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Kitabı oku: «Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo II», sayfa 11

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Mostravasi il ministro di Francia appagato della risposta, avendo affermato a Francesco Pesaro, destinato dalla repubblica a conferire con esso lui sulle faccende comuni, ch'egli era grato al senato per la gentile, e soddisfacente risposta fattagli; ch'ella non poteva essere nè più sincera, nè più appagante; che incontanente l'aveva spedita a Buonaparte, e che sperava che una sì solenne manifestazione dei pubblici sentimenti avesse ad essere una pruova irrefragabile di quanto egli aveva sempre rappresentato: insomma ei si chiamò contento intieramente, e tranquillo. A questo modo parlava Lallemand il dieci luglio; eppure questo medesimo giorno, noi lo diremo, giacchè siamo serbati a raccontare queste contraddizioni fastidiose, egli scriveva al ministro degli affari esteri a Parigi, che il senato armava gli stagni col fine di far odiare dal popolo i Francesi; che il generale Buonaparte, richiesto di rimborsi, aveva con ragione risposto, che i Francesi erano entrati nei diritti dei Ferraresi sopra i paesi della repubblica, e che tenevano per cosa propria Peschiera, Brescia e gli altri luoghi occupati. Tanta poi è la forza della verità anche in coloro che vorrebbero servire ad interessi contrari, che il medesimo Lallemand, scrivendo pochi giorni dopo a Buonaparte, affermava che era verissimo, che il governo Veneziano si era mostrato molto avverso alla rivoluzione Francese, ed aveva nutrito con molta cura nel cuore dei sudditi l'odio contro i Francesi; ma che in quel momento era vero del pari, che sincere erano le sue protestazioni di neutralità e di buona amicizia verso la Francia; che le male impressioni lasciando luogo alla considerazione de' suoi veri interessi, lealmente desiderava veder rotto quel giogo Austriaco tanto grave a lui ed a tutta Italia; che per verità non si poteva sperare che si ajutasse con le proprie mani, ma che questo poteva bene la Francia promettersi di Venezia, che non tanto che ella contrariasse coloro che ne la volevano liberare, desidererebbe nell'animo suo felice compimento all'impresa loro; che, quanto all'armare, quantunque dubbiosi potessero esserne i motivi, pareva a lui, che tale qual era, non potesse far diffidare della fede Veneziana; che troppo le armi apprestate erano deboli da dare giustificata cagione di temere; che con gli occhi suoi propri vedeva, che i preparamenti che si facevano, non avevano altro fine, che quello di custodire le lagune ed i lidi vicini, e che insomma tutto quell'apparato non aveva in se cosa, che fosse ostile contro la Francia. Quest'era il testimonio di Lallemand, che ocularmente vedeva. Pure gridossi per questo medesimo fatto dell'armamento delle lagune, guerra e distruzione a Venezia. Così Venezia, segno di tanti inganni, se armava, era stimata nemica, se non armava, perfida; i tempi tanto erano perversi, che anche in chi conosceva la verità, si annidava la calunnia; la pace non le era più sicura della guerra, nè la guerra della pace, e l'estremo fato già la chiamava.

Tali quali abbiam narrato, erano i pensieri e le opere di Buonaparte e del direttorio verso la repubblica di Venezia; ma questi insidiosi disegni furono interrotti da una nuova inondazione di armi imperiali in Italia.

LIBRO NONO

SOMMARIO

Negoziati inutili di pace. Stato della repubblica Cispadana: nuovo congresso dei popoli dell'Emilia. Squallore dei soldati francesi in Italia, e ruberie dei pubblicani. Lamenti di Buonaparte in questo proposito. L'Austria ingrossa di nuovo, e fa impresa di riconquistare le sue possessioni d'Italia. Alvinzi suo generalissimo. Nuova e terribil guerra. Feroci battaglie nel Tirolo con la peggio dei repubblicani: lentezza molto fatale all'Austria del generale Davidovich dopo le sue vittorie in questo paese. Disegni di Buonaparte per opporsi a questa nuova inondazione di Tedeschi. Fatti d'arme sulla Brenta. Battaglia di Caldiero. Condizione assai pericolosa di Buonaparte: arte mirabile, colla quale se ne riscuote. Prodigiosa battaglia di Arcole. Battaglia moltiforme di Rivoli. Gli Alemanni rincacciati del tutto dall'Italia. Il generale austriaco Provera fatto prigione con tutti i suoi sotto le mura di Mantova. Celerità maravigliosa di Buonaparte in tutti questi fatti. Guerra contro il Pontefice. Battaglia del Senio. Pace di Tolentino, e sue gravi condizioni a' danni di Roma. Mantova si arrende alle armi repubblicane: lodi di Wurmser. Lusinghe di Buonaparte alla repubblica di San Marino: risposte dei Sanmariniani.

Noi dobbiamo continuar nel fastidio di raccontar governi non così tosto creati che spenti, secondochè portava l'utilità od il capriccio del vincitore, di cui sempre più si scoprivano i pensieri indiritti a turbare tutta l'Italia. Abbiamo nel precedente libro descritto, come per quel principal fine dell'aver la pace coll'imperatore, il direttorio di Parigi, e Buonaparte, mandato Clarke, offerivano patti di diversa natura ora all'imperatore medesimo, ora alla repubblica di Venezia, ora a quella di Genova, ed ora al re di Sardegna. L'Austria spaventata dalle calamità, a cui era stata sottoposta, non si mostrava aliena, se non di concludere, almeno di negoziare, e per questo aveva mandato a Vicenza il generale San Giuliano, acciocchè si abboccasse con Clarke. Anche l'Inghilterra, mossa dal pericolo dell'imperatore, e dalla forza della repubblica francese, che ogni dì più pareva insuperabile, si era piegata, benchè mal volentieri, a voler trattare, ed aveva mandato a questo fine lord Malmesbury in Francia. Tutti pretendevano voci di voler rimuovere tanto incendio dall'Europa afflitta, e di aver a cuore lo stato salutifero dell'umanità. Ruppero questi negoziati le vittorie dell'arciduca Carlo in Germania, che compensarono le sconfitte di Beaulieu e di Wurmser in Italia. Imperò gli alleati si fecero più renitenti, e di nuovo convenne venirne al cimento delle armi. Solo la Sardegna, che era ridotta piuttosto in potestà della Francia, che nella propria, aveva concluso un trattato di lega difensiva, avendo il re costantemente ripugnato ad una lega offensiva a motivo della guerra imminente col papa; al quale trattato il direttorio non volle ratificare a cagione della cessione, che vi si stipulava di alcuni territorj imperiali; perchè il re opportunamente valendosi della condizion sua armata, e dell'esser posto alle spalle dell'esercito francese, non cessava di addomandare o restituzione, o ricompenso delle perdute Savoja e Nizza. Il che pazientemente non poteva udire il governo di Francia, per essere quelle province unite per legge di stato alla repubblica.

Adunque il direttorio, trovata tanta durezza nell'Austria, nell'Inghilterra, e nel papa, che continuamente si preparava alla guerra, e dubitando che questo modo potesse estendersi più oltre, perchè non si fidava di Napoli, si consigliava di voler provare, se il timore delle rivoluzioni potesse sforzare i potentati a far quello che il timore delle armi non aveva potuto.

A questo fine erano indirizzati i moti dell'Emilia, e le instigazioni di Trento. Ma per parlar dei primi, si voleva da Buonaparte, che a quello che da principio aveva potuto parere frutto disordinato della guerra, succedesse uno stato regolato ed un assetto più giusto di constituzione, perchè lo stato disordinato, siccome quello che è temporaneo di natura, lascia da per sè stesso appicco a cambiamento di signoria nativa a signoria forestiera, mentre lo stato ordinato e riconosciuto non può darsi ad altrui senza nota d'infamia. Oltre a ciò sperava il generalissimo di accendere con questo allettativo d'independenza talmente quei popoli già di per se stessi tanto accendibili, che un fanatismo politico avesse a pareggiare gli effetti di quel fanatismo religioso, che per difesa propria s'ingegnava il pontefice di far sorgere in Italia contro i conquistatori. Sapeva che queste opere erano facili ad eseguirsi, perchè in alcuni ingannati operava l'amor della libertà, in altri consapevoli la peste dell'ambizione. Tanta paura aveva quel capitano vittorioso di coloro, che chiamava per isprezzo, non so se mel debba dire per la dignità della storia, pretacci. Bene ordinato era, quanto all'effetto, questo consiglio di opporre popoli accesi a popoli accesi. Ma ei conosceva bene il paese, e gli umori che vi correvano; perchè era solito dire, che in quella Cispadana repubblica erano tre sorti d'uomini: amatori dell'antico governo; partigiani di una constituzione independente, ma pendente all'aristocrazia, e quest'era il patriziato; finalmente partigiani della constituzione francese o della democrazia. Aggiungeva, che egli era intento a frenare i primi, a fomentare i secondi, a moderare i terzi, perchè i secondi erano i proprietari ricchi ed i preti, ch'ei credeva doversi conciliare, perchè rendessero i popoli partigiani di Francia. Quanto ai terzi affermava, esser giovani scrittori, uomini, che, come in Francia, così in tutti i paesi cambiavano di governo, ed amavano la libertà solamente, come diceva, per fare una rivoluzione. Dal che si vede in quale stima egli avesse quelli che professavano la libertà; e per verità non pochi fra di loro diedero tali segni al mondo, che fu manifesto come il giovane di ventott'anni con insolita sagacità avesse bene penetrato la natura loro: questo conoscere gli uomini fu cagione, ch'ei potè fare tutto quello che volle.

Erasi inditto il congresso dei quattro popoli dell'Emilia, Modenesi, Reggiani, Bolognesi, Ferraresi il dì venzette decembre, malgrado di Buonaparte, che avrebbe desiderato, che più presto si adunassero per dar cagione di temere al papa in tempo, in cui, bollendo ancora le pratiche, non aveva ancora il pontefice rifiutato la pace. Convennero in Reggio i legati dei quattro Cispadani popoli, trentasei Bolognesi, venti Ferraresi, ventidue Modenesi, ventidue Reggiani. Avevano mandato amplissimo di fare quanto alla salute della repubblica si appartenesse; l'unione massimamente dei quattro popoli in un solo stato procurassero. Solo i Bolognesi avevano nel mandato loro qualche clausola di restrizione, o fosse che Bologna amasse di serbare, per la sua grandezza, qualche superiorità, o fosse che non volesse allontanarsi da quella forma di governo che con tanta solennità aveva pocanzi accettata, perchè prevedeva, che l'accomunarsi nello stato importava l'accomunarsi nelle leggi. Grande era il calore, grande l'entusiasmo di quelli spiriti repubblicani: pareva a tutti essere rinati a miglior secolo. Ordinarono, non potendo capire in se stessi dall'allegrezza, ad alta voce, non a voti segreti si squittinasse. Poi fecero una congregazione d'uomini eletti dalle quattro province, affinchè proponessero i capitoli dell'unione. Fu l'unione accettata con tutti i voti favorevoli. Accrebbero la giubbilazione gli uomini deputati di Lombardia Milanese venuti ad affratellarsi, erano Porro, Sommariva, Vismara da Milano, Visconti da Lodi, Gallinetti da Cremona, Mocchetti da Casalmaggiore, Lena da Como, Beccaria da Pavia: «Poichè erano venuti i buoni tempi Italici, orarono, essere venuti gli uomini Lombardi a congratularsi coi Cispadani popoli dell'acquistata libertà; pari essere i desiderj, pari il destino; chiamare le Francesi vittorie a nuove sorti l'Italia; dovere i popoli Eridanici infiammare con l'esempio loro a nuova vita le altre Italiche genti; l'Italiana patria avere ad essere, non più serva di pochi, ma comune a tutti: ogni giusto desiderio dover sorgere con la libertà, e tanti secoli di crudele servitù concludere una inaspettata felicità: non dubitassero i Cispadani dello aver per amici e per fratelli i Transpadani; una essere la mente, come uni gli animi, ed uni gl'interessi: dimostrerebbero al mondo, che non invano aveva dato il cielo a quei popoli testè pure divisi sotto molesti dominj, ed ora congiunti per l'amore di una comune libertà, il medesimo aere, le medesime terre, le medesime città magnifiche con un forte volere, con un alto immaginare, con un maturo pensare, e se felicissima era la occasione, sarebbe il modo di usarla generoso.»

Fu fatto risposta da Facci presidente con gratissime parole: «Corrispondere i Cispadani con pari amore ai benevoli Transpadani; accettare i felici augurj; avere la libertà spento il parteggiare fra i Cispadani, dovere spegnerlo fra tutti gl'Italiani; fuggirebbe dall'Italia la tirannide con tutto il satellizio suo; e poichè era piacciuto a chi regge con supremo consiglio queste umane cose, che principiasse un libero vivere sul Po, dovere gli Eridanici allettare i compagni coll'esempio di una incontaminata felicità».

Aprivansi in questo le porte del consesso; il Reggiano popolo, bramoso di vedere e di udire, lietamente entrava. Gravemente Fava da Bologna a nome della congregazione degli uomini eletti intorno all'unione dei quattro popoli favellava. Chiamarono di nuovo con segni d'inudita allegrezza la Cispadana confederazione, chiamarono la unità della repubblica. Fu piena la città di giubbilo; credevano che quel giorno fosse per essere principio di felici sorti. Ed ecco in mezzo a tanta allegrezza sopraggiungere l'aiutante generale Marmont, mandato da Buonaparte ad incitare ed a sopravvedere. Introdotto al cospetto del congresso, gli applausi, le grida, le esultazioni montarono al colmo. Postergata la dignità, tanta era l'ardenza, avevano i legati piuttosto sembianza di energumeni, che di uomini gravi chiamati a far leggi.

L'entusiasmo dei Cispadani piaceva a Buonaparte, perchè sperava di cavarne denaro, gente armata, spavento al papa. Infatti aveva il congresso statuito, che una prima legione Italica si formasse; nè questa truppa oziosamente si ordinava: correvano gli uomini volentieri sotto le insegne; il generalissimo gli squadronava, e faceva reggere da' suoi uffiziali. Ma se dall'un lato egli era contento della disposizione degli animi nella repubblica Cispadana, dall'altro non si soddisfaceva della composizione del congresso; perchè avrebbe voluto vedere in lui per quel suo intento di far paura al papa, nobili, preti, cardinali, ed altri cittadini di maggior condizione, che patriotti fossero stimati; e quantunque alcuni e nobili e preti vi sedessero, non era il numero nè il nome di quella importanza ch'egli desiderava. Per questo si lamentava, che Garreau e Saliceti, commissari del direttorio, gli guastassero i suoi disegni, procedendo con soverchio calore in queste instigazioni, e chiamando al reggimento dello stato uomini di poca entità, o troppo risentitamente repubblicani. Spesso ei si querelava con questi commissari, e gli ammoniva con forti riprensioni; ma essi se non apertamente, almeno nascostamente continuavano ad incitare ogni sorte di persone.

Scriveva il congresso il dì trenta decembre a Buonaparte: i Cispadani popoli chiamati per amore di lui, e per le sue vittorie a libertà, essersi constituiti in repubblica; direbbegli Marmont suo, quanto fossero degni del nuovo stato; direbbegli quanta forza il nome di lui alla loro risoluzione, ed alla loro allegrezza aggiugnesse. «Accettate, continuavano, o generale invitto, questa nuova repubblica, primo frutto del vostro valore, e della vostra magnanimità. Voi ne siete il padre, voi il protettore: sotto gli auspicj vostri ella sarà salva, sotto gli auspicj vostri non s'attenteranno i tiranni di danneggiarla: noi cominciammo il mandato dei popoli, noi presto il compiremo; ma fate voi, che l'opera nostra sia, come il vostro nome, immortale».

Queste lettere del congresso Cispadano furono con lieta fronte ricevute dal conquistatore. Rispondeva, avere con molto contento udito la unione delle quattro repubbliche; l'unione sola poter dare la forza, bene avere avvisato il congresso dello aver assunto per divisa un turcasso: già da lungo tempo l'Italia non aver seggio fra le potenze d'Europa; se gl'Italiani degni sono di rivendicarsi in libertà, se abili sono di ordinare a se stessi un libero governo, verrebbe giorno, in cui la patria loro risplenderebbe fra i potentati d'Europa gloriosamente: pure pensassero, che senza la forza non valgono le leggi; si ordinassero pertanto all'armi; savie essere, ed unanimi le deliberazioni loro; null'altro mancare, se non battaglioni agguerriti, e mossi dall'amor santo della patria; aver loro miglior condizione del popolo Francese, libertà senza rivoluzione, ordini nuovi senza delitti; la unità della Cispadana repubblica simboleggiare la concordia degli animi, i frutti, se avessero per compagna la forza, avere ad essere una repubblica vivente, una libertà benefica, una felicità di tutti.

Il congresso annunziava ai popoli la creazione della repubblica: lodava la Francia institutrice di libertà; lodava Marmont testimonio benigno di popoli non indegni dell'amore della sua generosa nazione, annunziatore benevolo delle cose fatte al glorioso capo dell'esercito Italico: esortava i popoli della Cispadana a deporre le antiche invidie ed emolazioni, frutto infausto di funesta ambizione: in petto ed in fronte la libertà, la equalità, la virtù portassero, dell'ajuto della potente repubblica, che gli aveva chiamati a libertà, non dubitassero; guardargli attentamente il mondo, aspettare ansiosamente l'Italia, che a quell'antico splendore, che l'aveva fatta tanto grande, ed onorata presso le nazioni, la restituissero. Così parlava a concitazione degli animi il vincitor Buonaparte.

L'esempio della Cispadana partoriva mutazioni notabili in Lombardia; perchè i Milanesi, non volendo parer da meno che i popoli dell'Emilia, facevano un moto, correndo sulla piazza, ed intorno all'albero della libertà affollandosi: gridavano sovranità, e indipendenza, e volevano constituirsi in repubblica Transpadana. Dispiacque il moto all'amministrazione generale di Lombardia, non che ella non amasse l'indipendenza, ma le cose non le parevano ancora di tale maturità, che si potesse venire ad un partito tanto determinativo. Il sentirono peggio ancora il generalissimo, e gli altri capi Francesi. Tanto fu loro molesto questo moto, che Baraguey d'Hillires, generale che comandava alla piazza di Milano, e che conosceva la mente di Buonaparte, ne faceva carcerare gli autori principali, che erano i patriotti più ardenti.

Intanto ogni dì più cresceva lo squallore dei soldati vincitori d'Italia; tanta era la voragine, non dirò della guerra, ma dei depredatori. Per rimediarvi andava Buonaparte immaginando nuovi modi per trar denaro dai popoli già sì grandemente smunti ed impoveriti; scosse l'Emilia, scosse la Lombardia; traeva le intime sostanze dalle viscere delle nazioni: pure il peculato era più forte di queste estreme fonti di denaro.

Infatti i rubatori, gente frodolenta ed avara, erano una peste invincibile. Buonaparte, che per la mancanza delle cose necessarie vedeva in pericolo le sue operazioni, ne arrabbiava: gli chiamava ladri, traditori, spie; ora ne faceva pigliar uno, ora cacciare un altro; ma nulla giovava, perciocchè tornavano, essendo protetti, perchè molti; e si liberavano, essendo i giudici corrotti, perchè mescolati. L'Italia pativa, i soldati pativano, gli amministratori infedeli trionfavano. In un paese opimo, e da lungo tempo immune da guerra, era penuria di soldo, di pane, di abiti, di scarpe, di strame. Al tempo stesso i provveditori ed i canovieri, incitati dall'ambizione e dalla libidine, tenevano, la maggior parte, gran vita con mense lautissime, e con cavalli pomposi, con cocchi dorati, con caterve di servitori; e ballerine e cantatrici mantenevano, strana foggia di repubblicani. Sapevaselo Buonaparte, che non ne capiva in se stesso dallo sdegno. Scriveva, che il lusso, la depravazione, il peculato avevano colmo la misura. Un solo rimedio ei trovava, e, come credeva, conforme alla sperienza, alla storia, alla natura del governo repubblicano, e quest'era un sindacato, magistrato supremo, che, composto di una o di tre persone, solo due o cinque giorni durasse, ed in questo tempo autorità amplissima avesse di far uccidere un amministratore, qualunque fosse, o con qual nome si chiamasse. «Potè, sclamava dispettosamente Buonaparte, il maresciallo di Berwick far impiccar l'amministrator supremo del suo esercito, perchè vi erano mancati i viveri, ed io non potrò in mezzo all'Italia, paese di tanta abbondanza, quando i miei soldati sono penuriosi, e stremi di ogni cosa, spaventar con le opere, poichè le parole non giovano, questo nugolo di ladri?» Così dentro se stesso si rodeva: ma eran novelle, perchè l'oro d'Italia si dispensava anche a Parigi; perciò i rubatori erano indenni. Solo si soddisfaceva il capitano Italico dei servigi di Collot, abbondanziere delle carni, e di Pesillico, agente della compagnia Cerfbeer. Poi alcuni commissari erano facili alle signature, caso veramente orribile. Affermava Buonaparte nel mese di ottobre, che, eccettuati Deniée, Boinod, Mazade, e due o tre altri, gli altri commissari erano tutti ladri: pregava il direttorio, gliene mandasse dei probi, aggiungendo però la clausola, se fosse possibile trovarne: soprattutto già fossero provvisti di beni di fortuna; desiderava Villemanzy. Aveva particolarmente in grande stima il commissario Boinod, certamente a giusta ragione, perchè era Boinod uomo di costumi integerrimi; ed eziandio con ragione scriveva Buonaparte, che se quindici commissari di guerra, come Boinod, fossero all'esercito, potrebbe la repubblica far un presente di cento mila scudi a ciascuno di loro, e guadagnerebbevi ancora quindici milioni. Tanta era l'ingluvie di coloro, che per ufficio dovevano impedire, che altri non involasse le sostanze dei soldati! L'ira di Buonaparte particolarmente mirava contro un Haller, che credeva mescolato in questi traffichi. Scriveva sdegnosamente il dì diecinove novembre al commissario del direttorio Garreau: essere i soldati senza scarpe, senza presto, senz'abiti; gli ospedali penuriosissimi; giacere i feriti orribilmente nudi sulla nuda terra; pure essersi testè trovati quattro milioni in Livorno; essere in pronto merci di gran valore a Tortona ed a Milano; avere Modena dato due milioni, Ferrara gran valute; ma non essere nè ordine, nè buono indirizzo nella bisogna delle contribuzioni, di cui esso Garreau aveva carico; grave essere il male, dover esser pronto il rimedio: rispondessegli il giorno stesso, se potesse, sì o no, provvedere ai soldati: se no, comandasse all'Haller, spezie di furbo, come diceva, non per altro venuto in Italia, che per rubare, e che si era fatto sovrantendente delle finanze dei paesi conquistati, rendesse conto dell'amministrazion sua al commissario supremo, che era in Milano, e provvedessesi il bisognevole ai soldati volere il governo, che i commissari nei bisogni dell'esercito si occupassero; veder mal volentieri, ch'egli, Garreau, non se ne prendeva cura, lasciando la bisogna in mano di un forestiero, di natura, e d'intento sospetto; Saliceti far decreti da una parte, Garreau farne da un'altra, e con tutto questo non esservi accordo, e manco denaro: soli quindici centinaia di soldati, che sono a Livorno, costare più di un esercito; esservi penuria estrema fra estrema abbondanza. Questi erano i risentimenti del capitano generale.

Nè era minore lo sdegno di lui contro la compagnia Flachat, ch'ei qualificava coi più odiosi nomi, senza credito, senza danaro, e senza probità chiamandola; avere, affermava, lei ricevuto quattordici milioni, avere somministrato solamente per sei, e ricusare i pagamenti; per lei essere sequestrate le mercatanzie pubbliche in Livorno; volere, che si vendessero; ma essere sicuro, che per le mene di costoro, quello che sette milioni valeva, sarebbe dato per due: insomma, aggiungeva tutto sdegnoso, essere gli agenti di essa compagnia i più bravi eruscatori d'Europa. Di più, alcuni fra gl'impiegati, non contenti al peculato, far anche le spie, e portare pubblicamente, come i fuorusciti, il bavero verde: di questo non potersi dar pace; servir loro Wurmser, servir la Russia, succiarsi la repubblica.

In tal modo Buonaparte riempiva di querele Italia e Francia: intanto andava a ruba l'Italia. Nè uno era il modo del guadagno, nè alcuna spezie di fraude si pretermetteva. I più usavano di non pagare sotto pretesto di non aver fondi, se non con grossi sconti, le tratte, che loro s'indirizzavano o dal governo, o dai particolari creditori; brutto veramente, ed infame traffico era questo; perchè essi erano cagione col non pagare, e con diffidenze artatamente sparse, che le tratte scapitassero, poi le ricevevano a perdita, e più scapitavano, ed a maggior perdita le ricevevano, e più grossi guadagni facevano, autori ad un tempo, e profittatori del male. La peste penetrava più oltre, perchè era cagione che i prezzi a bella posta s'incarissero, ed i contratti si facessero simulati; il male del rubare era il minore, perchè il costume si corrompeva. In queste laide involture si mescolavano anche Italiani, e tra di questi alcuni, che avevano le cariche nei governi temporanei, ed alcuni altresì, che facevano professione di amatori della libertà. Queste cose facevano da se, e per se, o per mezzo d'interposte persone, o intendendosela con gli amministratori infedeli. Con qual nome chiamare costoro, io non saprei; so bene, come gli chiamavano, e chiamano tuttavia, perchè son ricchi, i parasiti ed i giornali, che con parole magnifiche gli encomiavano in quei tempi, ed encomiano ancora ai giorni nostri; sicchè, se una volta era il proverbio, che la guerra fa i ladri e la pace gl'impicca, ora debb'essere quest'altro, che la guerra fa i ladri e la pace gli loda. Hanno costoro gioie, e gioielli, e palazzi in città, e ville in contado, e statue, e quadri, e mobile prezioso, ed ogni sorta di agio, con adulatori in quantità. Tali erano non pochi dei gridatori di libertà dei nostri tempi, ed io ne ho conosciuto alcuni, che stampati in fronte delle ruberie del loro paese, se ne andavano tuttavia predicando con singolare intrepidezza la repubblica e la libertà, anzi credevano, od almeno dicevano, esser loro i veri amatori, ch'elleno avessero. Così, se parecchi tra i Francesi che avevano cura dell'amministrazione involavano, si trovava anche fra gl'Italiani chi teneva loro il sacco; e vi era allora, qual sempre vi è, una gente, che, come i corvi intorno ai cadaveri, aliavano continuamente là dove erano i disastri pubblici, per farne il loro pro ed arricchirsene. Costoro, ed allora si mostrarono più che in altro tempo, sono una singolare generazione d'uomini perchè se è stagione di libertà e' gridano libertà, se è stagione di dispotismo, e' gridano dispotismo, e sempre ridenti, e sempre adulatori, aiutano a spogliar con arte chi già è spogliato dalla forza; nè abborriscono dallo spogliare e dal succiare e dallo straziare, quand'anche il soggetto sia la patria loro, che anzi le miserande sue grida sono incitamento alla ferina cupidigia di quest'uomini spietati.

Queste cose vedemmo con gli occhi nostri, nè la religione le impediva, perchè era venuta a scherno, nè la giustizia, perchè era compra. Così tra la forza che ammazzava, e l'arte che rubava, fu sobbissata l'Italia, e peggio, ch'ella era mira di calunnie da parte degli ammazzatori e dei ladri. Chi dava e pigliava gli appalti degli arnesi necessari alla guerra con ingordi beveraggi, ed a prezzi più cari del doppio del genuino valore; chi metteva, minacciando saccheggi, taglie sui paesi, e questi denari spremuti a forza dai popoli si appropriava. Questi prometteva di preservare dalle prede, se si desse denaro a lui: gl'Italiani davano, e qualche volta erano preservati, e qualche volta no: si vendeva il beneficio. Quest'altro faceva tolte di robe per gli ospedali, le usava per se. Diè Cremona cinquantamila canne di tela fine pei malati, e per se gli arrappatori se le pigliarono. Chi vendeva i medicinali dell'esercito, e convertiva il prezzo in suo pro: la corteccia tanto preziosa del Perù principalmente era divenuta materia d'infame ladroneccio. Quanti soldati consunti dalle perniziose febbri perirono, che sarebbero stati salvi, se i rubatori avessero avuto più a cuore le vite loro, che le mense, i teatri, e le meretrici! Nè era cosa che santa o sicura fosse, perchè si faceva traffico dell'asilo dei morenti, e sonsi veduti uomini abbominevoli minacciare di porre ospedali militari nei conventi col solo fine di costringergli a pagar denaro per ricomperarsi da quella molestia: i soldati intanto se ne morivano per le strade, perchè gl'insaziabili segavene s'ingrassassero, ed in ogni più immondo, in ogni più ingordo vizio s'ingolfassero. Le polizze dei passati si davano per chi non era passato, ed anche per chi era morto: i magazzini si empivano di grasce finte, e nissuno aveva, se non chi non doveva avere. I soldati perivano, i paesi pagavano, perchè a quello, che non era somministrato dalle riposte, bisognava bene, e per forza, che i paesi sopperissero. Così chi dava, non aveva, chi non dava, aveva; la brutta usanza fu generale. I capisoldi poi, i premj, le indennità largamente si davano a chi meno le meritava, nè vi era ufficiale, che di chi ministrava fosse amico, che alla menoma rotta non si trovasse ad aver perduto gli arnesi, e grassi compensi non toccasse, mentre gli uomini valorosi, che combattendo virilmente contro il nemico, avevano perduto tutto, richiedevano invano quello, a che la patria era loro obbligata. Cuocevano infinitamente a Buonaparte i raccontati ladronecci, e faceva formare ai rei gravissimi processi dalle diete militari, instando perchè fossero dannati a morte, a motivo, come diceva, che non erano ladri ordinarj, ma tali, che con le malvagie opere loro interrompevano il corso alle sue vittorie, od erano almeno cagione che con più sangue si acquistassero. Ma si lamentava che vi fossero in queste diete dei segreti maneggi, onde i rei se ne andavano od assoluti, o condannati a pene nè proporzionate al delitto, nè capaci di spaventare i compagni. «Voi avete presupposto certamente, scriveva Buonaparte sdegnoso al direttorio, che i vostri amministratori ruberebbero, ma farebbero i servizi, ed avrebbero un po' di vergogna: ma e' rubano in un modo tanto ridicolo e tanto impudente, che s'io avessi un mese di tempo, non ve ne avrebbe un solo che non facessi impiccare. Gli fo legar dai gendarmi, gli fo processar dai consigli militari continuamente. Ma che giova, se i giudici sono compri? Questa è fiera, e tutti vendono. Un impiegato accusato di aver posto una taglia di diciottomila franchi a Salò, fu condannato a due mesi di carcere. Così, come si potran pruovare le accuse? È un concerto: tante vili enormità fan vergogna al nome Francese.» Così si querelava, e così inveiva Buonaparte contro i rubatori, e questa fu l'accompagnatura della libertà in Italia.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
25 haziran 2017
Hacim:
300 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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