Kitabı oku: «Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo I», sayfa 13
LIBRO QUINTO
SOMMARIO
Il re di Sardegna continua nella sua alleanza con l'Austria. Provvedimenti militari di queste due potenze dalla parte d'Italia. Il gran duca di Toscana fa un accordo con la repubblica Francese. Discorso del suo ministro Carletti al consesso nazionale, e risposta del presidente. Discorso del nobile Querini, inviato di Venezia, al medesimo consesso, e risposta del presidente. Battaglia navale tra i Francesi e gl'Inglesi al capo di Noli combattuta i dì tredeci, e quattordeci marzo del 1795. Pace della Prussia con la repubblica Francese. Guerra sulla riviera di Genova: vantaggi dei confederati. Congiure, sdegni, e rigori nel regno di Napoli. Gravi turbazioni nella Corsica contro gl'Inglesi. Paoli chiamato a Londra come sospetto. Qualità di questo Corso. Moti tumultuosi a Sassari di Sardegna. La Spagna conclude la pace con la Francia, ed offre la sua mediazione a fine di concordia al re di Sardegna. In qual modo Vittorio Amedeo riceva questa mediazione. Consiglio convocato in Torino per deliberare sulla proposizione della pace. Discorso del marchese Silva, che opina per gli accordi. Discorso del marchese d'Albarey, che gli dissuade. Si viene di nuovo all'armi. Battaglia di Loano succeduta addì ventitrè di novembre del 1795. Suoi importanti risultamenti.
Erasi la fortuna, sul finire del precedente anno, mostrata favorevole alle armi dei repubblicani non solamente dalla parte d'Italia, ma eziandìo, e molto più verso la Spagna, i Paesi Bassi, e quella parte della Germania, che si distende sulla riva sinistra del Reno: che anzi in questi ultimi paesi tanta era stata la prosperità loro, che cacciati al tutto gli eserciti Inglesi, Olandesi, Prussiani, ed Austriaci, si erano fatti padroni del Brabante, dell'Olanda, e di tutta la Germania di quà dal Reno, sì fattamente che minacciando di varcar questo fiume, niuna cosa lasciavano sicura sulla sua destra sponda. Tante e così subite vittorie davano timore, che la confederazione si potesse scompigliare, e che alcuno fra gli alleati, disperando dell'esito finale della guerra, pensasse ad inclinar l'animo ai Francesi, e ad anteporre una pace, se non sicura, almeno manco pericolosa, ad una contesa, il cui fine era oramai divenuto, se non del tutto impossibile, certamente molto incerto a conseguirsi. A questo si aggiungeva, che il reggimento che si era introdotto in Francia dopo la morte di Robespierre, mostrava e più moderazione verso i cittadini, e maggior temperanza verso i forestieri. Dannava le immanità del governo precedente, dannava gl'incentivi o subdoli o superbi usati verso i sudditi, e verso i principi forestieri. Protestava voler vivere amico di tutti, e non consentire a turbar la pace altrui, se non quando altri turbasse la sua. Ogni cosa anzi inclinava ad un quieto e regolato vivere: solo dava fastidio quel nome di repubblica, al quale suono i principi d'Europa penavano ad avvezzare le orecchie, prevedendo, che questo nome solo, e con quest'allettamento della libertà, che i Francesi pretendevano negli scritti e nelle parole loro, e che con tanto maggior efficacia opera nella mente dei mortali, quanto ella è una immagine vaga e non bene definita, basterebbe col tempo, senza che necessaria fosse la forza, a partorir variazioni d'importanza, ed a cambiar l'ordine antico. Non ostante, essendosi le cose ridotte in Francia a maggior moderazione, si era il pericolo di presenti turbazioni allontanato, e si dubitava che cresciuto dall'un de' lati il terrore delle armi Francesi, diminuito dall'altro il pericolo delle forsennate suggestioni, prevalesse in alcun membro della lega la volontà di procurar i proprj vantaggi, con danno di tutti o di alcuno dei confederati. Massimamente non si stava senza apprensione che la Prussia facesse pensieri diversi dai comuni, sì pel desiderio della bassezza dell'Austria, sì per le antiche sue consuetudini con la Francia, e sì per timore della Russia, che continuamente stimolava e non mai ajutava. Di ciò se n'erano già veduti appropinquare alcuni effetti, perchè il re Federico Guglielmo, ora ritirava le sue genti dal campo di guerra, ora voleva mettere a prezzo la cooperazione loro, ed ora dannava le leve Germaniche per istormo. Insomma pareva a chi guardava dirittamente, che questo membro della lega avesse frappoco a separarsi dai consiglj comuni; il quale caso quanto peso fosse per arrecare nelle cose d'Europa, è facile vedersi da chi conosce e la sua potenza, e la sede de' suoi reami. Si temeva pertanto, che l'inverno, il quale acquetando l'operare risveglia il deliberare, potesse condurre qualche negoziato col fine di porre discordia nella lega, e che ove la stagione propizia al guerreggiare fosse tornata, le armi dei Francesi avessero a fare qualche grande impeto con insinuarsi nelle viscere di uno, o di più dei rimanenti alleati. Ma già avevano i Francesi verso Germania acquistato quanto desideravano; poichè signori dell'Olanda, signori delle province Germaniche poste di quà dal Reno, a loro non rimaneva altra cagione di condursi a far guerra sulla sponda destra di quel fiume, se non quella di sforzare con continuate vittorie l'imperator d'Alemagna a conoscere la repubblica loro, ed a concluder la pace con lei. Ma sarebbe stato il cammino lungo, e forse non sicuro; poichè l'Austria, sebbene sbattuta dalla fortuna, era tuttavìa formidabile, massime se si venissero a toccare gli stati ereditarj. Per lo che avvisavano, lei potersi assaltare con minor pericolo, e col medesimo frutto da un'altra parte.
Quanto alla Spagna, sebbene i Francesi si fossero aperta la strada nel cuore di quel regno coll'acquisto delle fortezze di Fontarabia, e di Figueras, non ponevano l'animo a volervi fare una invasione d'importanza; perciocchè e il paese era povero, e le opinioni contrarie, e la posizione tanto lontana dagli altri luoghi nei quali si combatteva, che non si poteva nè operare di concerto, nè secondare i casi prosperi, nè ajutare i sinistri. Nè si credeva che abbisognassero gli estremi sforzi, ad una inondazione totale di forze repubblicane per costringere la Spagna alla pace: anzi credevano i Francesi, che un romoreggiare in sui confini a ciò bastasse. Pareva poi anche loro una invasione di quel reame cosa troppo insolita da potersi tentare così alla prima, opinando che l'essersi sempre astenuti i loro maggiori dall'invadere quella provincia, non fosse senza gravi ed efficaci ragioni. Oltre a questo aveva forza nei consiglj di Spagna una condizione particolare; perchè salito pel favor della regina ad immoderata potenza il duca d'Acudia, avvisavano i Francesi, accortissimi nel pesare le condizioni delle corti straniere, che il duca pensasse piuttosto a solidare la sua autorità, allontanando con un accordo un pericolo gravissimo, che a mantenere l'integrità della fama del nome Spagnuolo, e quanto richiedeva in quella occorrenza tristissima di tempi la dignità della corona di Spagna.
Restava l'Italia, alla quale si prevedeva che si sarebbe piuttosto che in altro luogo voltato il corso delle armi Francesi: per questo avevano i repubblicani con infinito sforzo superate le cime delle Alpi e degli Apennini; per questo ordinato ai passi l'esercito vincitore di Tolone; per questo allettato con promesse e con lusinghe il re di Sardegna; per questo adulato Genova, addormentato Venezia, convinto Toscana, e turbato Napoli; per questo risarcivano a gran fretta i danni di Tolone con crearvi un navilio capace ad operare con forza sulle acque del Mediterraneo; per questo stillavano continuamente nei consigli loro, come, quando, per quale via, e con quali mezzi dovessero assaltar l'Italia. Era la penisola in questo anno la principal mira dei disegni loro, perchè speravano, per la debolezza e disunione de' suoi principi, poterla correre a posta loro, perchè malgrado delle funeste pruove fatte in ogni età, il correre questa provincia è sempre stato appetito principalissimo dei Francesi. Conculcate poi l'armi Austriache in lei, precorrendo la fama della conquista di una sì nobile regione, speravano che l'Austria spaventata calerebbe presto agli accordi.
Sì fatti disegni, non solamente non celati studiosamente, come si suol fare per l'ordinario, ma ancora manifestati espressamente, perchè meglio nascesse il timore, operavano in differenti guise nella mente dei principi Italiani. Il re di Sardegna ridotto in estremo pericolo, perduti oggimai i baloardi delle Alpi, e trovandosi con l'erario consumato da quell'abisso di guerra, aveva grandissima difficoltà del deliberare sì della pace che della guerra, se però non è più vero il dire, che posto in una necessità fatale, e portato del tutto da un destino inevitabile, altro scampo più non avesse che aperto gli fosse, se non di pruovare, se forse l'armi, che sempre sono soggette alla fortuna, avessero a portare nel prossimo anno accidenti per lui più favorevoli; imperciocchè aveva da una parte a fronte un nemico che egli stimava tanto infedele nella pace quanto era veramente terribile nella guerra, ed il paese suo era occupato da grossi battaglioni d'Austriaci, per modo che lo sbrigarsi dai medesimi sarebbe stata impresa difficilissima, ed anche pericolosa. Per la qual cosa o fosse elezione, o fosse necessità, deliberossi di non separare i suoi consiglj da quei de' confederati, e di continuare piuttosto nell'amicizia Austriaca già pruovata e consenziente alla natura del suo governo, che di darsi in braccio ad un'amicizia non pruovata e contraria ai principj della monarchìa. Gli pareva anche odioso ed indegno del suo nome il rompere gli accordi di Valenziana così freschi, e prima che si fosse sperimentato che valessero o non valessero alla salute del regno. Per verità l'Austria, commossa dal pericolo imminente, che i Francesi superate le Alpi, ed annientata la potenza Sarda inondassero l'Italia, non differiva le provvisioni per procurar l'esecuzione dei patti di Valenziana; perchè oramai non si trattava soltanto della salute di un alleato, ma bensì della propria, e quello che forse la fede non avrebbe fatto, il faceva la necessità; perlocchè si dimostravano dalla parte della Germania ogni dì più efficaci movimenti, le genti Tedesche ingrossavano in Piemonte, e già componevano un esercito giusto, e capace di tentare, unito al Piemontese, fazioni d'importanza. Così, sebbene già si vedesse in aria, che qualche alleato avesse a far variazioni dalle parti di Germania, dimostravano i confederati speranza grande di poter porre le cose d'Italia in tale stato, che per poco che la fortuna avesse a guardare con occhio più benigno le armi loro, si avrebbe potuto opporre un argine sufficiente contro quel fiume tanto impetuoso, e tanto formidabile. Adunque il re, posto dall'un de' lati ogni pensiero d'accordo con un nemico, che più odiava ancora che temesse, allestiva con ogni diligenza le armi, i soldati e le munizioni. Nè potendo lo stato, e scemato di territorio e conculcato dalla guerra, sopperire al dispendio straordinario coi mezzi ordinarj, e trovandosi oppressato dalla necessità di danari, si diede opera a vendere in virtù di una bolla pontificia, trenta milioni di beni della chiesa; venderonsi i beni degli ospedali con dar in iscambio luoghi di monti; posesi un accatto sforzato sulle professioni liberali; accrebbersi le gabelle del sale, del tabacco, e della polvere da schioppo, ed ordinossi un balzello per capi. Le quali imposte, che dimostravano l'estremità del frangente, rendevano i popoli scontenti; ma però gettando somme considerabili ajutavano l'erario a pagar soldati, esploratori, e Tedeschi. Così tra le gravi tasse, le provvisioni straordinarie, le leve sforzate, e il romore dell'armi sì patrie che straniere, sospesi i popoli tra la speranza ed il timore, aspettavano con grandissima ansietà i casi avvenire.
Le vittorie dei repubblicani sui monti, che davano probabilità ch'eglino avessero presto ad invadere l'Italia, confermando il consiglio dei Savi in Venezia nella risoluzione presa di mantener la repubblica neutrale e poco armata, avevano indotto al tempo medesimo il gran duca di Toscana a far nuove deliberazioni, con trattar accordo con la repubblica Francese, e con tornarsene a quella condizione di neutralità, dalla quale sforzatamente, e solo coll'aver licenziato il ministro di Francia s'era allontanato. Aveva sempre il gran duca in mezzo a tutti quei bollori, conservato l'animo pacato, e lontano da quegli sdegni che oscuravano la mente degli altri sovrani rispetto alle cose di Francia; non già che egli appruovasse le esorbitanze commesse in quel paese, che anzi le abborriva, ma avvisava, che infino a tanto che i repubblicani si lacerassero fra di loro con le parole e coi fatti, avrebbero lasciato quietare altrui, e che il combattergli sarebbe stato cagione, che si riunissero a danni di chi voleva essere più padrone in casa loro, che essi medesimi. Ma poichè senza colpa sua e pei cattivi consigli d'altri, i Francesi, non che fossero vinti, avevano vinto altrui, per modo che oramai quella sede d'Italia da tanti anni immune dagli strazj di guerra, era vicina a sentire le sue percosse, pareva ragionevole che il gran duca s'accostasse a quelle deliberazioni, che i tempi richiedevano, e che erano conformi sì alla natura sua quieta e dolce, e sì agl'interessi della Toscana. Quello adunque che la natura ed una moderata consuetudine davano, volle il governo confermare col fatto: la memoria del buon Leopoldo operava in questo efficacemente. Oltre a ciò il porto di Livorno era divenuto, poichè erano chiusi dalla guerra quei di Francia, di Genova e di Napoli, il principale emporio del commercio del Mediterraneo. Quivi concorrevano gl'Inglesi col loro numeroso navilio sì da guerra che da traffico; quivi i Francesi ed i Genovesi, o sotto nome proprio o sotto nome di neutri, a fare i traffichi loro, massimamente di fromenti, che trasportavano nelle province meridionali della Francia. Levavano gl'Inglesi grandissimi romori per cagione di questi ajuti procurati dalla neutralità di Livorno; ma il gran duca, preferendo gl'interessi proprj a quelli d'altrui, non si lasciava svolgere, e sempre si dimostrava costante nel non voler serrare i porti ai repubblicani. Nè contento a questo, con molta temperanza procedendo, ordinava che fossero aperti i tribunali ai Francesi, e venisse fatta loro buona e sincera giustizia secondo il dritto e l'onesto. Avendo poi anche udito che alcuni falsavano la carta moneta di Francia, diede ordine acciò sì infame fraude cessasse, e fosserne castigati gli autori. La quale cosa non senza un singolar piacere dall'un de' lati, e sdegno dall'altro io narro vedendo, che in un principe Italiano, signore di un piccolo paese, ed esposto alle ingiurie di tanti potenti tanto abbia potuto l'amore del giusto, e di quanto havvi nella civiltà di più santo e di più sacro; ch'egli abbia impedito e dannato un'opera sì vituperosa, mentre appunto nel tempo medesimo uomini perversi in paesi ricchissimi e potentissimi, per l'infame sete dell'oro, e forse per una sete ancor peggiore, la compivano, non nascostamente, ma apertamente, e se non per comandamento espresso del governo loro, certo con connivenza, od almeno con tolleranza scandalosa di lui. Così le mannaje uccidevano gli uomini a folla in Francia, così la guerra infuriava in Piemonte, così lo stato incrudeliva in Napoli, così i falsarj contaminavano l'Inghilterra, mentre l'innocente Toscana, non guardando nè su i cappelli i colori, nè sulle bocche la favella, ministrava giustizia a tutti, nè si piegava più da una parte che dall'altra. Felice condizione, in cui nè il timore avviliva, nè la superbia gonfiava, nè l'appetito dello avere altrui precipitava a risoluzioni inique e pericolose!
Ma divenendo ogni ora più imminente il pericolo d'Italia, pensò il gran duca, che fosse oramai venuto il tempo di confessare apertamente quello, che già eseguiva con tacita moderazione, sperando di meglio stabilire in tale modo la quiete e la sicurtà di Toscana. Per la qual cosa deliberossi al mandare un uomo a posta a Parigi, affinchè fra i due stati si rinnovasse quella pace, che più per forza, che per deliberazione volontaria era stata interrotta. E parendogli, siccome era verissimo, che si dovesse mandare chi fosse grato, diede questo carico al conte Carletti, che era sempre stato fautore, perchè i Francesi si proteggessero, e leale giustizia tanto nelle persone, quanto nelle proprietà avessero. Adunque fu fatto mandato al conte, andasse a Parigi, e col governo della repubblica la pace concludesse. Molte furono le querele che si fecero in quei tempi di questa risoluzione, e della scelta del Carletti. Coloro a cui più piaceva la guerra che la pace, chiamarono il conte giacobino, e per poco stette che non chiamassero giacobino anche il gran duca. Certo era un caso notabile, che nel mentre che solo si vedevano in Europa principi o cacciati dalle proprie sedi per la furia dei repubblicani di Francia, od a mala pena contrastanti contro la forza loro, un principe Austriaco fosse il primo ad accordarsi con una repubblica insolita, e minacciosa al nome dei re. Ma il tempo non tardò a scoprire, che quello che il gran duca ebbe fatto per solo amore dei sudditi, il fecero altri principi assai più potenti di lui o per consiglio di favoriti ambiziosi, o per gelosìa della grandezza altrui. Ma era fatale, che in quella volubilità di governi Francesi, quest'atto del gran duca non preservasse la Toscana dalle calamità comuni, perchè vennero tempi, in cui la forza e la mala fede ebbero il predominio: l'innocenza divenne allettamento, non scudo.
Fecero i repubblicani al conte Carletti gratissime accoglienze sì per acquistar miglior fama, e sì per allettar altri principi a negoziare con quel governo insolito, e terribile. Debole era il gran duca a comparazione di Francia; ma era pei Francesi di non poco momento, che un principe d'Europa riconoscesse quel loro nuovo reggimento, e concludesse un accordo con lui; perchè, superata quella prima ripugnanza, si doveva credere, che altre potenze, seguitando l'esempio di Toscana, si sarebbero più facilmente condotte a fare accordo ancor esse. Perlocchè fu udito con facili orecchie il conte a Parigi, ed appena introdotti i primi negoziati, fu concluso, il dì nove febbrajo, tra Francia e Toscana un trattato di pace e di amicizia, pel quale il gran duca rivocava ogni atto di adesione, consenso, od accessione, che avesse potuto fare con la lega armata contro la repubblica Francese, e la neutralità della Toscana fu restituita a quella condizione, in cui era il dì otto ottobre del novantatre.
Giunte in Toscana le novelle della conclusione del trattato, si rallegrarono grandemente i popoli, massime i Livornesi per l'abbondanza dei traffichi, e con somme lodi celebrarono la sapienza del gran duca Ferdinando, il quale non lasciatosi trasportare agli sdegni d'Europa, e solo alla felicità del sudditi mirando, aveva loro quieto vivere, e sicuro stato acquistato. Bandissi la pace pubblicamente con le solite forme, ma a suon di cannoni in Livorno in cospetto dell'armata Inglese, che quivi aveva le sue stanze. Pubblicò Ferdinando, non aver dovuto la Toscana ingerirsi nelle turbazioni d'Europa, nè l'integrità, o la salute sua fidare alla preponderanza di alcuno fra i principi in guerra, ma bensì al diritto delle genti, ed alla fede dei trattati; non aver mai dato a nissuno causa di offenderla; essere stata imparziale, essere stata neutrale giusta la legge fondamentale del gran ducato pubblicata nel settantotto dalla sapienza di Leopoldo; sapere Europa come, e quando il principe ne fosse stato violentemente, e per una estrema forza svolto, e con tutto ciò non altro aver tollerato, se non che il ministro di Francia si allontanasse dalle terre di Toscana; avere ciò conosciuto la nazione Francese; però essere stata la Toscana, con la conclusione del nuovo trattato, redintegrata di quei beni, che per forza le erano stati tolti; volere perciò, ed ordinare, che il trattato si eseguisse, e l'editto di neutralità del settantotto si osservasse. Perchè poi quello, che la sapienza aveva accordato, i buoni uffizj conservassero, chiamò Ferdinando il conte Carletti suo ministro plenipotenziario in Francia. Introdotto al cospetto del consesso nazionale, orava dicendo, che mandato dal gran duca in Francia a fine di ristabilire una neutralità preziosa al governo Toscano, aveva molto volentieri accettato il carico, siccome quello, ch'ei credeva molto onorevole ad uomo, qual egli era, amico dell'umanità, amico della patria, amico della Francia; fortunatissimo per lui riputare il giorno in cui aveva concluso la pace con la repubblica Francese; essersene rallegrata Toscana con segni di universale contento; pacifica essere Toscana, voler vivere in termini amichevoli con tutti; aver sempre avuto i Toscani, malgrado di tutti gli accidenti occorsi, in onore la potente nazione Francese; sforzerebbesi egli in ogni modo per fare, che l'amicizia fra i due stati fosse perpetua; desiderare che la pace conclusa tra Francia e Toscana fosse in felice augurio di altre tanto all'Europa necessarie: gissero adunque, continuassero nella temperanza testè mostrata; che sperava ben egli, che siccome ora gli vedeva coi capi cinti di lauro, così presto gli vedrebbe con le palme piene d'ulivo.
Rispondeva il presidente con magnifico discorso: il popolo Francese assalito da una lega potentissima, avere, malgrado suo, preso le armi, avere anche acquistato gloriose vittorie; ma non desiderare altra conquista, che quella della sua independenza; volere esser libero, ma rispettare i governi altrui; sarebbe temperato nella vittoria, come terribile nelle battaglie; piacergli la Toscana moderazione, piacergli le cure avute dei perseguitati, piacergli le dimostrazioni amichevoli di Ferdinando gran duca: perciò avere tosto accettato gli accordi, che Toscana era venuta offerendo; accettare con animo benevolo il presagio di altre concordie; non esser nati e fatti i popoli per odiarsi fra di loro, bensì per amarsi, bensì per travagliarsi concordevolmente a procacciare felicità vicendevole; tali essere i desiderj, tali le più instanti cure del Francese popolo in mezzo a così segnalate vittorie: esser pronto a far guerra, più pronto a far pace; vedere il consesso volentieri in cospetto suo un uomo noto per filosofia, noto per umanità, noto per servigj fatti a Francia: augurarne sincera e durabile concordia.
Infine, perchè non mancasse a queste lusinghevoli parole quel condimento dell'abbracciata fraterna, come la chiamavano, gridossi romorosamente l'abbracciata, e l'abbracciata fu fatta, plaudendo i circostanti. Andossene Carletti molto ben lodato ed accarezzato. Così verificossi con nuovo esempio l'indole dei tempi, che portava gioje corte e vane, dolori lunghi e veri.
Giacchè siamo entrati in questa lunga e nojosa briga di raccontare dolci parole e tristi fatti, non vogliamo passar sotto silenzio le dimostrazioni non dissimili, con le quali si procedette col nobile Querini, destinato dalla repubblica Veneziana ad inviato appresso al consesso nazionale di Francia. Avevano coloro, che nei consigli di Venezia prevalevano, sperato di sollidar vieppiù lo stato della repubblica col mandar a Parigi un personaggio d'importanza, acciocchè con la presenza e con la destrezza dimostrasse, esser vera e sincera a determinazione del senato di volersene star neutrale. Perlochè, adunatosi il senato sul principiar di marzo, trasse inviato straordinario in Francia Alvise Querini, in cui non so se fosse maggiore o l'ingegno, o la pratica del mondo politico, o l'amore verso la sua patria; che certo tutte queste cose erano in lui grandissime.
Adunque, arrivato Querini a Parigi, ed introdotto onoratamente al consesso nazionale, e vicino al seggio del presidente postosi, con bellissimo favellare disse, cittadino di una repubblica da tempi antichissimi fondata per la necessità di fuggire i barbari, e pel desiderio di vivere tranquilla, avere ora nuova cagione di gratitudine verso la sua patria per averlo destinato ministro appresso ad una repubblica, che appena nata già riempiva il mondo colla fama delle sue vittorie. Qual cosa infatti poter essere a lui più lusinghiera, quale più gioconda di quella di comparire in cospetto del nazionale consesso di Francia, a fine di confermar l'amicizia, che il senato e la repubblica di Venezia alla repubblica Francese portavano? sperare la conservazione di quest'antica amicizia sperarla, desiderarla, volerla con tutto l'animo e con tutte le forze sue procurare, e stimarsene fortunatissimo; recarsi ancora a felicità sua, se al mandato della sua cara patria adempiendo, meritasse che in lui avesse il consesso fede, e se conceduto gli fosse di vedere, che il consesso medesimo fatto maggiore di se, e benignamente agli strazj dell'umanità risguardando, con generoso consiglio dimostrasse, aver più cura della pace che della guerra, ed il frutto di tante vittorie aver ad essere il riposo di tutti.
Orava in risposta il presidente dicendo, felicissimo essere alla repubblica Francese quel giorno, in cui compariva avanti a se l'inviato della illustre repubblica di Venezia; poter vedere il nobile Querini in volto ai circostanti i segni della contentezza comune; antica essere l'amicizia tra Francia e Venezia, ma anticamente aver vissuto la prima sotto la tirannide dei re; ora dover l'accordo essere più dolce, perchè libera dal giogo; avere avuto pari principio le due repubbliche: sorta la Veneziana fra le tempeste del mare, fra le persecuzioni dei barbari; pure fra tanti pericoli avere acquistato onorato nome al mondo per la sua sapienza, e pe' suoi illustri fatti; avere spesso le querele dei re giudicato, spesso l'Occidente dai barbari preservato: similmente sorta la Francese fra le tempeste del mondo in soqquadro; gente più barbara dei Goti avere voluto distruggerla, usato fuori le armi, dentro le insidie, chiamato in ajuto la civile discordia; ma tutto stato essere indarno, la libertà avere vinto: non dubitasse pertanto Venezia, che siccome pari era il principio, e pari l'effetto, così sarebbe pari l'amicizia; avere la generosa Venezia, allora quando ancora stava la gran lite in pendente, accolto l'inviato della Francese repubblica onorevolmente; volere la Francia grata riconoscere con procedere generoso un procedere generoso, e siccome la sua alleata non aveva dubitato di commettersi ad una fortuna ancor dubbia, così goderebbe securamente i frutti di una fortuna certa: avere potuto la Francia, quando aveva il collo gravato dal giogo di un re, ingrata essere ed ingannatrice, ma la Francia libera, la Francia repubblicana riconoscente essere, e leale, e con tanto miglior animo riconoscere l'obbligo, quanto il benefizio non era senza pericolo: andasse pur sicura Venezia, e si confortasse, che la nazione Francese nel numero de' suoi più puri, de' suoi più zelanti alleati sarebbe: quanto a lui, nobile Querini, se ne gisse pur contento, che la Francese repubblica contentissima si riputava di averlo per ministro di una repubblica amica, e che di pari estimazione in Francia goderebbe di quella, che già si era in Venezia acquistata: i desiderj di pace essere alle due repubbliche comuni; confidare, sarebbero presto con la quiete universale d'Europa adempiti. Per tale modo si vede, che per testimonio del presidente Lareveillere-Lepeaux, che orava, Venezia era generosa, libera, amica di Francia. Pure poco tempo dopo coloro che sottentrarono al governo, ed un soldato uso ad ogni violenza la distrussero, chiamandola vile, schiava e perfida.
Giunte a Venezia le novelle della cortese accoglienza fatta al Querini, si rallegrarono vieppiù coloro, che avevano voluto fondar lo stato piuttosto sulla fede di Francia, che sull'armi domestiche, e si credettero di aver in tutto confermato l'imperio della loro antica patria.
Dalla parte d'Italia, dove era accesa la guerra, incominciavano a manifestarsi i disegni dei Francesi. Doleva loro l'acquisto fatto della Corsica dagl'Inglesi, e desideravano riacquistarla, perchè non potevano tollerare, che la potenza emola fermasse con la comodità di quell'isola un piede di non piccola importanza nel Mediterraneo. Oltre a ciò le genti accampate sulla riviera di Ponente travagliavano per un'estrema carestìa di vettovaglia; importava finalmente, che il nome e la bandiera di Francia si mantenessero vivi nel Mediterraneo. Fu allestita con incredibile celerità a Tolone un'armata di quindici grosse navi di fila con la solita accompagnatura delle fregate, e di altri legni più sottili. Genti da sbarco, e viveri in copia vi si ammassarono: usciva nei primi giorni di marzo, e postasi nelle acque dell'isole Iere aspettava che il vento spirasse favorevole all'esecuzione dei suoi pensieri.
Il vice ammiraglio Inglese Hotham, che stava in sentore a Livorno con un'armata, in cui si noveravano quattordici grosse navi di fila, tutte Inglesi, ed una Napolitana, con tre fregate Inglesi e due Napolitane, ebbe subitamente avviso dell'uscita dei Francesi sì per un messo da Genova, sì per le sue fregate più leste, che a questo fine andavano correndo il mare tra la Corsica e la Francia. Pose tosto in alto per andar ad incontrar il nemico, e per combatterlo ovunque il trovasse. Dall'altra parte, uditosi dall'ammiraglio Francese Martin, al quale obbediva l'armata, che gl'Inglesi solcavano il mare per combattere con lui, lasciate le onerarie all'isole Iere, sciolse animosamente le ancore ancor egli, risolutosi al commettere alla fortuna delle battaglie l'imperio del Mediterraneo. Aveva per compagno a quest'impresa il rappresentante del popolo Letourneur, uomo non alieno dalle bisogne di mare, ma che in questo fatto faceva più le veci di confortatore, che di guidatore. Incominciò a dimostrarsegli con lieto augurio la benignità della fortuna; perchè avendo l'Hotham, tosto che ebbe le novelle del salpar dei Francesi, spedito ordine alla nave il Berwich, che stanziava a San Fiorenzo di Corsica, acciò con tutta celerità venisse a congiungersi con lui verso il capo Corso, ella, abbattutasi per viaggio nell'armata Francese, fu fatta seguitare dal vascello ammiraglio il San-Culotto (con questi pazzi nomi chiamavano i Francesi di quell'età le navi loro) e da tre fregate, per modo che combattuta gagliardamente, fu costretta ad arrendersi in cospetto di tutta l'armata repubblicana, che veniva via a vele gonfie per secondare i suoi, che già combattevano. Ciò non ostante non si arrese il Berwich senza un feroce contrasto, e tanto fu ostinata la sua difesa, che il San-Culotto mal concio ritirossi per forza nel porto di Genova, e poco poscia in quello di Tolone. Intanto arrivavano le due armate l'una al cospetto dell'altra nel giorno tredici marzo. Quivi incominciò la fortuna a voltarsi contro i Francesi, perchè separata per una forte buffa di vento dalla restante armata la nave il Mercurio, e perduto l'albero maestro, andò a dar fondo nel golfo di Juan; per questi accidenti si trovarono i Francesi al maggior bisogno loro con due navi di manco, delle quali il San-Culotto, essendo a tre palchi, era la principale speranza della vittoria. Godevano gl'Inglesi il vantaggio del vento, sicchè fu spinta l'armata della repubblica verso il capo di Noli, seguitandola gl'Inglesi per modo di caccia generale. In questo tra pel mareggiare, che era forte a cagione del vento assai fresco, e per la forza dell'artiglierìe Inglesi, che già si erano approssimate, perdè il vascello il Ça-ira gli alberi di gabbia, e diventato inabile a far le mosse, correva pericolo di esser predato dagl'Inglesi. Infatti, non così tosto si era Hotham accorto del sinistro del Ça-ira, che il fece perseguitare dalla fregata l'Inconstante, e dal vascello l'Agamennone. Si difese molto gagliardamente Ça-ira, rendendo furia per furia molto tempo, sicchè diede abilità a' suoi di venire in soccorso. Mandava Martin la fregata la Vestale per rimorchiarlo, la nave il Censore per ajutarlo; anzi tutta l'armata accorreva per arrestar il corso al nemico, e per salvar la nave che pericolava. Queste mosse molto opportune operarono di modo che gl'Inglesi si tirarono indietro. Sopraggiunse la notte; il Ça-ira trovossi guasto per modo che quantunque liberato pel valore de' suoi compagni dal pericolo, non potè raggiungere il grosso dell'armata, e continuava tuttavia a dimorar troppo più vicino all'Inglesi, che la salute sua richiedesse. S'aggiunse, che il Censore, quantunque replicatamente comandato gli fosse, quando il Ça-ira fu sbrigato dall'assalto degl'Inglesi, di venir a ricongiungersi con l'armata, si mostrò poco ossequente alla volontà di Martin; e continuò a stanziare verso la flotta Inglese. Questi accidenti, parte inevitabili, parte fortuiti, furono cagione che la mattina del quattordici le due navi il Ça-ira ed il Censore si scopersero più vicine agl'Inglesi che ai Francesi. Non posto tempo in mezzo, Hotham mandava le due navi il Bedford ed il Capitano ad assaltarle, avvisandosi, che o le rapirebbe, o i repubblicani, per salvarle, sarebbero venuti ad una battaglia giusta. Contrastarono le due navi Francesi con tanto valore, che gl'Inglesi non poterono venire così tosto a capo del disegno loro. Chiamarono in soccorso l'Illustre ed il Coraggioso; ma furono anche queste tanto lacerate dalla furia delle cannonate repubblicane, che la prima, non più abile a governarsi, fu arsa, la seconda andò per forza a ritirarsi nel porto di Livorno. Continuavano nientedimeno il Bedford ed il Capitano a fulminare le due navi della repubblica, che fortemente danneggiate negli alberi, nelle sarte, e nelle vele, nè potendo pel silenzio dei venti il grosso dell'armata accorrere in ajuto loro, calata la tenda, si arrenderono. Avevano gl'Inglesi il benefizio del vento; finalmente, essendosi messa una brezza leggiera anche pei Francesi, se ne prevalsero, non già per riconquistare le due navi perdute, che intieramente disgiunte dalla flotta loro per la presenza dell'Inglese, che s'era posta in mezzo, non avevano più rimedio, ma bensì per ritirarsi con minor danno che possibil fosse, da quel campo di battaglia oramai più pericoloso che glorioso. La quale mossa riuscì poco ordinata, nè conforme alla volontà dell'ammiraglio; perchè il vascello il Duquesne, che era il capofila, al quale tutti gli altri avrebbero dovuto accostarsi per fronteggiar l'inimico con una non interrotta squadra, o non avendo inteso i comandamenti del capitano generale, o contraffacendo manifestamente al medesimi, passò a sopravvento degl'Inglesi. Fu seguitato dai due vascelli la Vittoria ed il Tonante, per modo che l'armata repubblicana divisa in due, e tramezzata dall'Inglese, non poteva più nè uniformare i pensieri, nè operare di concerto. Ma un cattivo consiglio fu compensato da un valore inestimabile; perchè il Duquesne, la Vittoria, ed il Tonante bersagliarono, nel passare, con tanto furore la fila Inglese, che ne fu mezzo sperperata; gl'Inglesi medesimi, sebbene in quei tempi non giusti estimatori del valore dei Francesi, ne restarono maravigliati. Questo accidente fece anche di modo che Hotham, pensando meglio a risarcire le navi guaste, che a perseguitar l'inimico, andò a porre nel porto della Spezia. Poco tempo dopo passando pel mar Tirreno, si condusse a San Fiorenzo di Corsica, per sopravvedere da luogo più vicino ciò che potesse sorgere da Tolone. Assicurò per allora questa vittoria le cose di Corsica a favor degl'Inglesi. Si ricoverarono i repubblicani dopo la battaglia al golfo di Juan, poscia all'isole Iere, e finalmente nel porto di Tolone.