erano imposte per riguardo alla fragile vita de' suoi figli, e tutti i pregiudizî di casta, che l'avevano ognor dominata, s'acquetarono in lei, lasciando luogo ad un mite sentimento di benignità e di indulgenza.
Rialzò Loreta vivamente: con accento dal quale era sparita la primitiva asprezza, le fe' comprendere tutta la penosa angoscia che per cagion sua agitava ora il suo cuore.
–Avrei avuto il diritto di scacciarvi da casa mia, come si scaccia chi è colpevole di un tradimento o di una disonestà. Non lo farò. Posso pensare che siete degna di compassione. Potrò anche dimenticare il male che mi avete fatto. Ma dovete promettermi che lascierete questi luoghi, che non attenterete mai più alla pace della mia famiglia. Vedete: non è più il rimprovero che viene da un giusto risentimento; è la preghiera di una madre quella che io vi faccio…
Loreta alzò il capo, subitaneamente, coll'anima già piena di un'energica risoluzione; poi, cogli occhi gonfi di lagrime, timorosamente domandò:
–E… Bianca?..
–Bianca non saprà nulla mai di quanto avvenne. Nulla offuscherà in lei il ricordo d'amicizia e d'affetto che voi le lasciate…
Loreta si portò allora le mani al petto come avesse voluto contenere il dolore che in quel momento l'afferrava con rinnovata violenza. Poi chinò il capo, sommessamente, in atto di muta rassegnazione.
Così lasciò la casa, ov'era entrata sotto l'apprensione di un sinistro presentimento, dove aveva passate molte ore felici e dove aveva conosciuto la dolce ebbrezza e, in pari tempo, le più fiere pene dell'amore.
Così ella tornò alla sua vita solitaria ed incerta, decisa al sacrificio di sè stessa, sicura ch'ella non avrebbe riveduto mai più l'uomo, al quale aveva dato il primo sogno della sua giovinezza e ch'ella, sebbene priva ormai d'ogni speranza, immensamente amava…
XVI
Dopo il primo colloquio avuto con Loreta, Alvise per molti giorni non riuscì più a ritrovarsi da solo a sola con lei.
I brevi momenti passati al suo fianco erano stati troppo fugaci perchè egli ne avesse potuto ritrarre un durevole sollievo alla concitazione tumultuosa di cui si trovava in balìa. Troppo poco aveva egli detto e troppo poco aveva ella saputo di quanto gli tenzonava nel cuore. E, stimolato da una brama incessante di rivederla ancora, era ricorso ai più sottili stratagemmi, contrariato di scorgere com'essi cadevano infruttuosi, sia per effetto delle riluttanze, che la signora opponeva, sia per le difficoltà infinite, che la semplicità del vivere in mezzo a quelle campagne veniva moltiplicando.
Sempre intento al suo scopo, Alvise aveva trovato il modo di rendere frequentissima la sua presenza in casa Sant'Angelo: i pretesti creati con rara avvedutezza non gli mancavano: e se talvolta un rammarico lo coglieva per le simulazioni, alle quali gli era forza ricorrere, questi scrupoli molesti s'acquetavano presto. Il sentimento sotto il quale agiva lo signoreggiava per modo da non lasciargli adito a pensare ch'egli stesse per commettere uno de' più sleali tradimenti all'ospitalità, a lui fiduciosamente accordata. Il trovarsi vicino a Loreta, la possibilità di scrutare nel volto e nelle parole di lei il riflesso dell'anima sua, eran divenuti per lui un bisogno smanioso, un desiderio tirannico, che nell'esaltazione de' suoi pensieri gli parea immune da ogni colpa e dal quale nessuna considerazione l'avrebbe distolto.
L'idea che il professore Sant'Angelo avesse potuto concepire un qualche sospetto non gli balenò affatto. Nella figura mite e bonaria di Mattia il suo occhio vigile ed accorto non aveva potuto scoprire mai il segno più lieve di diffidenza. Come l'aveva accolto nel primo momento, in cui era entrato in casa sua, Mattia aveva continuato a trattarlo costantemente, studioso di delicate sollecitudini, antiveggente d'ogni suo desiderio, mostrando, più che piacere, ambizione nel provargli come egli fosse l'ospite graditissimo della famiglia. In coteste amabili dimostrazioni Mattia non ispendeva forme e frasi mendicate. Usava i modi che gli erano abituali: semplici e schietti. E di questi, con qualche arguzia festevole, si scusava:
–Vede, conte mio, con lei non facciamo più complimenti. Noi, gente di campagna, siamo abituati così… Con quelli a cui si vuol bene, il cuore alla mano… e basta!.. È vero, Loreta, che tu pure mi dai ragione?..
Loreta, obbligata a non rispondere in tono che stesse in disaccordo con gli scherzi di Mattia, studiava d'assecondarlo, ma raramente vi riusciva senza manifestare l'imbarazzo da ciò in lei provocato.
E il professore allora, ingannandosi sulla cagione delle frasi impacciate o sul rossore che imporporava il viso della moglie, ne profittava per volgere lo scherzo in qualche affettuoso complimento:
–Che vuole, conte Alvise? Loreta, che non ha ancora saputo dimenticarsi le sue abitudini cittadine, non si sente il coraggio di darmi francamente ragione in faccia a lei. Ma ella pensa al pari di me. Siamo d'accordo in tutto come in questo, oggi come fu sempre. Perchè, caro conte (e dicendo così accarezzava con la sua mano ruvida la guancia di Loreta), una moglie come questa è un vero tesoro. Bisogna venire qui, in fondo a queste nostre campagne, per trovare una coppia di vecchi sposi, che si vogliano bene e s'accordino così pienamente come noi due…
In que' momenti un'amarezza si facea strada nell'animo di Alvise: più che un senso d'invidia, era uno sgomento quello che s'impadroniva di lui: e, leggendo il pensiero di Loreta, che tradivasi in una fuggevole contrazione delle labbra e nel rapido corrugarsi delle ciglia, dovea stornare gli occhi da quelli del Sant'Angelo, incapace di sostenerne gli sguardi limpidi e tranquilli.
Ma quello che Alvise non aveva mai pensato e che Loreta non aveva creduto, erasi, a malgrado d'ogni esteriore smentita, avverato nel cuore di Mattia. Sebbene incredulo per indole a tutto ciò che potesse essere doppiezza o malvagità, non aveva potuto schermirsi da un primo increscioso pensiero dinanzi al turbamento, che gli era parso di scorgere in sua moglie e nel conte il giorno della sua inattesa ricomparsa, reduce dalla gita fatta indarno a Collalto per visitarvi il Mangilli. Di quel dubbio poco appresso aveva provato dispiacere ravvisando in esso un'offesa ingiustamente recata all'onestà di sua moglie ed alla lealtà del suo ospite. Ne aveva provato afflizione come di una codarda aberrazione dello spirito. E procurò di non pensarci ulteriormente. Ma la venefica pianta del dubbio aveva ormai gittate le proprie radici nel cuore di lui e, più forte d'ogni generoso ragionamento, procedeva tenace nel suo maligno sviluppo. Indarno Mattia combatteva contro il rinnovarsi di codesti attacchi alla sua pace: indarno egli procurava di convincere sè stesso come quelle non fossero che vane fantasie, nate dal nulla, in un momento di malsana tristezza. E cercava di moltiplicare a' propri occhi le prove tranquillanti: studiava di sovvenirsi di tutti que' piccoli fatti e di tutte le espressioni, per cui aveva giudicato fin dal primo istante nobile e leale il carattere del conte Alvise; e gli era confortevole di mostrare più vivo il proprio attaccamento alla moglie, forzandosi di riconoscere in lei inalterato l'antico suo affetto.
E se, in questo combattimento, ad onta di tutti i proprî sforzi rimaneva soggiacente, gli ripugnò sempre, anche sapendo di condannarsi ad un raddoppiato martirio, di svelare in alcun modo i suoi dubbî e, peggio ancora, di usare qualsifosse de' mezzi volgari, che la sete del vero avrebbe forse potuto suggerirgli. Il ridicolo, che sarebbe stato congiunto ad una manifestazione di infondata gelosia, lo intimoriva altrettanto quanto la bassezza di un insidioso spionaggio. Gli pareva così inammissibile e folle e insussistente l'ipotesi di poter essere la vittima di un tradimento, che la sua intelligenza, il suo cuore, il suo buonsenso vi si ribellavano energicamente.
Un giorno, che Loreta ed Alvise erano rimasti per qualche momento soli e che questi ne aveva approfittato per rinnovare alla signora la preghiera di un colloquio, fervidamente, con uno scoppio penetrante di passione, ella s'era difesa rammentandogli la cieca ed onesta fiducia del marito:
–Vedete come è tristo quello che voi mi domandate. Giudicatene voi, se siete giusto. Come posso ascoltarvi?..
Ma Alvise non s'era acquietato a quelle obbiezioni.
–Potete aver ragione in quello che dite. Ma che cosa vi domando io di male? che cosa vi chiedo che offenda i vostri scrupoli? Nulla, nulla. Loreta, siate buona, siate pietosa: pensate che questo nostro ravvicinamento durerà così poco… Io non vi domando di obbedire a me: obbedite al vostro cuore: so che cosa egli vi dice, so che voi lo dovrete ascoltare…
Ella resistette ancora. Coraggiosamente, con forte coscienza del dovere, ella fe' appello a tutta la sua virtù. Ma le persuasioni acute e sapienti, di cui egli si era valso per ismuoverla da' suoi propositi, soverchiarono la tenacia, sempre meno resistente, della sua volontà. "Che cosa vi domando di male?" Questa domanda supplice e tranquillante tornava ad accarezzarle l'orecchio come una seducente tentazione, tornava ad addormentare i suoi scrupoli risorgenti. Misurando le proprie forze, stimò insania il dubitare di sè stessa. L'idea degli obblighi suoi d'affetto, di riconoscenza, di stima, per l'uomo che l'aveva redenta alla quiete ed all'onestà della vita, non poteva abbandonarla, l'avrebbe guardata da ogni pericolo, sarebbe stata il talismano infallibile della sua salvezza. E fidente in tal modo nell'ausilio, che la sua ragione le rappresentava siccome immancabile, ella veniva cedendo, grado per grado, senza averne coscienza, alle ingiunzioni sempre più fervide, che il suo cuore le faceva.
Così ella accettò due o tre lettere, passionate, accennanti con frasi di fuoco al loro passato, che Alvise trovò il mezzo di farle nascostamente recapitare. E nel modo stesso, avendo da prima negato, essendosi anche giurato di rimanere ferma al proprio diniego, ella finì per accondiscendere, – com'egli aveva voluto, valendosi di tutti i pretesti ch'egli aveva suggeriti, – ad un nuovo abboccamento. C'era venuta vincendo tutti gli ostacoli, sormontando tutte le sue esitanze, forzandosi ad attenuare col ragionamento, radicato d'altronde nella fermezza de' suoi propositi, ogni scrupolo, da cui sulle prime era stata rattenuta.
L'incontro seguì, in modo che avesse tutte le apparenze di una innocente casualità, sulla pittoresca strada di Fontanabona, che Loreta percorreva non di rado nel recarsi a visitare una delle poche famiglie del paese, con le quali manteneva rapporti d'amicizia.
Si trova-a mezzo di quella strada, la quale s'inerpica, costeggiata da alti pioppi, sui fianchi di una facile collina, – una sorgente d'acqua limpidissima e fresca, che i campagnuoli chiamano, con una delle loro armoniose voci dialettali, il Çiton, ed a cui attribuiscono per inveterata tradizione meravigliose virtù salutari. In autunno, i villeggianti, che trovansi numerosi ne' paeselli della pianura di Tricesimo, prendono volentieri questo luogo a meta delle loro escursioni e se le grandi meraviglie della sorgente si riducono per giudizio degli increduli alla purezza della vena invariabilmente gelida e chiara come cristallo, pure, specialmente nelle primissime ore del mattino, al Çiton ritornano tutti assai di buon grado, attratti dall'amenità della strada e dal romantico paesaggio che da quel punto si ammira.
Nel pomeriggio sono assai più scarsi i visitatori, tanto che ordinariamente per il lungo viale non s'incontra che a radi intervalli qualche abitante del paese, che sale verso Fontanabona o ne scende avviato alla pianura.
Il conte aveva pensato che questo fosse il luogo migliore per incontrarsi con Loreta; e tale pensiero gli era venuto naturalmente quand'ella ebbe una volta accennato per caso in sua presenza al Çiton, parlando delle proprie visite alla famiglia di Fontanabona, che egli pure aveva conosciuto alla sagra di Nimis.
Però ad onta di tutte le persuasioni impiegate e della promessa, ch'egli alla fine aveva saputo strappare alla Sant'Angelo, Alvise sino all'ultimo momento dubitò ch'ella tenesse la data parola. Fremente d'impazienza egli erasi trovato al luogo del convegno ben più d'un'ora innanzi a quella fissata. E poichè il tempo dell'attesa, nel silenzio di quel viale solitario, gli pareva interminabile, aveva già cominciato a disperare che Loreta venisse. Fermo sul muricciuolo, che circonda la spianata nel cui mezzo è la polla della sorgente, egli tenea fissi gli occhi sulla campagna, spiando se la signora apparisse, tendendo l'orecchio ad ogni rumore. E fu con un palpito forte nel cuore ch'egli vide alla fine spuntare alla svolta del sentiero, presso il piede della collina, la figura di Loreta.
La Sant'Angelo veniva a passo lento, un po' pallida, con una perplessità manifesta nell'andatura e nel viso.
Egli le mosse incontro e le prese la mano dolcemente:
–Come vi son grato d'essere venuta. Come siete stata buona, Loreta…
Ella non rispose subito e, tentando di svincolare la mano, abbassò gli occhi, confusa.
–Ho aspettato con tanta impazienza. Mi era così tormentoso il pensiero che aveste potuto mancarmi.
E sentendo com'ella rinnovava lo sforzo per liberare la sua mano che tremava febbrilmente:
–Via, dunque, – egli soggiunse con tenerezza, – perchè tremate così? Di che avete paura?
–Ho fatto male, ho fatto male! Avrei dovuto trovare la forza per non ascoltarvi.
–Per non ascoltarmi! Ah! no, Loreta, sarebbe stata crudeltà la vostra. Ancora un vostro rifiuto e non so a che cosa mi avreste spinto… Guardate, io so che ormai il passato è perduto e che nulla mi resta a sperare. Ma quando tra due cuori ci fu un giorno un vincolo forte e sincero, com'è stato quello fra noi due… non è possibile che tutto finisca così, senza una spiegazione dalla quale rinasca almeno quel sentimento di stima che aiuta a perdonare e a rendere men grave il ricordo dei torti sofferti…
E dopo una breve pausa, durante la quale Loreta s'era lasciata cadere, come vinta da una prostrazione, sur uno dei sedili posti intorno al fonte:
–Sentite, – egli proseguì. – Quando alcuni giorni sono, approfittando di pochi momenti concessi dal caso, io ho potuto parlarvi per la prima volta senza testimonî, furono tanti i pensieri che si affollarono alla mia mente, tante le cose che io avrei voluto dirvi, che quell'ora mi parve un baleno. Quel giorno-ve ne rammentate? – noi abbiamo rifatto insieme il cammino del passato, abbiamo ritessuta insieme la storia dei dolori, che io-sì, io, con la mia passione, che non vedeva ostacoli, che non ragionava! – vi ho preparato nella mia casa. Ma di ciò che avvenne poi… di quello che è stato poi di me, della mia anima, della mia sorte, non avete saputo nulla, non vi ho detto nulla. Eppure, Loreta, è una storia ben triste anche questa: così triste che potrebbe valere un'espiazione. E conviene che voi la conosciate. Forse allora sentirete che io fui più degno di commiserazione che di rancore o di sprezzo…
La voce di Alvise s'era fatta supplichevole e sommessa ed aveva un accento che non poteva ingannare.
–Io non vi chiedo delle giustificazioni.
–Lo so e non tento di farne. Qualunque cosa diciate, obbedendo alla bontà della vostra anima, sarebbe inutile: la coscienza de' miei errori mi è chiara: il giudice migliore e più severo di me stesso son io! Ma appunto per questo voglio che sappiate quali traversie io dovetti sostenere dopo la nostra separazione. Non dovessi, dopo questo racconto, rivedervi mai più, avrò almeno la speranza che voi potrete riconoscere che quello che forse avrete giudicato freddo, volgare, abbietto oblìo, altro non era che la volontà cieca di circostanze ineluttabili, il predominio vittorioso di quei dolori, sotto il peso de' quali deve addormirsi e tacere ogni altro per quanto nobile e forte sentimento. Mi ascolterete voi, Loreta?
Ella reclinò il capo, vinta, senza dargli alcuna risposta.
Ma Alvise comprese la significazione di quel silenzio e cominciò, animandosi grado a grado, a narrare quanto si era passato in casa sua dal giorno in cui, dopo il breve tempo passato a Bordighera in compagnia della contessa Nathan, era ritornato alla villa di Arsizzo.
–Ritornavo triste, ma senza avere ancora rinunciato a qualche speranza. Se sapeste come ho combattuto, quanto ho fatto perchè mia madre si lasciasse rimuovere dai suoi voleri! Tutto fu vano. E mentr'io, disperato de' suoi dinieghi, vedevo cadere inutile ogni mio tentativo per riuscire a sapere almeno dove voi eravate… che nuovo periodo di dolore principiava per la nostra casa! D'un tratto, senza che nessun sintomo allarmante ci avesse potuto far pensare all'imminenza di una catastrofe, la povera Bianca ammalò. Era un assalto fiero di quel male che mia madre, con le sue cure amorose durate per tanti anni, s'era illusa di aver debellato. Ma l'illusione, mantenuta per poco dalla speranza e dal conforto dei medici, svanì ben presto… Bianca moriva: le sue povere forze le fuggivano giorno per giorno; ella sola non s'accorgeva, non sospettava di nulla, sperava sempre… Loreta, voi potete immaginare che cosa fu di noi in quel periodo. Avete conosciuto mia madre: avete visto come ci amava: avete ammirato l'eroismo di quella donna, che trovava tanta forza e tanta abnegazione per i suoi figli… Potete immaginarvi quello che avvenne!
Egli si fermò un momento, come percosso egli stesso dalla visione che evocava.
–Povera Bianca! Povera Bianca! – mormorò quasi parlando a sè medesima, inconsapevolmente, Loreta.
–Cinque mesi, – egli proseguì, – indi… la fine…
E brevemente, colla voce che gli tremava, narrò, incalzato da qualche rapida domanda di Loreta, alcuni strazianti particolari che accompagnarono lo spegnersi di quella miserevole e purissima vita: le parole di ricordo, d'affetto, di pietà, ch'ella ebbe per tutti, che lasciò per tutti, soavi come l'ultimo profumo di un bel fiore, che si piega intristito.
–Poi, – egli continuò, – quando io e mia madre fummo soli…
Qui ebbe una nuova e prolungata reticenza, durante la quale parve volesse raccogliere le sue idee; quindi, con un gesto come di chi rinuncia a descrivere cosa, per la quale comprende la propria parola impotente:
–No, inutile il dirvi; voi comprendete… Davanti al cordoglio intenso, commovente, ribelle ad ogni conforto, in cui vedeva piegata mia madre, io non ebbi più il capo a nulla. Non v'era ora del giorno in cui la mente di quella donna infelice non tornasse con un furore disperato, con una commozione ardente, a quell'angelo poveretto che la morte ci aveva rapito… Nulla riusciva a distrarla, nulla a scuoterla: il dolore di quella nuova sventura aveva portato una scossa terribile alla sua fragile salute. E fu appena in quei giorni, Loreta, che io sentii quanto amavo mia madre; e vi giuro che, al vederla così com'era, sarei stato pronto a tutto purchè da me le potesse venire una consolazione, purchè le sue forze avessero potuto ritemperarsi… Consultammo i medici: chiedemmo il consiglio degli amici. Ma con quale profitto!.. La sorella di mio padre, Maria Luigia Nathan, un'angelica e pietosa donna, accorse allora. Venne a Verona, impiegò tutte le più calde persuasive dell'affetto per indurre mia madre a lasciare quel soggiorno: suo marito, il barone Nathan, doveva passare quell'inverno in Egitto per incombenze diplomatiche affidategli dal governo inglese: ci offerse l'ospitalità più cordiale nella sua casa, facendo valere la circostanza del beneficio che da quel clima mitissimo avrebbe potuto derivare a mia madre… Ma ella non volle. Protestò con l'usato animo che, sentendosi ormai condannata ella pure, voleva morire nella sua patria, nella vecchia sua casa, dove aveva per sì poco goduta la felicità e dove aveva veduto distruggersi tanta parte del suo cuore. E quel presentimento si avverò, ahimè, troppo presto… Ella passò come visse, serena, rassegnata, senza timori della morte… Una sola cosa ella mi domandò per poter morire tranquilla: che io le promettessi di non far nulla mai nella mia vita che fosse derogazione alle massime da lei ognora professate o ch'ella avesse potuto in alcun modo disapprovare. Promisi, senza pensare a ciò che facessi, dimenticando-e lo confesso come una colpa che non so perdonarmi-dimenticando… anche quello che dalla mia mente non avrebbe dovuto cancellarsi mai più…
–Avete compiuto il vostro dovere, Alvise. Questo era il primo de' vostri doveri.
–Sì, avete ragione. Così in quell'ora angosciosa ho giudicato anch'io. Ma poi-oh! questo almeno credetemi! – ho sentito che altri doveri erano per me altrettanto forti, altrettanto santi!.. Da quel momento non pensai che a voi: vi cercai con desiderio intenso: ho sperato mille volte che vi sareste decisa un dì o l'altro a darmi vostre notizie. Ma nulla, nulla e sempre nulla! Mi credetti obbliato; vi credetti morta; pensai (sì anche questo pensai!) che la vostra sorte vi avesse condotto a migliori fortune… Allora, infiacchito, sfiduciato, senza più uno scopo dinanzi a me ed esortato dai medici a vigilare sulla mia salute gravemente scossa, lasciai l'Italia, vissi per qualche tempo con mia zia, la contessa Polverari-Nathan, la quale m'aveva preso affetto di madre; poi, in cerca di distrazione e di arie salutari, viaggiai: un inverno a Madera, quindi alle Indie, in China, al Giappone… Mi feci una nominanza di avventure singolari e romanzesche: fole di cronisti male informati e dicerie senz'ombra di verità. Dissero di un mio matrimonio a Valparaiso. Poi, forse indotti in errore da una somiglianza di nome, mi fecero eroicamente morto… che so io in quale strana avventura in un angolo selvaggio dell'Australia… Morto; no, non era vero… Ah! quanto meglio sarebbe stato per me!.. Era finito tutto, allora, tutto…
Loreta, che aveva ascoltato fin qui, come soggiogata dalla potenza dell'accento d'Alvise, rialzò a questo punto i suoi occhi lucenti di lagrime:
–Finito! – ella esclamò poi, con lentezza. – Finito era tutto egualmente. Ormai nulla avrebbe potuto più ricongiungerci…
–Nulla! Perche? Se io vi avessi ritrovata… Se voi non aveste voluto sottrarvi a me, come avete fatto, senza darmi più notizia alcuna della vostra sorte…
–No, Alvise, non dite così! Abbiamo piegato entrambi a un volere più forte di noi… Così doveva essere. Sarebbe stato inutile il ribellarci a quello che il destino aveva segnato!
–Io… – esclamò egli con un istantaneo scatto di protesta, – io…
Ma Loreta, troncandogli vivamente la parola:
–Voi, – proseguì con una severità melanconica nella voce, – avreste potuto disobbedire ai voleri di vostra madre?.. No, sarebbe stato male: non l'avreste fatto. E se anche l'aveste voluto, se anche, ritrovandomi sul vostro cammino, mi aveste offerta la realizzazione di quel sogno, al quale follemente un giorno mi ero abbandonata… ve lo giuro, Alvise, avrei saputo resistere ad ogni vostra profferta…
–Questo avreste fatto? – egli dimandò concitatissimo.
–Questo.
–A malgrado di tutto il passato?
–Sì.
–E perchè, Loreta, perchè?
–Perchè…
Ella s'arrestò un momento. L'amara confessione, ch'era indotta a fare, le si arrestava sul labbro: il suo spirito le negava l'espressione atta a compendiare il sacrificio intenso, eroico, doloroso, cui ella si era rassegnata sotto il vincolo della promessa strappatale, in un'ora di pentimento e di bontà, dalla commovente eloquenza della madre di Alvise.
–Perchè? – egli insistette. – Era dunque svanito il vostro amore?.. Ditelo almeno, ditelo…
Ella senti una puntura acuta nel cuore a questa domanda, che l'offendeva come un oltraggio a tutte le dolci memorie dormenti nell'intimo della sua anima, non cancellate mai nè dal tempo nè dagli eventi, custodite segretamente sempre, con una pietà alta e gelosa.
Per un istante esitò: l'anima si ribellava a quella menzogna.
Egli, vedendola titubante, ebbe un lampo di speranza. Credette indovinare e con raddoppiato calore ripetette il suo invito:
–Ditelo, Loreta, ditelo!.. Era dunque morto… era morto il vostro amore?
Ella allora, colle labbra contratte da un tremito convulsivo, fiocamente, senza levare gli occhi, rispose una sola parola:
–Sì.
Ma egli non si dette per vinto. Subito, senza esitanze, con una fiera convinzione, respinse quella parola:
–Ah! non è vero! Non può essere vero. Voi mentite, Loreta. C'è qualcosa che voi mi nascondete, che vi obbliga a parlare così. Ma per l'amore di Dio, per l'amore nostro, io vi supplico di non lasciarmi in questo dubbio… Confessatemi il vero, Loreta. Ditemi che cosa fu di voi dopo quei giorni. Ditemi perchè non avete cercato di rivedermi…
Il conte, dicendo così, l'aveva afferrata per le mani, e cogli occhi ardenti, colle guance soffuse di un vivo rossore, ripeteva al suo orecchio con crescente emozione la stessa incalzante richiesta:
–Ditemi, ditemi…
Ella allora, bruscamente, come se una forza novella l'avesse ad un tratto soccorsa, si svincolò da lui e sorgendo in piedi, col capo eretto energicamente, lo fissò negli occhi.
–Basta, signor conte. Quanto vi ho detto è vero. La vostra insistenza non è nè generosa nè bella… Lasciatemi partire. Non vogliate prolungarmi ancora questa tortura…
Dinanzi all'atto energico di Loreta, Alvise si arrestò come percosso da un singolare sbigottimento. La parola, prima così ardita ed irruente, gli morì tra le labbra. E immobile, con una perplessità angosciosa nelle pupille, fissò intensamente la donna…
Il sole era ormai al tramonto. In fondo, sulla curva dell'orizzonte, un rossore di porpora tingeva il cielo. E un alito d'aria frizzante levavasi sulla campagna destando un fruscìo lene di foglie per gli alti rami dei pioppi, che imboscano il colle di Fontanabona.
Il silenzio era alto tutto intorno. Il filo d'acqua del Çiton, sgorgando con una lucentezza d'argento dalla roccia muscosa, faceva sentire il monotono suo gorgogliare tra i sassi ed i cespugli, in mezzo a' quali si apriva la via.
–Loreta… – mormorò dopo qualche momento Alvise con accento di preghiera, come per riprendere il discorso troncato.