Kitabı oku: «Il peccato di Loreta», sayfa 14
Da quel colloquio sortì riconfortato. La crisi violenta di dolore, che il vecchio amico, antivedendone il beneficio, aveva favorito colle sue parole amorevoli, gli era stata di un immenso sollievo. Quell'uomo onesto, che anche dinanzi alla cruda evidenza de' fatti forzavasi a scuotere le dubitanze altrui con l'ottimismo delle ipotesi inspirate sempre ad una serena indulgenza, era riescito, se non ad illuderlo ancora, certo a ricondurre il suo spirito ad una calma relativa. Venuto colà con una fiera indecisione tenzonante nel cervello, ne usciva con un piano prestabilito di condotta. Mentre da prima tutto gli era parso irrimediabilmente perduto, ora un bagliore fioco di speranza veniva a rompere ancora la tenebria luttuosa di cui si sentiva circondato. E forse quella sera, nelle parole dette a sua moglie al momento che stavano per lasciarsi: "Oggi è stato un giorno assai brutto. Domani… Sarà meglio forse domani…" era un riflesso di quel sentimento, che l'amico suo buono gli aveva saputo infondere.
Durante il cammino da Tricesimo a Morò-Casabianca il Sant'Angelo aveva ripensato a tutte queste cose. Deciso ad uscire, come il suo amico gli aveva consigliato, recisamente, da una posizione insostenibile e falsa, che ogni ora trascorsa avrebbe reso più ardua e più grave, egli si sentiva compenetrato dall'idea che quanto aveva stabilito di fare stava nel suo diritto, ch'era in ciò la tutela sacra del suo onore, la difesa legittima della sua felicità; e ciò nullameno a tratti gli sembrava che le forze necessarie gli sarebbero mancate.
Aveva preso la strada fra i campi, lunghissima, per raggiungere l'ora in cui potesse presentarsi al palazzo senz'offesa de' voluti riguardi e senza dar ombra alla malignità, che certo vigilava, allarmata. E più volte s'era dovuto arrestare côlto da una repentina ambascia. A poca distanza da Morò-Casabianca, mentr'egli già discerneva tra il verde del bosco, di là dalla linea gialla del Cormor, il profilo bizzarro dell'antica fabbrica colle due torri tozze emergenti sul caseggiato, una cantilena che usciva da un casolare solitario, intonata da una voce muliebre in cadenza col battito secco della spola d'un telaio da tessere, lo colpì nel cuore, con una trafittura acuta. La tessitrice invisibile cantava lentamente, con profonda tristezza, la vecchia villotta paesana che gli era notissima:
Oh! denant di maridassi
Nome rosis, nome flors,
E po dopo maridadis
Nome spinis e dolors.
Egli ricordò. Ricordò le parole che quella stessa canzone gli aveva inspirate una notte non lontana, sulla strada di Nimis, quand'egli credulo, felice, sicuro, piegavasi all'orecchio della sua Loreta, appassionato come un amante, mormorandole un complimento che era una carezza, una benedizione, l'espressione fervidissima della riconoscenza ch'egli le doveva per la propria felicità invidiabile ed invidiata: "Questa canzone?.. Ebbene?.. chi meglio di noi può affermare ch'essa è bugiarda!"
E adesso?..
Pochi minuti di poi il fattore Beppo, accoltolo con la sua solita festosità cordialona, lo conduceva al conte Alvise.
–Nella sala dei quadri… – aveva detto il vecchio fattore con quella specie di orgoglio, che la rinomanza del palazzo affidato alle sue cure giustificava, – è sempre lì: ci si trova tanto bene!
Alvise era infatti nella sala dei quadri e quando Mattia Sant'Angelo entrò stava ordinando alcune carte sulla scrivania posta presso uno de' grandi veroni, dov'era il busto marmoreo di Sebastiano Morò.
Il professore ristette con un involontario atto di titubanza presso alla soglia. Ma il conte subito sorse in piedi e gli mosse incontro.
Benchè Alvise nel compiere quest'atto cortese non avesse tradito il menomo imbarazzo, tuttavia non isfuggì al Sant'Angelo il pallore straordinario del suo viso e l'aggrottamento subitaneo della sua fronte quand'egli entrò nella camera.
–Professore, lei! È una lieta sorpresa!
–L'ora è poco dicevole… mi deve perdonare.
–Che dice, professore! Non permetto ch'Ella dica queste cose. Venga piuttosto qui e segga accanto a me.
–La ringrazio.
Sedettero. E per un momento rimasero tutti e due silenziosi, subendo un penoso imbarazzo, quasi nella prescienza che quell'incontro, improntato sulle prime di così scambievole cordialità, dovesse tramutarsi in una spiegazione per entrambi difficile e dolorosa.
–Signor conte, – disse pel primo il professore, – Ella deve essere sorpreso di vedermi qui a quest'ora, senz'un annuncio, senza nulla che potesse farmi attendere.
–Mi è sempre grato il vederla, professore. Tuttavia…
–Tuttavia Ella comprende che dev'essere un grave motivo che mi conduce qui?
–Un motivo grave?
–Sì, conte. E se non glielo avesse detto l'ora insolita… Ella, che è esperto degli uomini e della vita, l'avrebbe dovuto leggere in quel turbamento, che io so di non riuscire, a malgrado di tutti i miei propositi, a dissimulare in questo momento.
–Non comprendo, professore.
–È strano! – esclamò Mattia amaramente. – Speravo mi potesse essere risparmiato il dolore di una spiegazione.
–Una spiegazione?
–Sì. Poichè non è possibile che Ella, conte, non mi intenda. Un suo sforzo di generosità, ora, sarebbe vano. Non servirebbe ad ingannare nessuno.
–Ma io ripeto, professore, che non la intendo. Tanto meno la intendo adesso, dopo queste parole.
La voce di lui, dicendo così, era leggermente alterata dall'emozione, ch'egli studiavasi di dominare.
–Mi comprenderà subito, – disse allora Mattia con una certa risolutezza. – A lei, legga!
E tratta dalla tasca interna dell'abito una carta, la porse al conte.
Questi la prese, la spiegò, lesse. Era il foglio di carta grossolana, trovato due notti innanzi legato al collare del Terranova ferito: la denuncia anonima, scritta con velenosa acrimonia contro Loreta Sant'Angelo ed Alvise Polverari.
–Ebbene? – mormorò il professore quando l'altro ebbe finito di leggere.
–Oh! – esclamò il conte sgualcendo con indignazione il foglio, – una infame vigliaccheria!
–Sì, l'ho detto anch'io: una vigliaccheria di persona nemica, una bassa vendetta suggerita certo da vecchi rancori… Ma che importa! Non è per giudicare questo atto codardo che io sono qui…
–Ed allora? – chiese Alvise lentamente, levando lo sguardo interrogatore in volto al Sant'Angelo.
Questi ebbe un momento di esitanza. Poi riprese subito:
–Allora… È per fare innanzi tutto appello a quel sentimento, col quale io ho salutato la sua presenza in casa mia come quella di un fratello. Poi… È per dirle, conte, con aperta schiettezza, quale battaglia si vada combattendo dentro di me… Se un giorno un sospetto aveva potuto farsi strada nel mio cuore, ho combattuto con ogni mia forza per cacciarlo, per farlo tacere… È venuto questo foglio maledetto… Non fui più padrone di me: non si ragiona più quando ci par di veder crollare in un punto solo tutti i nostri affetti, tutti gli ideali nostri più cari. Mi vedevo colpito in quello di più sacro che io avevo al mondo: Loreta, la compagna adorata e stimata: Ella, conte Alvise, l'uomo a cui mi legano tante memorie incancellabili di gratitudine e di reverenza! Se avessi potuto darle il mio sangue, i miei beni, la vita, sarei stato pronto: sarebbero stati nulla di fronte a quello che i Polverari hanno fatto per la famiglia mia… Ma il mio onore, l'aspirazione gelosa di tutta la mia esistenza!.. Comprende ora ciò che deve essersi agitato in me dopo la lettura di quella lettera infame? Comprende la necessità alla quale obbedisco nel chiedere alla sua fede di gentiluomo una franca dichiarazione, alla sua lealtà di amico una parola sincera, che metta in fuga i miei dubbî e mi torni alla mia pace?..
Mentr'egli parlava ognor più concitato, con l'irruenza d'un'emozione crescente, Alvise Polverari sentiva farsi sempre più forte nel suo interiore quello sgomento strano che non l'aveva più abbandonato dall'istante in cui Loreta, lasciandolo la sera innanzi, gli aveva mormorato con tanto sentimento quella frase supplice e così eloquente: "Ed ora, Alvise, siate forte ed abbiate pietà di me!"
Il male, ch'egli aveva fatto con la sua comparsa in quella casa onorata e felice, gli appariva chiaro alla vista: la debolezza, cui aveva ceduto e nella quale aveva trascinato pure quella donna, sedotta dall'irresistibile miraggio del passato, gli risorgeva ora al pensiero come un'ignobile colpa: la parola seria e cordiale dell'uomo semplice ed onesto, che veniva a lui con tanta nobiltà di espansione a difendere il proprio onore ed a tutelare la propria felicità e che, mentre avrebbe avuto il diritto di erigersi a giudice implacabile, non sapeva rinunciare ancora ad un estremo raggio di fede, al culto delle sue memorie custodite come un pio retaggio nella sua anima intemerata-la parola di quell'uomo generoso gli era penetrata nel cuore, acuta come il più duro dei rimproveri, dolce come la più commovente delle preghiere.
Nell'ora del delirio, in cui non aveva saputo più nulla, non aveva ascoltato più nulla, tranne la voce irragionevole dell'istinto reclamante con fiero grido l'esaltamento supremo dell'amore lungamente frenato, lungamente deluso, s'era egli lasciato già sfuggire, alla povera donna languente sotto il fascino della sua parola infocata, la promessa ch'egli sarebbe partito, che l'avrebbe ridonata alla sua pace, che non avrebbe attentato più alla tranquillità in cui ella erasi conseguito il diritto di continuare e fornire la sua travagliosa esistenza.
Sarebbe stato questo un sacrificio immenso: la rinuncia a tutto: il distacco definitivo dalla parte migliore della sua vita.
Ma se un'esitanza fino a quell'ora era rimasta in lui; se, pensando al bene ch'egli perdeva, ancora s'era affaticato a ricercare morbosamente con tutte le sottigliezze del suo spirito, il modo di eludere la voce che l'ammoniva a non volere il male di quella donna da lui così fortemente amata, ora, dinanzi al nobile contegno, alla commovente bontà del Sant'Angelo si sentiva sopraffatto, novellamente, come da una chiara perfetta nozione di ciò che ormai era il suo dovere impreteribile, d'uomo di cuore e di gentiluomo.
Nel suo pensiero la decisione di quello che avrebbe fatto s'era determinata nettamente; si sentiva sicuro di sè, obbediente ad un impulso interamente sincero.
Tuttavia, benchè forte di questa coscienza, Alvise cercò invano di darne manifestazione concreta con una esplicita risposta al Sant'Angelo.
Ma il professore dopo una breve pausa rinnovò con voce molto commossa la sua domanda:
–Ebbene, conte Alvise, ebbene?
–Ebbene, professore… Quando poco fa ho letto quelle brevi linee, che non so chi-un'anima certo malvagia-le ha diretto, non ho saputo qualificarle altrimenti che come una sozza vigliaccheria. Dopo quanto mi ha Ella detto adesso io non saprei più trovare una parola atta a qualificare cotesta azione bassa ed infame. Ed ora, di fronte ad un simile atto codardo dovrei scendere ad una giustificazione! No. Ella non può domandarmelo ed io non lo farei. Questo solo le dico: che Ella si renda conto del vero, dai fatti… Fra poco, domani ancora, io partirò: vissuto appena poche ore in un luogo, dove mi parve di aver trovato tanto sorriso di amicizia e di simpatia, me ne allontano, come vuole la mia sorte, non ancor paga di cospirare contro di me… Andrò lunge ad aspettare la fine di questa miserabile mia vita… Non sarà lontana, per fortuna: lo sento e vi sono preparato… Ma così… che cosa potrei io più farle di male? di quali timori potrei io esserle ancora la causa?..
Il Polverari aveva detto questo con una grande tristezza, forzandosi ad infondere alle sue parole, pur pronunciate con palese pena, quell'accento di sincerità che induce ed afferma in altri la fede.
Il Sant'Angelo fu scosso dalla risposta, ma l'animo suo non ne restò persuaso.
–Ella partirà? – domandò vivamente.
–Partirò, l'ho detto.
–Partirà… per riguardo a quello che si è parlato oggi fra noi?
–Anche per quello.
–E sta bene. Non mi dovevo attendere meno dalla sua onestà. Peraltro ancora una domanda io debbo farle, per la mia pace, per il mio bene… Conte, può Ella giurarmi che tra lei e Loreta non ci fu nulla nel passato?
–Non è una domanda generosa ch'Ella mi fa ora… Credevo che il mio contegno gliene avesse tolto il diritto.
–Sarà vero. Ma io debbo sapere: tutto sarebbe più atroce di questo dubbio… Mi può Ella affermare sul nome che ci è parimenti sacro… sul nome di suo padre… che non c'è stato nulla nel passato fra Loreta e lei?
–Sul nome di mio padre?
Ne' lineamenti di lui era l'espressione di una tremenda battaglia: colle mani nervose egli si stringeva il petto che gli balzava ansimante: smarrito, egli aveva levato in alto gli occhi lucenti come per chiedere un'ispirazione che venisse a sorreggerlo in quell'arduo momento.
Finalmente obbedendo ad una incoercibile esortazione della sua anima, scossa ogni riluttanza, con un'alterezza energica che gli brillava nelle pupille, egli lasciò prorompere la risposta, che l'altro ansiosamente attendeva, pendente dalle sue labbra:
–Ebbene, sì, è vero… È vero! Io ho creduto che questo ricordo, morto ormai nel passato, le fosse noto; ho creduto che la sua generosità l'avesse obbliato per sempre… Poichè così non è, è meglio confessarlo… Al punto in cui oggi noi siamo tutto potrebbe rendere, nella nostra vita, nella nostra pace, nelle nostre memorie, più gravi quelle conseguenze, che coraggiosamente e onestamente dobbiamo forzarci ad evitare… È vero! Ci siamo incontrati nella giovinezza, ci siamo amati coll'entusiamo di chi ha vent'anni, e non sa, e sfida la contrarietà della sorte. Poi…
–Poi?
–Fummo divisi. Il destino, avverso al nostro amore, ci volle separati per sempre… Passarono gli anni: non ci siamo rivisti mai più: di quell'antico sogno non restava che una traccia dolorosa nel nostro pensiero, come la memoria di una illusione svanita… Ciò che avvenne di me, Ella lo sa. Loreta… Se ebbe, per causa mia, un'ora cattiva nella sua giovinezza, ella seppe riconquistarsi il diritto alla felicità… Fu sua sposa, fu amata, lo meritava… Questo è tutto. Ora…
–Ora? – domandò il professore lentamente, con una grande severità di accento come avesse voluto raccogliere in quell'unica parola tutto ciò che in quell'istante si agitava nel suo cuore.
Alvise comprese; e s'arrestò titubante.
Per quanto gli ripugnasse di dover mentire, ne sentiva adesso la inoppugnabile necessità. Non era una colpa il farlo, nè una bassezza. La stessa memoria del padre suo, che l'altro aveva invocata, non ne avrebbe patito offesa.
Egli si posò la palma sul petto e fissando in volto il Sant'Angelo, senza esitanze:
–Ora, – egli disse, – se il caso ha voluto ricondurci uno di fronte all'altra, se anche per un solo momento s'è potuta risvegliare in me la voce del passato… Loreta non ha rimprovero a farsi… veruno!.. Quello che oggi sia il mio dovere lo so ed avrò la forza di compierlo. Questo le giuro, professore, per i ricordi che uniscono le famiglie nostre; come le giuro che nulla mai sarà da me fatto per attentare alla sua felicità… Me lo crede?
Il professore lo guardò intensamente.
–Sì, glielo credo! – esclamò poi subito. – Guai se in questo momento non avessi una tal fede!
Il conte, pallidissimo, affranto dalla violenza delle emozioni sostenute, gli tese la mano, quasi richiedendo una conferma di queste parole.
Il Sant'Angelo allora, sinceramente la prese e la strinse.
Ma Alvise Polverari al tocco di quella mano leale, che s'abbandonava alla sua senza sospetti, come in una attestazione fiduciosa di amicizia, provò un cordoglio profondo, di cui sentiva che non avrebbe potuto liberarsi mai più.
XIX
Benchè in preda egli stesso ad un'ansietà fortissima, che gli aveva fatto sembrare interminabile la strada fra Morò-Casabianca e Tricesimo, Mattia Sant'Angelo rimase colpito allo scorgere l'aspetto turbatissimo di sua moglie nel momento in cui egli fu di ritorno a casa. Immune d'ogni femminea fatuità, ma scrupolosa per gentile abitudine nelle cure della persona, Loreta non aveva a quell'ora già avanzata smesso peranco la veste da mattina. La folta capigliatura bruna, che le scendeva ancora in disordine intorno alla fronte, facendone risaltare la grande pallidezza, completava il suo aspetto di sofferenza e di sfinimento.
Per un istante stettero uno di fronte all'altra senza parlare, fissandosi con intensità, come avessero voluto scambievolmente leggersi nel cuore.
Loreta alla fine, pensando che quella tortura dovesse pure aver un termine, mosse alcuni passi verso il marito e con voce, strozzata quasi da un singulto, lo interpellò vivamente:
–E dunque, Mattia… e dunque?
Durante un momento il professore parve indeciso dinanzi all'impeto inatteso di quella domanda. Ma il tono con cui Loreta aveva parlato e l'atteggiamento ch'ella aveva assunto, ora, al cospetto di lui, gli fecero comprendere la inutilità di perdurare nella finzione, che fino a quell'ora si erano imposti. Il sentimento della loro reciproca posizione era ormai ad entrambi chiarissimo. Ciò che le loro labbra avevano ostinatamente rifiutato di dire, s'era svelato adesso al loro sguardo in un attimo solo.
Loreta, la quale nell'ambascia dell'attendere s'era già rassegnata a sostenere, senza difendersi, come doveva, per debito naturale di espiazione, lo scoppio della giusta ira del Sant'Angelo, rinnovò la sua domanda, subito, quasi fremente nell'impazienza di quell'istante solenne.
–E dunque, Mattia, e dunque?..
Un tremito passò fugacemente sulla bocca del professore. Poi, lasciandosi cadere, affaticato, sur una seggiola, mentre Loreta, ritta dinanzi a lui attendeva, nel mezzo della camera, colle mani serrate contro il petto:
–E dunque… – cominciò. – Che cosa debbo dirti che tu non sappia, che tu non abbia già indovinato? Senti, Loreta: quel che io ho sofferto non lo potrei dire: se lo dicessi, ogni parola sarebbe inferiore al vero. Tu sai ciò che sei stata per me; quando io avevo creduto finita la mia esistenza, tu mi hai redento alla felicità: ti ho adorata! Lo sai, lo hai visto giorno per giorno, ora per ora, dacchè sei qui nella mia casa, arbitra del mio cuore. Prima che io mi fossi risolto a offrirti il mio nome sai anche quali scrupoli mi hanno tormentato: avevo coscienza di ciò che io ero, avevo paura di vederti un giorno pentita di quello che allora accondiscendevi di fare forse per pietà, forse perchè ti aveva commosso la sincerità del mio affetto. Tuttavia mi sono illuso: con gli anni che passavano, felici, vedevo farsi sempre meno minaccioso il pericolo che io avevo sognato: credetti infine mia, conquistata per sempre, la tua affezione. Così… non doveva essere! Quel passato, che per me non esisteva, che io non avevo voluto conoscere, che credevo morto per sempre, è tornato…
–Tu… ora sai? – ella chiese lentamente.
–So.
Loreta si portò le mani al volto con uno scroscio di pianto dirottissimo. Indi appassionatamente proruppe:
–Mattia, perchè hai tu voluto essere così generoso allora con me!.. No, non meritavo io, miserabile creatura, la bontà che tu avesti. Non dovevo accettare il tuo beneficio; dovevo ricordare quello che era stato; dovevo temere quello che poteva avvenire. Non ho potuto, non ho saputo, fui sopraffatta dalla tua bontà… Eppure quel giorno in cui tu mi hai offerto il tuo nome, così nobilmente, ti ricordi?.. io volevo che tu sapessi, volevo dire a te pure ciò che in un'ora di confidenza non avevo arrossito di confessare a tua madre… alla donna santa e buona, che mi aveva amato e compatito… Non volesti… non volesti… Adesso…
Egli levò gli occhi in alto, serenamente, poi quasi calmo:
–Adesso, – egli disse interrompendola, – come in quel giorno la parola di mia madre mi è sacra… Se una colpa c'è stata nel passato lontano, una colpa che l'inesperienza, la giovinezza e la fatalità dei casi hanno preparato, hai saputo farla obbliare… Mia madre, nella rettitudine della sua anima, ha riconosciuto che quella colpa l'avevi cancellata… ti ha dato il suo affetto materno… ti ha stimata degna d'essere la sua continuatrice nella nostra casa…
Loreta, a mano a mano che il Sant'Angelo parlava, acuiva sopra di lui il suo sguardo interrogatore, percossa, côlta da una nuova fierissima perplessità.
Egli si arrestò per un breve momento, poi passandosi la destra rapidamente sul largo fronte imperlato di sudore:
–Oggi… – soggiunse, – nulla da allora è mutato.
–Nulla, tu dici… nulla?
–Sì. Poichè se oggi per onesta confessione di un uomo, incapace di mentire dinanzi all'appello dell'onore e dell'amicizia, io so quello che fino ad ora era rimasto un segreto fra te e la povera mia madre: quello che io avevo indovinato e presentito, che importa!.. È il passato remoto, che l'obblio ha sepolto, che mia madre ha cancellato per sempre col suo perdono, tu colle tue virtù… Che m'importa di questo passato, se so che il presente è mio ancora, se è mia… soltanto mia… la tua fede!..
Ella a queste parole si sentì venir meno. Ma dunque s'era ella ingannata ancora una volta, quando aveva creduto che a Mattia fosse nota per intero la gravità del suo peccato? Era possibile ancora un'illusione? Non aveva egli dunque intuito peranco nel suo volto, nel suo smarrimento, nella sua angoscia, tutta l'orribile verità di quello che era stato?
Terrorizzata da questo pensiero, incapace di articolare parola, aveva abbassato lo sguardo, sentendo un'onda di fuoco che le saliva al viso.
Per un momento ella stette per tradirsi. Dall'anima sua, martoriata già troppo, stava per erompere la parola del vero. Vacillante, estenuata, tendendo le mani supplici verso quell'uomo, ch'ella non doveva lasciar più a lungo nell'inganno, cadde in ginocchio innanzi a lui.
–Mattia, Mattia!
Il professore, con le guance bagnate di lagrime, la sostenne, la rialzò.
–Loreta, è stata per noi una brutta ora! Essa è trascorsa. Nulla deve farla più rammentare. Bisogna che sia così. Se non avessi creduto che ciò possa essere, avrei preferito morire…
Ella si scosse, con un brivido sinistro, stringendosi in un atto istintivo contro il petto di Mattia.
Un lungo silenzio corse.
Quindi egli, come se in quell'intervallo avesse ritrovata tutta la sua energia:
–Non piangere più, – riprese con l'accento ridivenuto mitissimo. – La nostra vita potrà essere bella ancora. Coloro che mi vogliono male non avranno raggiunto nemmen questa volta il loro scopo. Sì, Loreta, io dovevo sapere che qualunque cosa ti avesse parlato nell'anima del passato, tu non avresti potuto dimenticare quello che sei, la promessa che tu mi hai dato… il nome che porti…
E dopo una breve pausa, durante la quale sentì Loreta abbandonarsi più gravemente sul suo petto:
–Alvise… – egli soggiunse, interrompendosi con una esitanza improvvisa.
Ella levò il capo, vivamente.
–Alvise?.. – domandò come esortandolo a continuare.
–È onesto. Comprese quale sia il suo dovere. Partirà.
Loreta non rispose, le sue labbra si agitarono per un istante senza che ne escisse una voce. Poi ella chiuse gli occhi, stringendosi con forza alle braccia di Mattia.
Il Sant'Angelo la sostenne e l'adagiò con soave premura in un seggiolone, ch'era lì presso. Poi non ascoltando più che un sentimento di pietà dinanzi a quella crisi, che gli appariva naturale dopo le tante emozioni per le quali Loreta era passata, egli si curvò affettuosamente su lei, in atto di accarezzarle i capelli.
Ma d'improvviso s'arrestò. Dagli occhi affossati di Loreta continuava a scendere, sulle sue guance mortalmente pallide, un lento e copioso pianto. E quando una di quelle lagrime gli cadde ardente sulla mano un torbido lampo gli attraversò il pensiero, facendogli risorgere più tormentoso il dubbio crudele, che s'era affidato non dovesse tornargli mai più. L'amore, ch'egli aveva creduto morto nel cuore di Loreta durava dunque ancora? Ed eran forse quelle lagrime per l'amore remoto, per l'amore della giovinezza, trionfante ancora?..
Ritto in faccia a lei, come assorto in un rapimento morboso, egli attese. Furon forse pochi minuti e parvero a Mattia un tempo infinito. Ella finalmente parve riaversi, si riscosse e fe' l'atto di correre a lui.
–Oh! Mattia, Mattia… Non ho sognato? È vero quello che tu mi hai detto? che mi vuoi bene ancora, che mi credi degna di te?..
Eravi in queste sue domande febbrili, concitate, tanta effusione e tanta ansietà, che Mattia ne ebbe una dolce scossa in tutte le sue fibre.
Egli le schiuse le braccia, desiderando di credere, anelante di liberarsi dalla maledetta visione di poco prima.
–Mattia, – ella gli disse allora, abbandonata la faccia sull'omero di lui, con un accento vibrante di passione, – che cosa farei, Mattia, per poterti dare la felicità… la più grande felicità!..
–Amami, – egli rispose. – E dimentica. Così saremo felici… ancora.
Fu questa la spiegazione tra Loreta e il Sant'Angelo.
Ma nè l'uno nè l'altra ne uscirono coll'animo tranquillato.
Mattia, che in tutto quello che aveva detto era stato inspirato da una sincerità profonda, forzavasi invano a cacciare il pensiero sôrto a turbare l'illusione confortatrice, alla quale egli si era per un momento abbandonato. Loreta, dinanzi al contegno di quell'uomo buono, che illudevasi ancora, che ancora la riteneva degna del suo amore e della sua stima, sentivasi presa da un fiero disdegno contro sè stessa: era un inganno vile, era una usurpazione codarda di cui ella rendevasi ora colpevole; e si rimproverava la mancanza del coraggio per dire tutto, per confessare il suo fallo ed affrontarne tutte le conseguenze.
Ma indarno ella faceva appello disperatamente alla propria energia. Ad ogni ora che passava cresceva l'abbattimento in cui era caduta. E i fatti della vita domestica, che avevano già ripreso intorno a lei la loro abituale uniformità, lunge dall'arrecarle il più lieve sentimento di calma, non faceano che inasprire con implacabile insistenza il dolore inguaribile dell'anima sua.
Con Alvise non s'eran rivisti più. Fedele alla promessa fatta e conscio pienamente dell'obbligo suo di agire così, per quanto questo dovesse costargli, egli era partito. Solo, a supremo suo conforto, aveva egli fatto recapitare collo stesso mezzo sicuro, ch'egli aveva adoperato due o tre volte ne' giorni precedenti, un breve biglietto a Loreta. Poche linee soltanto: scritte con studiata concisione e tali da non portare compromissione soverchia se per caso fossero cadute sott'occhio d'altra persona, ma eloquentissime nella loro voluta semplicità. Era un addio risoluto: una supplicazione toccante perchè ella serbasse di lui, che andava lontano, ad una meta ignota, per non tornare mai più, una non ingrata ed indulgente memoria.
Loreta nel leggere questo foglio aveva pianto a lungo. Nè valse ad arrestare quelle lagrime, sgorganti con voluttà intensa dal suo cuore, il pensiero ch'esse erano una nuova offesa a quei doveri che suo malgrado era stata trascinata a calpestare così gravemente.
A celare quest'angoscia senza requie, ella impiegava ogni sforzo. Ma se la sua parola, penosamente cercata, poteva indurre in inganno, il suo aspetto la tradiva. Una tinta livida si stendeva ne' suoi lineamenti: nelle fonde pupille brune permaneva l'intensità di sguardo propria agli allucinati: nelle sue mani pallide erano dei rapidi sussulti, che le contraevano spasmodicamente.
Mattia vedeva. Nella vigilante attenzione, ond'egli con l'animo sospettoso, circondava ora sua moglie, tutto ciò che ella tentava di nascondergli, appariva con evidenza più allarmante dinanzi al suo pensiero. L'odiosa ipotesi, che gli era balenata nello scorgere l'abbattimento di Loreta quand'egli le ebbe appreso la partenza del Polverari, era ora sovrana del suo spirito. Egli sentiva ormai incrollabile la certezza che quell'amore, non ispento mai, rinato violentemente, avrebbe creato fra lui e sua moglie un vuoto ed una freddezza, che nulla avrebbe potuto più far sparire. Alvise Polverari, lontano, lontano per sempre, sarebbe stato pure presente ognora in mezzo ad essi, involontario distruggitore della loro felicità… Era questo il decreto del destino: ed era inutile contro di esso ogni lotta ed ogni ribellione.
Così un incubo penoso regnava ora diuturnamente nella casa. Sparite le antiche consuetudini, rallentato ogni rapporto confidenziale, pareva che un soffio sinistro di sventura avesse recato in tutta la casa, prima così patriarcalmente quieta, un malurioso senso di mestizia.
Mattia Sant'Angelo nel breve giro di venti giorni parea invecchiato di dieci anni. Silenzioso, fiacco, trasandato nella persona, passava lunghe ore nella campagna, senza leggere, senza far nulla, cogli occhi persi nella lontananza. Nello studio entrava di raro, per pochi minuti, lasciando intatti i libri nuovi, i giornali, le lettere, che giungevano ogni mattina. La vecchia Vige, avvezza alle abitudini regolarissime della casa, la quale (per dir la sua frase) soleva "andare come un orologio", giudicava che ben gravi dovessero essere le ragioni se tutto in poco d'ora s'era così stranamente mutato.
Della prostrazione in cui il Sant'Angelo trovavasi Loreta aveva piena consapevolezza. E comprendendo come quella gagliarda fibra d'uomo si veniva stremando sotto il peso delle sue acerbe preoccupazioni, minato nella salute, scoraggito nel lavoro, sentiva levarsi sempre più severa la voce di rimprovero, da cui era senza posa incalzata.
In tal modo cominciò per lei una vita di torture incessanti, che s'inasprivano spietatamente, di continuo, talvolta per una sola parola, talvolta per qualche semplicissimo fatto, a cui ella, nella perenne trepidazione della sua mente, attribuiva i più desolanti significati.
Così fu per lei un'indicibile sofferenza un dialogo, cui ella dovette assistere un giorno, fra suo marito e il loro vecchio amico, il conte Leonardo Mangilli. L'ottimo conte orso, il quale coll'andare degli anni diventava sempre meno socievole, tanto che ora pareva un miracolo se mai si decideva a lasciare anche per poco il suo delizioso romitorio di Collalto, aveva fatto sempre un'eccezione a' suoi usi per la famiglia Sant'Angelo. Veniva di raro, ma cordialmente, come ad una festa. Egli, che l'avea sempre con tutto il mondo giudicandolo composto pressochè interamente di birbe e di matti, continuava la sua antica stima al Sant'Angelo, di cui aveva apprezzato in ogni istante le rare doti dell'intelligenza e del cuore. Ruvido nelle forme, questo suo sentimento l'aveva affermato cento volte. E vi si appellava anche quel giorno, volendo spiegare la ragione della sua visita.