Kitabı oku: «Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo II», sayfa 7
Era giunto, come abbiam narrato, il maresciallo Wurmser in Mantova con un grosso corpo di genti avanzate alle stragi di Castiglione e di Bassano. Questo sussidio, mentre dava maggior forza alla guernigione già stanca da molte battaglie, e da troppo frequenti vigilie, induceva nondimeno una più grande necessità di vettovaglia. Difettava particolarmente di erba e di strame per pascere i cavalli, che erano, rispetto ai fanti, in numero assai considerabile. Adunque il capitano Austriaco, vedendosi potente per la moltitudine dei soldati, massime di cavallerìa, sortiva spesso, per allungare i pericoli, con grosse cavalcate a foraggiare alla campagna. Il che tanto più facilmente poteva fare, quanto più, essendo tuttavìa padrone della cittadella e di San Giorgio, aveva le uscite spedite, senza essere obbligato di restringere le genti in lunghe file per passare i ponti o gli argini. Queste cose infinitamente cuocevano a Buonaparte, il quale sapendo, che l'Austria, malgrado delle rotte avute, non avrebbe omesso di mandare nuovi soldati in Italia, desiderava di venirne presto alle strette per aver Mantova in mano sua, innanzichè gli ajuti arrivassero. A questo fine, essendo giunto alla metà del suo corso il mese di settembre, comandava a' suoi, andassero all'assalto di San Giorgio, perchè quello era il principale sbocco degli Austriaci alla campagna. Nel tempo medesimo il generale Sahuguet dava l'assalto alla Favorita, sito fortificato dagli Austriaci, e posto a tramontana tra San Giorgio e la cittadella. Attraversò questi disegni il vivido e sagace Wurmser; perchè cacciatosi di mezzo con la cavallerìa, e represso l'impeto dei repubblicani, gli sbaragliava, e se non era la trigesimaseconda, valorosissima fra le brigate Francesi, che sostenne l'urto del nemico, sarebbe seguìto qualche grave danno a Buonaparte. Rimasero i Tedeschi in possessione della Favorita e di San Giorgio; Sahuguet fu costretto a tirarsi indietro malconcio, e con le genti sceme pei morti e pei feriti. Ma l'audace Buonaparte non era uomo da interrompere i suoi pensieri per un piccolo tratto di fortuna contraria. E però avvisandosi che il suo avversario, fatto confidente dalla prosperità della fazione, cercherebbe ad allargarsi viemaggiormente nella campagna, volendo nutrire in lui questa baldanza nuova, ritirava i suoi più lontano dalla piazza. Era il suo fine di tirar Wurmser tanto discosto dal suo sicuro nido, che a lui nascesse la occasione d'impadronirsi improvvisamente di San Giorgio, per vietare all'avversario ogni comodità del paese. Eransi gli Austriaci ingrossati, coll'intenzione di conservarsi libera la campagna, a San Giorgio ed alla Favorita: avevano anzi spinto molto avanti le loro guardie fuori di questi alloggiamenti. Per meglio mandar ad effetto il suo pensiero, aveva Buonaparte comandato ad Augereau, che stanziava a Governolo, salisse per la riva del fiume, ed improvvisamente urtasse il fianco destro dell'inimico. Sahuguet occupava i passi tra la Favorita e San Giorgio; ma non avendo forze bastanti per resistere al nemico potentissimo di cavalli, ordinava a Buonaparte, che a questa schiera si accostasse quella di Pigeon, che veniva da Villanova, perchè dal tagliar la strada fra San Giorgio e la Favorita dipendeva in gran parte l'esito della fazione. Ma perchè Wurmser, avendo che fare sulla sua fronte, non potesse correre contro le ali dei repubblicani che si avanzavano, imponeva a quel pronto e valoroso Massena, urtasse francamente nel mezzo il sobborgo di San Giorgio. Fu l'industria e la virtù del generale di Francia ajutata dal benefizio della fortuna; perchè Wurmser essendosi di soverchio allargato nella campagna, non fu difficile a Pigeon di congiungersi con Sahuguet ad interrompere le strade fra i due nominati luoghi, ed Augereau arrivava tempestando a rompere l'ala dritta degl'imperiali. Il maggior danno fu quello recato da Massena; poichè fu tanto forte l'impeto suo, che prostrando ogni difesa, entrava per viva forza in San Giorgio, e se ne faceva padrone. Nè in alcun modo soprastando, per non corrompere con la tardanza il corso della fortuna favorevole, metteva anche in suo potere il capo del ponte, che dal sobborgo porta alla città. A questo modo gli Austriaci rotti e dispersi, parte furono presi o morti in numero di circa tremila, e parte si ritirarono fuggendo alla cittadella: perdettero venti bocche da fuoco. Questa fazione, avendo posto in poter dei Francesi i luoghi più opportuni all'ossidione, e fiaccando l'ardire degli Austriaci, restrinse molto la piazza; e sebbene di quando in quando il generale dell'imperio, condotto dal proprio coraggio, e tirato anche dalla necessità, per fuggire le molestie della fame, facesse, per andar a saccomanno, sue sortite, non si affidava però più di correre così liberamente la campagna, il che rendè in breve tempo le sue condizioni peggiori; perciocchè cominciava a patire maravigliosamente di vettovaglie. Già sorgevano segni di mala contentezza, che obbligavano Wurmser a star vigilante così dentro, come fuori. Munivano i Francesi con fossi e con trincee il conquistato San Giorgio, e dimostravano grandissima confidenza d'entrar presto in Mantova.
Era Buonaparte d'ingegno vastissimo, e di attività tale, che occupato in imprese di grandissimo momento, non ometteva di condurne al tempo medesimo altre di minore importanza. Perlochè, mentre dall'una parte pensava a tener lontani dall'Italia gli Alemanni, ed a conquistar Mantova, dall'altra non trascurava le cose del Mediterraneo, e principalmente quelle della Corsica. Eransi in quest'isola maravigliosamente sollevati gli animi a cagione delle vittorie dei Francesi in Italia; il quale moto tanto si mostrava più grande, quanto più alla contentezza dei prosperi successi delle armi si aggiungeva quella, che principalissimo operatore fosse quel Buonaparte, che quantunque mandato in tenera età a crearsi in Francia, era peraltro nato e cresciuto fra di loro. Per la qual cosa si vedeva, che se le vittorie di Francia in paesi tanto vicini alla Corsica davano in lei nuovo animo alla parte Francese, l'essere acquistate da Buonaparte le dava un capo e un guidatore valoroso. Questi umori erano anche ingrossati dalle insolenze degl'Inglesi, e dalle taglie che avevano poste. Quest'erano le cagioni, per cui la parte Francese in Corsica andava ogni dì acquistando nuove forze e nuovo ardire, mentre la Inglese perdeva continuamente di forza e di riputazione; già il dominio d'Inghilterra vi titubava. Accadevano non di rado nelle più interne regioni dell'isola ingiurie e violenze contro il nome e gli uomini Inglesi, e contro coloro che a loro aderivano. Era l'autorità del vicerè ridotta alle terre forti e murate, poste nei luoghi dove poteva avere accesso il forte navilio d'Inghilterra. Queste cose si sapevano da Buouaparte; e siccome quegli che era sempre pronto ad usare le occasioni, aveva posto piede in Livorno, non solamente col fine di serrare questo porto agl'Inglesi, ma ancora per movere la Corsica a danno loro. Laonde indotto in isperanza di poter tosto farvi rivoltar lo stato a favore della Francia, aveva mandato a Livorno, aspettando tempo d'insorgere più vivamente, un colonnello Bonelli Corso, con alcuni altri soldati del medesimo paese, e provvedutolo di denari, d'armi e di munizioni, gli comandava andasse in Corsica, e con la presenza e con le esortazioni desse speranza di maggiori sussidj. Era il passaggio di mare assai pericoloso, per le navi Inglesi che continuamente il correvano; ma Buonaparte, confidando nell'opera di Sapey, un Delfinate molto sagace ed attivo, che aveva il carico di quel passo, gliene commetteva l'impresa. A questi primi principj crescendo vieppiù le speranze del felice fine, mandava a Livorno, perchè fossero pronti a salpare, i generali Gentili, Casalta e Cervoni, nativi dell'isola, e che potevano pel credito e dipendenza loro ajutare l'impresa. Preponeva ad essa, come capo, Gentili, uomo d'intera fama, e savio per natura e per età. I Corsi fuorusciti per intenzione di Buonaparte concorrevano a Livorno, e si ordinavano in compagnìe. Una compagnìa di ducento più attivi e più animosi degli altri, doveva essere il principal nervo dei conquistatori di Corsica. S'aggiungevano alcuni pezzi d'artiglierìe di montagna, e cannonieri pratichi per governarle. Erano vicine a mutarsi in pro della Francia le sorti della patria di Buonaparte.
Avevano molto per tempo gl'Inglesi avuto avviso di tutti questi preparamenti, e stavano vigilanti nell'impedire il passo del mare. Nè parendo loro che ciò bastasse alla sicurezza dell'isola dopo il perduto Livorno, applicarono l'animo al farsi signori di Porto-Ferrajo, terra forte, e principale dell'isola d'Elba. Pervenuto sentore di questo tentativo a Miot, ministro di Francia a Firenze, richiedeva con viva instanza dal gran duca, desse lo scambio al governatore di Porto-Ferrajo, sospetto, secondo l'opinione sua, di essere aderente agl'Inglesi. Il ricercava altresì, mettesse in quel forte un presidio sufficiente ad assicurarlo. Voleva finalmente che si aggiungessero duecento soldati Francesi. Soddisfece alla prima domanda il principe, scambiando il governatore, ma fondandosi sulla neutralità, legge fondamentale della Toscana, accettata dalla repubblica di Francia, e confermata da tutte le potenze amiche e nemiche, non consentì a mandar nuove genti, e molto meno soldati Francesi a Porto-Ferrajo. Si scusò eziandìo allegando, che gl'Inglesi proibivano l'uso del mare, e che perciò non era in sua facoltà, ancorchè volesse, di mandar nuovo presidio in quell'isola. Certamente non si può biasimare Miot dello aver domandato al gran duca quello, che credeva essere sicurtà del suo governo; ma bene gli si può dar carico dello aver usato parole intemperanti parlando della nazione Italiana, quando scrisse, di questo fatto gravemente lamentandosi, a Buonaparte, badasse bene a schivare le minacce vane, principalmente in Italia, dove i popoli accrescevano i mali con la fantasìa, ma tosto trapassavano dal terrore all'insolenza, quando non pruovavano tutto quello che temevano; perchè stava, continuava dicendo Miot, nella natura vendicativa degl'Italiani di veder sempre nei nemici loro la impotenza, non mai la generosità. Quale generosità poi fosse in coloro, che sotto specie di belle parole erano andati ad ingannare ed a spogliare l'Italia, toccherà a Miot lo spiegarlo. Intanto sapranno i posteri come egli parlasse di una nazione illustre, in quel momento stesso in cui ella era miserabil preda di Francesi e di Tedeschi, ridotta per cagione degli uni e degli altri in durissimo servaggio, spogliata de' suoi più preziosi ornamenti, rotta tutta e sanguinosa nelle parti più nobili e più vitali del corpo suo.
Intanto non portarono gl'Inglesi maggior rispetto a Porto-Ferrajo, che i Francesi a Livorno portato avessero. In tal modo fu trattato Ferdinando di Toscana dai capi di due potenti nazioni; infelice condizione di un principe, che, non avendo armi, volle fondare la propria sicurezza sulla integrità della vita, in tempi in cui il più potere era stimato ragione. S'appresentavano il dì nove luglio gl'Inglesi in cospetto di Porto-Ferrajo, con diciassette bastimenti, che portavano duemila soldati; richiesero la piazza. Scriveva il vicerè di Corsica al governatore, volere occupar Porto-Ferrajo, perchè i Francesi avevano occupato Livorno, e macchinavano di occupar anche Porto-Ferrajo; ma non volere, negando con le parole quello che faceva coi fatti, solito costume di quella perversa età, offendere la neutralità. I capi della flotta poi minacciavano, se non fossero lasciati entrar di queto, entrerebbero per forza.
Avute il gran duca queste moleste novelle, comandava al governatore, protestasse della rotta neutralità, negasse la dimanda, solo cedesse alla forza. Ma già gl'Inglesi procedendo dalle minaccie ai fatti, erano sbarcati sulle spiagge di Acquaviva, luogo di confine fra lo stato di Toscana e quello di Piombino, e marciando per sentieri montuosi, erano giunti in cima al monte che sta a ridosso del forte di Porto-Ferrajo; quivi piantarono una batterìa di cannoni e di obici con le bocche volte contro la città. I soldati scendendo da quei siti erti e scoscesi nella strada che dà l'adito alla terra, stavano pronti ad osservare quello che vi nascesse dentro, per le intimazioni e presenza loro. Mandava Orazio Nelson da parte del vicerè di Corsica intimando al governatore, volere gl'Inglesi Porto-Ferrajo e i forti per preservargli dai Francesi; porterebbero rispetto alle persone, alle proprietà, alla religione; se n'anderebbero, fatta la pace, o cessato il pericolo dell'invasione; se il governatore consentisse, entrerebbero pacificamente, se negasse, per forza. Adunava il governatore gli ufficiali, i magistrati, i consoli delle potenze, i capi di casa più principali, acciocchè quello che far si dovesse, deliberassero. Risolvettero di consentimento concorde, che si desse luogo alla forza, che si ricevessero gl'Inglesi, ma che si protestasse delle seguenti condizioni: non potessero a modo niuno i Toscani essere sforzati a combattere, se qualche forza nemica si accostasse all'isola, provvedessero gl'Inglesi alla vettovaglia; i soldati nelle case particolari non alloggiassero. Accettate le condizioni, entrarono nella Toscana isola gl'Inglesi. Poco dopo s'impadronirono anche dell'isola Capraja, di stato Genovese, meno per sicurezza loro, che per dispetto del senato, contro il quale avevano risentimento, per essersi, come credevano, accostato recentemente alla parte Francese. Acquistate Elba e Capraja, correvano più molesti che prima contro i bastimenti Genovesi, e gli mettevano in preda.
In questo mezzo tempo bollivano le cose nella partigiana Corsica perturbata da gravissimi accidenti, ed andavano a versi di Buonaparte. Bonelli condottosi nell'isola, e spargendo voci di prossimi ajuti, e detestando la superiorità Inglese, e spargendo ogni dove faville d'incendio, e turbando ogni villa, ogni villaggio, massime sui monti vicini a Bastìa ed a San Fiorenzo, aveva adunato gente, che apertamente resisteva al dominio del vicerè. A Bastìa, sendovi ancora presenti gl'Inglesi, una congregazione di patriotti, come gli chiamavano, o piuttosto di partigiani di Buonaparte e di Saliceti, nemicissimi al nome di Paoli e d'Inghilterra, avevano preso tanto ardire, che addomandarono al vicerè la libertà dei carcerati, e scrissero a Saliceti, già avesse Bastìa in luogo di città Francese. Vedutosi da Saliceti e da Gentili, che quello era il tempo propizio per restituire la patria loro alla Francia, mandarono innanzi Casalta, con una banda di fuorusciti Corsi affinchè, arrivando a Bastìa, ajutasse quel moto, cagione probabile di cambiamento. Fu opportuno il disegno, non fu infelice il successo; perchè giungeva sul finire di ottobre Casalta, tanta fu la destrezza di Sapey nel procurare il tragitto malgrado del tempo burrascoso e delle navi Inglesi, in vicinanza del porto; e sbarcava le sue genti, alle quali vennero a congiungersi i partigiani in grosso numero. I soldati di Casalta, divenuti forti, occuparono i poggi che dominano Bastìa. Intimava Casalta agl'Inglesi, che tuttavia tenevano il forte, si arrendessero; quando no, gli fulminerebbe. Sopravvennero intanto le novelle che gran tumulti nascevano in tutta l'isola contro il nome Britannico. Gl'Inglesi pertanto si risolvevano ad abbandonar quello, che più non potevano conservare; e precipitando gl'indugi dal forte di Bastìa, perchè avevano paura che i Corsi di Casalta, calando dai monti, impedissero loro il ritorno, lo spacciarono prestamente, e si ricondussero alle navi. Nè fu senza danno la ritirata, o piuttosto fuga loro; perchè soppraggiunti per viaggio dai Corsi, meglio di cinquecento restarono cattivi. Perdettero anche i magazzini; dei cannoni alcuni trasportarono, altri chiodarono. A tale fatto i tumulti crescevano, gli alberi di libertà si piantavano: San Bonifacio, Ajaccio, Calvi chiamavano il nome di Francia. Restava pei patriotti, che si cacciassero gl'Inglesi da San Fiorenzo, dove avevano adunato le maggiori forze, ed anche la fortezza della piazza gli assicurava. Ma il precipizio era tale, che si resisteva senza frutto. Guadagnava Casalta, non però senza difficoltà, le fauci di San Germano, per cui si apre la strada da Bastìa a San Fiorenzo, ed arrivava improvvisamente sopra quest'ultimo luogo cacciandosi avanti gl'Inglesi fuggiti da San Germano. Diedero tostamente opera a vuotare la piazza; vi entrarono con segni d'incredibile allegrezza i Corsi repubblicani. Conquistarono sei pezzi di artiglierìa buona e due mortai, che in tanta fretta i vinti non avevano avuto tempo di trasportare: i soldati sezzai vennero in poter del vincitore. Tuttavia l'armata Inglese stava sorta sull'ancore poco distante da San Fiorenzo in prospetto di Mortella; i soldati avevano fatto un forte alloggiamento sui monti a ridosso di Mortella medesima, non che volessero continuare nell'intenzione di conservare la Corsica, ma solamente per acquare, vettovagliarsi, e raccorre gli sbrancati sì magistrati del regno che soldati, che per luoghi incogniti e per tragetti arrivavano ad ogni ora, fuggendo il furore Corso che gli cacciava. Partiva frattanto da Livorno Gentili, conducendo con se nuove armi e munizioni, ducento soldati spigliatissimi, trecento fuorusciti di Corsica. Arrivato a Bastìa, dato riposo alla truppa, squadronati nuovi Corsi che accorrevano, si metteva in viaggio per a San Fiorenzo, con animo di cacciar gl'Inglesi da quel loro ultimo nido di Mortella. Urtava l'oste Britannica, ne seguitava una mischia mortalissima: fuggirono finalmente gl'Inglesi, ricevendo per viaggio molti danni, e si ridussero, prestamente camminando, e tutti sanguinosi alle navi. Conseguito quest'intento, saliva Gentili sopra certi monti, donde speculando vedeva l'armata Inglese, che continuava a starsene con l'ancore aggrappate in poca distanza: preparava una forte batterìa per fulminarla. Non aspettarono l'ultimo momento; che anzi, date le vele ai venti, si allargarono in alto mare alla volta di Gibilterra, lasciando tutta l'isola in potestà di coloro, che la vollero restituire all'antica madre di Francia. Si ricoverava Elliot vicerè a Porto-Ferrajo, dolente che quella preda si trasferisse di nuovo nella potenza emola all'Inghilterra. Per cotal modo furono spenti in un giro di pochi mesi un parlamento, un reggimento ordinato, un'autorità di un re della Gran Brettagna. Al tempo stesso abbandonarono gl'Inglesi le testè conquistate isole d'Elba e Capraja, brevissimo frutto di violata neutralità.
Fatte tutte queste cose, arrivava Saliceti in Corsica con facoltà di perdonare. Veniva annunziando, che la generosa Francia perdonava; che mandato per lei espressamente recava a' suoi compatriotti constituzione e libertà; una insolenza insopportabile, proscrizioni, esigli, carceri essere stati i doni dell'Inghilterra; avere l'Inghilterra ingannato i Corsi con pretesti di religione, come se la Francia fosse nemica alla religione. A questo eravam serbati, sclamava fortemente Saliceti, di vedere gl'Inglesi divenuti amici, e protettori del papa; non essere la Francia nemica alla religione; solo volere la libertà di ogni culto; vedete, gridava, come i traditori, che all'Inghilterra, quale vil gregge, vi venderono, fuggono; vedete come non osano combattere; vedete come prestamente hanno sgombrato da queste terre, che con la presenza e coi delitti loro han voluto rendere disonorate ed infami; or sen vadano essi pure vagando per istrani lidi con la vergogna, e coi rimorsi compagni, e se qualche traditor resta, punirallo la repubblica: questi svelate, questi punite; con ogni altro vivete come con fratelli: unitevi, affratellatevi; giurate sull'are vostre, e per l'ombre dei compagni morti nelle battaglie a difesa della repubblica, giurate odio eterno alla monarchìa. Queste incitate parole, che producevano frutti conformi, dimostravano quanto gli uomini si soddisfacciano meglio delle esagerazioni, che della temperanza.
LIBRO OTTAVO
SOMMARIO
Nuovi pensieri politici, che sorgono nella mente degl'Italiani più savj dopo le vittorie replicate di Buonaparte. Rivoluzioni nel ducato di Modena. Comizj di Bologna. Congresso dell'Emilia. Spaventi del pontefice; pure non consente alla pace. Sue gravi esortazioni ai principi. Pace del re di Napoli colla repubblica di Francia: il principe di Belmonte Pignatelli suo ambasciadore presso al direttorio. Pace tra Francia e Parma. Morte di Vittorio Amedeo III, ed assunzione di Carlo Emanuele IV, re di Sardegna; qualità di questi due principi. Progetti di Buonaparte e del direttorio sul Piemonte. Conte Balbo, ambasciadore del re Carlo Emanuele a Parigi sue qualità, e suo discorso d'introito al direttorio. Nuove tribolazioni di Genova. Gl'Inglesi vengono ad un fatto condannabile, che fa gettarsi Genova del tutto alla parte Francese. Spinola, suo plenipotenziario a Parigi: conclude un trattato col direttorio. Maneggi politici in Italia. Clarke mandatovi dal direttorio: perchè, e con quali istruzioni. Proposizione d'alleanza tra Francia e Venezia. Rifiutata da Venezia, e perchè. Proposizione d'alleanza tra l'Austria e Venezia. Rifiutata dalla seconda, e perchè. Proposizione d'alleanza tra la Prussia e Venezia. Rifiutata da quest'ultima, e perchè. Desolazione dei paesi Veneti per opera sì dei repubblicani, che degl'imperiali. Querele dei Veneziani. Venezia si arma per le minacce fatte da Buonaparte al provveditor generale Foscarini. Sospetti della Francia in questo proposito, e dilucidazioni date dal senato Veneziano.
Le vittorie dei repubblicani in Italia erano splendidissime: l'avere ridotto a condizione servile il re di Sardegna, costretto ad accordi poco onorevoli quel di Napoli ed il pontefice, l'avere non solo vinto, ma anche spento due eserciti d'Austria, l'essere disarmata la repubblica di Venezia, e l'aver cacciato dalla Corsica gl'Inglesi col solo sventolar d'un'insegna, davano argomento, che la potenza Francese metterebbe radici in Italia, e che questa provincia sarebbe per cambiare e di signori e di reggimento. Queste condizioni erano cagione che sorgessero ogni dì nuovi partigiani a favore del nuovo stato, e contro il vecchio. Se per lo innanzi la parte Francese solamente seguitavano o coloro che erano presi con esagerazione evidente da illusioni fantastiche di bene, o coloro che in vantaggio proprio disegnavano convertire quei rivolgimenti politici, vedute tante vittorie, si accostavano a voler secondare le mutazioni molti uomini savj e prudenti, i quali opinavano, che, poichè la forza aveva partorito movimenti di tanta, anzi di totale importanza, era oramai venuto il tempo del non dover lasciare portar al caso sì gravi accidenti; che anzi era debito di ogni amatore della patria Italiana di mostrarsi, e di dar norma con l'intervento loro, per quanto fra l'operare disordinato dell'armi possibil fosse, a quei moti, che scuotevano fin dal fondo la tormentata Italia. Prevedevano, che quantunque nella probabilità delle cose avvenire avessero i Francesi a restar signori, si sarebbero tuttavìa, per l'impazienza e l'instabilità, di cui sono notati, presto infastiditi delle cose d'Italia, ed in parte ritirati, e che la signorìa, divenuta semplice autorità, avrebbe avuto natura piuttosto di patrocinio, che di dispotismo. Allora, speravano, le cose si sarebbero ridotte ad uno stato più tollerabile, e forse gl'Italiani avrebbero potuto ordinare una libertà fondata dall'una parte sovra leggi patrie, dall'altra scevra dall'imperio insolente dei forestieri. Si persuadevano che se era scemato il pericolo delle armi Tedesche, era cresciuta la necessità di soccorrere alla patria coi buoni consigli; credevano male accetti essere ai popoli gl'Italiani intemperanti, che avevano prevenuto, o troppo ardentemente, o troppo servilmente secondato i primi moti dei Francesi, e però non doversi a loro abbandonare la somma delle cose. Gravi uomini, pensavano, avere ad essere i fondatori di un vivere libero, non cantatori, o ballerini intorno agli alberi della libertà; nè alcun nuovo stato potersi fondare senza l'autorità degli uomini autorevoli, perchè i nuovi stati non si possono in altro modo fondare che con la opinione dei popoli, che alla lunga fugge gli esagerati, seguita i savj. Costoro adunque consentivano a farsi vivi in ajuto dello stato, quantunque sapessero in quali travagli avessero a mettersi.
Questa fu un'epoca seconda nelle rivoluzioni d'Italia, in cui uomini prudenti per la necessità dei tempi, vennero partecipando delle faccende pubbliche. In questo concorsero e nobili e popolani, e dotti ed indotti, e laici ed ecclesiastici, desiderando tutti di cavare da quelle acque tanto torbide fonti puri e salutari per la patria loro. Fra costoro non tutti pensavano alla medesima maniera; perciocchè alcuni più timidi, o di più corta vista, o forse di più ristretta ambizione, amavano i governi spezzati; altri innalzando l'animo a più alti pensieri, desideravano l'unità d'Italia, perchè credevano, che l'Italia spezzata altro non fosse che l'Italia serva. Fra i primi si osservavano i più attempati, fra i secondi i più giovani; i primi moderavano, i secondi incitavano; i primi più manifestamente operavano, i secondi più nascostamente; i primi erano amati ed accarezzati dai francesi, i secondi odiati e perseguitati. Chiamavano questi ultimi, come se fossero gente di molta terribilità, la lega nera, e di questa lega nera avevano i capi dell'esercito più paura che dei Tedeschi, perchè e la potenza di lei di per se stessi alle menti loro esageravano, ed era loro esagerata dagl'Italiani adulatori e rapportatori che credevano, che il dar sospetto ai Francesi facesse stimare più necessarj i servigi loro. Pieni erano gli scritti, piene le parole segrete di questi rapportatori ai generali e commissarj della repubblica, del nome della lega nera, ed io ho veduto di molti sonni turbati da questo fantasma. Egli è vero, che gli addetti a questa setta tanto odiavano i Francesi, quanto i Tedeschi, e bramavano che l'Italia sgombra degli uni e degli altri, alle proprie leggi si reggesse, avvisando, che lo sconvolgimento totale prodotto dalla guerra potesse aprir la occasione a quello, a che non avrebbe mai potuto condurre lo stato quieto. Sapevano che nè i Francesi nè i Tedeschi amavano l'independenza Italiana; perciò volevano servirsi dei primi per cacciare i secondi, poi servirsi della forza dell'Italia unita per cacciare i primi. Ma questo era un ferire a caso, piuttosto che andare ad un disegno certo, perchè, essendo in quei gravissimi accidenti non attiva, ma passiva l'Italia, non era da credersi che vi sorgessero personaggi civili di estrema autorità, nè generali di gran nome, ai quali concorressero con opinione ed impeto comune per la desiderata liberazione i popoli. Pure aspettavano confidentemente il benefizio del tempo, e preparavano, non con ischiamazzi e con grida, ma con un parlare a tempo, ed anche con un tacere a tempo, i semi alle future cose. Di questi non pochi entrarono nei nuovi magistrati creati dai Francesi, che loro diedero autorità, perchè non gli conoscevano; ed essi i comandamenti altieri od avari, o moderavano coi fatti per acquistar favore presso ai popoli, o con parole gli magnificavano per acquistar odio ai Francesi. Creata la setta, entravano anche gli addetti nei magistrati instituiti dai Tedeschi, quando questi riusciti superiori inondarono il paese, e con le medesime intenzioni, ed al medesimo fine indirizzavano le operazioni loro, cioè a creare autorità a se stessi, ed odio ai Tedeschi. Questa, o vera lega che si fosse, o solamente desiderio universale, si era propagata e radicata in tutti i paesi, ed a lei s'accostarono personaggi, a cui non piacevano nè i Francesi nè la libertà, perchè pareva a tutti un dolce ed onorato vivere l'independenza dai forestieri. A questi desiderj mancarono piuttosto i principi, che i popoli Italiani, perchè i principi avevano più paura della libertà, che amore dell'independenza, i secondi più amore dell'independenza, che della libertà. Ma se un principe si fosse abbattuto in Italia, non dico quali gli partorivano i Romani tempi, ma solamente quali nascevano ai tempi di Lorenzo, di Castruccio, e di Giulio della Rovere, avrebbe prodotto, queste opinioni assecondando, ed una Italiana bandiera al vento innalzando, effetti notabilissimi non che in Italia, in tutta Europa. Ma Sardegna era fissa nel desiderio di acquistarsi una provinciuzza Milanese, o Francese, o Genovese, Genova nel commercio, Venezia nella mollezza, Roma nel sacerdozio, Napoli nel volersi una particella delle Marche, Firenze in un felice e pacifico stato; Milano privo del principe proprio ed in preda ai forestieri poteva solo seguitare, non cominciare. Così per troppo godere, o per troppo temere, o per istrettezza di mente, o per fiacchezza d'animo, i principi Italiani trasandarono le occasioni, ed indirizzarono tutti i pensieri loro al difendersi dai Francesi, non avvertendo che il proporsi per fine di tornare allo stato vecchio, indifferente a molti, odiato da alcuni, non poteva far muovere i popoli con quella efficacia, con cui gli avrebbe mossi un disegno nuovo, generoso e grande.
Quanto al reggimento interno di ciascuna parte, o di tutta l'Italia, amavano i più, fra coloro di cui parliamo, la repubblica, ma la volevano ridurre al patriziato, istituito con la moderazione della potenza popolare prudentemente ordinata, governo antico e naturale all'Italia; il quale patriziato molto è diverso dalla nobiltà feudataria, frutto di tempi barbari; perchè il primo fa i clienti protetti ed affezionati, la seconda gli fa servi ed avversi. Può e debbe il patriziato consistere con l'egualità dei diritti civili, ma induce necessariamente inegualità di diritti politici, mentre la nobiltà vive con l'inegualità degli uni e degli altri. Nè in quei tempi, in cui tanto si gridava sulle piazze la egualità, si ristavano questi prudenti Italiani ai popolari e servili schiamazzi; perchè da una parte sapevano, che negli stati grandi la democrazìa pura non può sussistere, se non con soldatesche grosse e con tribunali terribili, atti a contenere i popoli nella quiete; i quali soldati e tribunali sono peste mortalissima di ogni libertà e di ogni egualità. Seppeselo la Francia rossa di cittadino sangue, videlo la Guiana piena dei più virtuosi uomini, pruovaronlo le stanze di San Clodoaldo, fatte testimonio di quanto ardisca e di quanto possa coi soldati un audace e fero conquistatore. Dall'altra parte, non ignoravano, che anche nella democrazìa la egualità politica è impossibile, perchè coloro che esercitano i magistrati, non sono in termini di equalità con coloro che ne son privi, nè chi comanda con chi obbedisce. Adunque vedevano, che una sola differenza poteva essere tra il patriziato misto di democrazìa, e la democrazìa pura, e quest'era, che in quello la inegualità politica è perpetua, in questa temporanea. Credevano governo non solo naturale, ma necessario ed inevitabile nelle umane società essere il patriziato; perchè chi è famoso per ricchezza, o per dottrina, o per virtù, o per servigi fatti alla patria, avrà sempre clientela, nè tutte insieme le grida democratiche potranno impedire, stantechè cosa naturale ed insita nell'uomo è il corteggiare i potenti ed il rispettare i buoni. Neanco fa effetto lo spegnere con le mannaje e con gli esigli come suol fare la democrazìa pura, i buoni ed i potenti cittadini; perchè nuovi sottentrano, e se non s'appresentano da se, il popolo se gli crea; tanta è la necessità del patriziato. Ora pensavano, dovere i legislatori prudenti usare, per ordinar bene una società, questa necessità; e poichè è il patriziato inevitabile, volevano che per leggi fondamentali si organizzasse, e non che si lasciasse sorgere, ed operare a caso; perciocchè organizzato essendo, contribuisce all'armonìa dell'umana società, non organizzato la turba. Buono, anzi necessario consiglio essere opinavano, per bene constituire uno stato, usare gli elementi insiti nella natura umana, perchè, quantunque sia l'uomo di origine divina, soggiace non pertanto, come tutti gli altri animali, a certe leggi naturali; e siccome nel domare gli animali usa l'uomo questo modo o quest'altro, secondochè la natura di ciascuna spezie di loro il richiede, così per reggere gli uomini debbono i legislatori adoperare quel modo, che dalla natura della umana spezie è necessitato. Nè è da temersi che questo procedere conduca al dispotismo, perchè l'uomo ha in se una qualità nobile, che gli fa amare le cose generose, ed abborrire le vili e le vituperevoli, nè può volere il proprio danno. Questo ordinare le società secondo la natura è ben altro che ordinarle secondo certi principj astratti e geometrici, e questo è stato altresì l'errore continuo dei legislatori Francesi ai nostri tempi, solleciti sempre dei principj astratti, non degli affetti e passioni naturali. Quali effetti ne siano nati, il mondo dolente se lo ha veduto. Adunque gl'Italiani volevano un patriziato per la conservazione della società, una democrazìa temperata per la conservazione della equalità, l'uno e l'altra per la conservazione della libertà. A questo salutare consiglio si opponevano le operazioni disordinate delle armi sì Francesi che Tedesche, l'assurdo capriccio dei Francesi di quei tempi del voler applicar il modo del loro governo a tutti i paesi che conquistavano, la volontà di Buonaparte nemico della libertà, amico del dispotismo, amatore, anzi ammiratore della nobiltà feudataria, ed odiatore del patriziato paterno; finalmente gl'Italiani, servili imitatori delle cose d'oltremonti, ed incapricciti ancor essi dei governi geometrici. Ma gl'Italiani, veri speculatori e scrutatori delle umane cose, non si sgomentavano, sperando dal tempo e dalla necessità ajuto agl'intendimenti loro; e poichè pareva che per destino l'autorità regia fosse giunta al suo fine, confidavano che la società si sarebbe fermata al governo patrizio, misto di democrazìa, e non scesa al democratico puro.