Kitabı oku: «Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV», sayfa 15
Dette poscia molte altre cose parte vere, parte di poca entità sull'unità d'Italia, terminavano dicendo: «Se la repubblica Francese finalmente non dichiara l'unità d'Italia, essa non potrà mai purgarsi da quella opinione, in cui è venuta, quantunque ingiustamente, di perfidia nei negoziati, di fraude nei patti, alla quale il direttorio ha dato occasione di sorgere in tutta Europa per mezzo de' suoi agenti tanto perfidi, quanto corrotti. In nome della repubblica Francese osarono essi cacciare con le bajonette il popolo dalle assemblee primarie; in nome della repubblica Francese esclusero dai consigli legislativi i rappresentanti più fedeli, per sostituire ai luoghi loro gli agenti dell'aristocrazìa, i fautori dei tiranni; in nome della repubblica Francese obbligarono ad accettare trattati ingiusti, poi gli violarono; in nome suo il libero parlare, ed il libero scrivere fu spento, in nome suo cacciati dagli uffizj arbitrariamente gl'impiegati, in nome suo rotto, anche di nottetempo, l'asilo sacro dei cittadini, in nome suo tolto loro per forza le proprietà, confuse le potestà civili e criminali: in nome suo dichiarati licenziosi e nemici della libertà coloro, che ancora avevano il coraggio di amare la virtù, e di opporsi ai loro scialacqui ed alle loro depredazioni, in nome suo rifiutarono le armi ai repubblicani, e chiarirono ribelli coloro, che volevano difendere le native sedi contro il tradimento di Scherer, in nome infine della repubblica Francese introdussero la oligarchìa, contaminarono con istudiate corruttele il retto costume, e per tale guisa prepararono le sollevazioni dei popoli sdegnati da tanta oppressione e licenza. La repubblica Francese, che va a gran destino, debbe dimostrare al mondo con fatti, che opera di lei non sono tanti mali prodotti, tanti delitti commessi, e cui ella è debitrice di ricorreggere. Dicelo il popolo Francese ne' suoi scritti indirizzati al corpo legislativo; diconlo aringando i rappresentanti suoi, pieni di sdegno alle disgrazie d'Italia: palesano questi scritti, palesano questi discorsi l'affezione, che si porta all'Italia. Nel loro giusto sperare i repubblicani d'Italia d'ogni ingiuria, e d'ogni danno dimenticandosi, nell'esiglio loro solo sono intenti a ristorare la patria loro, dalle immense sue ruine liberandola. Pruovarono, che la ragione eterna, che la naturale legge richieggono la libertà e la unità d'Italia, e si persuadono, che la giustizia e l'affezione dei Francesi, quello, che la natura vuole, con la volontà loro confermando, s'apprestino ad incamminare a tal destino questa bella, ed infelice parte d'Europa». Onorati e numerosi nomi sottoscritti davano autorità, e valore al discorso.
Gravi parole erano queste, e parte ancora vere, e parte ancora eccelse, ma mescolate ancora di non comportabile intemperanza; perchè, se era lodevole e generoso il richiedere dai Francesi la libertà e l'unità d'Italia, bene era da biasimarsi quel voler giudicare il governo Francese, quel volersi intromettere nelle faccende domestiche di Francia, quel chiamar traditore un capitano, a cui mancò piuttosto la fortuna, e forse l'animo in un solo fatto, che la rettitudine e la fede verso la patria. Il direttorio disprezzava queste improntitudini, perchè l'unità della nazione Italiana, come emola, ed essendogli molesta la sua potenza, non gli andava a grado. I rappresentanti anche i più vivi, e che si dimostravano più propensi agl'Italiani, abborrivano ugualmente dall'unità d'Italia, non avendo inclinazione alla sua grandezza; ma di queste cose si servivano nei discorsi ed orazioni loro, per isbattere la riputazione e la potenza del direttorio, ed aspreggiare i popoli contro di lui. Intanto le armi settentrionali viemaggiormente prevalevano; nè era conceduto dai cieli ai gridatori di Parigi, od ai capitani che allora tenevano il campo in Europa per la repubblica, di rintuzzarle, e di restituire alla Francia il dominio d'Italia.
LIBRO DECIMOSETTIMO
SOMMARIO
Guerra in Grecia, e suoi crudeli accidenti. Corfù, e le altre possessioni Ioniche di Venezia conquistate dai Russi e Turchi. Continuazione della guerra in Italia. Avvisamenti di Moreau per resistere ai confederati. Macdonald lascia Napoli per venir a congiungersi con esso lui nell'Italia superiore. Avvenimenti sanguinosi di Roma e di Toscana. Prime battaglie tra Macdonald e gli alleati nel Modenese: le tre battaglie della Trebbia tra Macdonald e Suwarow. Moreau scende al piano, poi si ritira di nuovo ai monti. Oppugnazione, e presa di Alessandria, Mantova e Serravalle. Battaglia di Novi con morte del generalissimo Joubert. Tortona si arrende ai confederati. Guerra nel Piemonte, e presa di Cuneo.
La guerra, che insanguinava le terre Italiche, non risparmiava le Greche. Le isole del mare Ionio tolte sotto specie di amicizia dai repubblicani di Francia all'imperio dei Veneziani, vennero per forza d'armi sotto quello dei Turchi e dei Russi. Dominavano i confederati l'Ionio con le armate loro, e già con molta felicità si erano impadroniti delle isole di Cerigo, Zante, Cefalonia, ed Itaca, delle prime con l'opera efficace degl'isolani mossi a tumulto dai nobili contro i Francesi, dell'ultima non senza grave rammarico degli abitatori, ai quali in quei grandi pericoli non rifuggì l'animo dal mostrarsi favorevoli ai repubblicani, e dall'accarezzargli con ogni segno di affezione insino all'ultimo. Bene e meritamente, come pare, fu biasimato dagli uomini periti di guerra il generale Chabot, che reggeva tutti quei paesi nuovamente acquistati alla Francia, del non avere, quando vide avvicinarsi un nemico più potente di lui, ristretto, abbandonando le altre isole, tutte le sue genti in Corfù; perchè all'ultimo a chi rimanesse l'imperio di quest'isola rimaneva quello delle possessioni Joniche. L'avere tenuto le sue forze spartite fu la cagione, che più di mille buoni soldati vennero in poter dei confederati nelle isole poco difendevoli, che abbiamo sopranominate, e Corfù non ebbe per la vastità delle fortificazioni presidio sufficiente al difendersi. Solo il castello di Santa Maura si difendè gagliardamente, e lungo tempo, ma finalmente fu costretto di cedere alla fortuna del vincitore con la prigionia della valorosa guernigione. Pel medesimo errore aveva Chabot munito con presidj i luoghi della terra ferma, che essendo di antico dominio veneziano, erano venuti in mano dei Francesi. Nè alcuno può restar capace, come egli sperasse di potervisi mantenere contro tutta la potenza di Alì, Pascià di Ianina, che già, meno per obbedire ai comandamenti della Porta Ottomana, che per ingrandire se stesso in quel rivolgimento di stati, si era risoluto a combattere i Francesi. Era Alì uomo di perfida e feroce natura: aveva vezzeggiato i Francesi, quando, trovandosi forti, pensava che la forza loro fosse per tornare in sua utilità propria. Ma ora, abbassatasi la fortuna, si era indotto a dar loro l'ultima pinta: o per inganno, o per forza, che sel facesse, non gl'importava. Aveva sperato che i Francesi, quando già erano minacciati, gli avrebbero dato in mano Corfù, perchè poteva spendere molto denaro, e misurava altrui da se stesso. Di ciò aveva anzi mosso parole con Chabot, il quale, siccome quegli che per integrità e per fede verso la sua patria non era a nissuno secondo, aveva sdegnosamente ricusato. Per questo Alì si era apprestato, avendo considerato che le fraudi non fruttavano, a combattere con tutte le forze i repubblicani, che tuttavia tenevano piede nel continente a Butintrò, a Parga, a Preveza, ed a Nicopoli. Ma già la guerra romoreggiava intorno a Corfù; Butintrò, combattuto aspramente dagli Albanesi e dai Turchi di Alì, era stato sgombrato da Chabot, non senza grave perdita di parecchi valorosi soldati. Fu ferito in questo fatto un Petit colonnello, uomo di squisitissimo valore. Fe' anche sgombrare Parga, del che non poco dolore sentirono i Parganiotti, che si erano affezionati ai Francesi, e temevano la ferocia di Alì. Ma già le cose si riducevano alle strette in Corfù, a Preveza, ed a Nicopoli: imperciocchè i confederati comparsi con l'armata nel braccio di mare, che separa l'isola dal vicino Epiro, impedivano i soccorsi, che da Ancona avrebbero i repubblicani potuto mandare, ed avendo sbarcato genti in sull'isola, e piantato artiglierìe sul monte Oliveto dall'una parte, sul monte Pantaleone ed alle Castrate dall'altra, avevano incominciato a battere la fortezza. Al tempo stesso parecchie sommosse sorte nell'isola, principalmente alle Benizze, luogo abbondante di acque chiare e dolci, ajutavano gli assalitori, e travagliavano gli assaliti. In queste sollevazioni si mescolavano volentieri i Corfiotti, accesi in questa disposizione da alcuni nobili, i quali poco amavano il nome Francese, e molto il Russo; nel che procedevano con maggiore affetto il conte Bulgari, personaggio di ottima natura, ricco, e di molta dipendenza nell'isola, e la famiglia dei Capo d'Istria. La religione anch'essa operava efficacemente in quei capi Greci tanto vivaci, e tanto facili a dar la volta. Hanno i Greci la medesima religione che i Russi, e pareva loro, che il dominio Russo importasse per loro il divenire da servi padroni. Fra tutti un grave tumulto contro i Francesi sorgeva nel Mandruccio, sobborgo della città posto sotto tutela del monte Oliveto, a frenare il quale spesero i Francesi molta fatica e molto sangue.
Intanto Alì, radunato il suo esercito, in cui si noveravano meglio di undici migliaja di combattenti, la maggior parte a cavallo, si apparecchiava a dar l'assalto a Preveza, e massimamente a Nicopoli, dove era ridotto il maggior campo dei Francesi, circa settecento soldati, fra i quali sessanta Sullioti, e ducento Prevezani. Era questo campo fortificato con alcune trincee, ma ancora imperfette, ad al governo del generale Lasalcette, che udito il pericolo di Nicopoli, vi si era trasferito da Santa Maura, dove aveva le stanze, per non defraudare i suoi in quell'estremo accidente della sua presenza, e del suo esempio. Era fatale, che non pochi valorosi Francesi perissero in istranj lidi, non di buona, ma di barbara guerra, perchè fossero soddisfatti i desiderj smisurati di chi colà gli aveva mandati, ed all'ambizione di cui pareva, che il mondo non potesse bastare. Si avventava Muktar, figliuolo di Alì, contro i Nicopolitani alloggiamenti ferocemente, e più ferocemente ancora ne era dai difensori ributtato. Nasceva nelle barbare schiere uno schiamazzare orribile: gli uni stimolavano gli altri alla vendetta, perchè le armi repubblicane, massimamente la scaglia, avevano di loro fatto molta strage. Le grida e le imprecazioni atrocissime, e le minacce, e l'impeto nuovo, e gli squadroni grossi dei barbari spaventavano i capitani Prevezani, che con le loro genti tenevano il mezzo dell'esercito repubblicano; davansi alla fuga, e fuggendo traevano con se quasi tutti i soldati loro. Questo impensato accidente disgiunse le due ali estreme dei Francesi, e fu lasciato fra di esse uno spazio vuoto. Del quale favor di fortuna subitamente valendosi Muktar, ed Alì medesimo, che in su quel fatto con tutte le genti era sovraggiunto, mettendosi di mezzo, perchè Lasalcette, quantunque avesse voluto, non era stato a tempo di rannodarsi, inondarono tutto il campo, troncando ai loro nemici ogni speranza di salute. Vide quel Greco suolo, già tanto famoso per le battaglie di Augusto e d'Antonio, i medesimi miracoli di valore dall'un canto, maggior barbarie dall'altro; poichè non mai la virtù Francese nelle battaglie si mostrò tanto eminente, quanto in questa, nè mai una scelerata barbarie tanto infierì contro infelici e buoni guerrieri quanto in questo, e dopo questo miserando fatto. Rotti e scompigliati gli ordini dei Francesi dai barbari, che da ogni parte insultavano, era la battaglia ridotta in affronti particolari in cui venti combattevano contr'uno. Perivano i Francesi, ma dopo vendette a cento doppi fatte; perchè in loro quel che non poteva la forza naturale, poteva l'incredibile coraggio. Lasalcette medesimo, ed un Hotte, colonnello della sesta, con le mani loro si difendevano al pari dei gregarj. Combattevasi dai Francesi non per altra cagione che per morire onoratamente, e da uomini forti; ma anche in questo era la fortezza maggior di quel che appare; posciachè, che le generose opere loro venissero raccontate ai posteri, siccome quelle che in terre prive di ogni civiltà si commettevano, era nelle menti loro più che incerto. Adunque combattevano piuttosto per virtù propria, che per lode altrui. Infine fattosi dai Francesi, non quello, ma più di quello, che per la natura umana si può, piuttosto per stanchezza insuperabile, che per libera volontà, si diedero in poter dei vincitori, forse cento soldati, soli superstiti di sì grosso corpo. Lasalcette, e Hotte incontrarono la cattività medesima, nè non ignoravano, che quella gente barbara tra capi e subalterni non avrebbero fatto differenza.
Mentre con tanto valore si combatteva alle trincee di Nicopoli, succedeva nella vicina Preveza un fatto non meno del raccontato maraviglioso, e che in se non ebbe nè minore crudeltà dall'un de' lati, nè minor valore dall'altro. Era al governo di Preveza un Tissot, capitano della sesta, con ottanta Francesi. Avendo egli inteso della fiera battaglia che ardeva a Nicopoli, lasciati alcuni de' suoi alla guardia, si era avviato coi restanti al soccorso dei compagni; ma già la fortuna aveva concluso la tragedia di Nicopoli, e già Lasalcette era venuto in poter dei barbari. Di ciò ebbe le novelle Tissot, e la forza del nemico, che d'ogni intorno correva la campagna, gliene dava anche manifesto argomento. Ritraeva il passo verso Preveza, continuamente assalito da torme innumerevoli di Albanesi a cavallo, dalle quali, ristretti i suoi in gomitolo, ed usando l'opportunità dei luoghi, con immenso valore si difendeva. Ma il nemico, che tanto abbondava di soldati corridori, si era condotto a Preveza, dove aspramente combattuta la piccola guernigione lasciatavi da Tissot, e combattuto anche aspramente da lei, si era impadronito di una parte della terra. Giunto il capitano Francese in Preveza tanto fece con la sua debole squadra, che, uccisi quanti Albanesi se gli pararono davanti, e calpestando i mucchi dei cadaveri loro, riusciva sul porto, donde poco lontano discopriva una nave bombardiera della repubblica, ed alcune barche venute da Santa Maura, che gli arrecavano qualche ajuto di genti e di munizioni. Sorgeva nuova speranza in coloro, ai quali niun'altra speranza era rimasta, se non quella di una morte onorata; perciocchè gli Albanesi raccolti a torme inondavano Preveza e le campagne, e troncavano ogni via di scampo. Ma la speranza non fu lunga: succedeva una disperazione tanto più dolorosa, quanto più la speranza era stata viva ed inaspettata. Un Prevezano affezionato a Tissot si offeriva per andar ad avvertire il capitano della nave del pericolo de' suoi compatriotti, acciocchè accorresse prestamente in soccorso, se non per vincere, che ciò era impossibile, almeno per iscampargli. Facevalo il Prevezano, non curando le armi dei barbari, che gli suonavano d'ogni intorno. Ma un Francese, tace la storia il nome di questo piuttosto mostro che uomo, messosi sulla barca del generoso Prevezano, e con questo condottosi alla nave, affermava, avere veduto con gli occhi suoi proprj l'uccisione di tutti i Francesi, nè restar loro altra salute, se non quella di allontanarsi tostamente da quei disumani e sanguinosi lidi. La crudele bugia allignava; la nave bombardiera con le barche Mauritane, voltate le vele, se ne tornava là dond'era venuta. Che cuore fosse di Tissot e dei compagni nel vedere le andantisi vele, non so in quale lingua, nè con quali parole dire adeguatamente si potrebbe. Fatto in quel mortale caso il capitano Francese maggiore di se medesimo, gridava: «Saran dunque, o compagni i nostri giuramenti indarno? Insulteremo noi, quai pusillanimi soldati, alle ombre dei nostri compagni eroicamente morti nelle presenti battaglie? No, noi morrem piuttosto, se vincere non possiamo, e la tomba accorrà coloro, che nel momento estremo hanno onorato la patria loro: lasciamo segni terribili del nostro valore, ed i nemici nostri all'udire le battaglie di Nicopoli e di Preveza, ed al rammentare il nome di Francia stupiscano di maraviglia, e tremino di terrore».
Ciò detto, si avventava con furiosissima pinta in mezzo ai barbari; seguitavanlo i compagni; Preveza vedeva una battaglia senza pari. Pochi uomini assaltavano una moltitudine innumerabile, nè solo l'assaltavano, ma la ributtavano, e la cacciavano piena di maraviglia e di spavento. Le contrade, le piazze, i portici di Preveza abbondavano di cadaveri, fumavano di sangue. Datosi dagli animi, che sono instancabili, quanto da loro si poteva dare, incominciavano a mancare i corpi, le cui forze lungamente non possono durare in isforzo estremo. La fame, la sete, la fatica, l'impeto stesso delle volontà avevano dato luogo alla estenuazione, e se non erano rotti gli animi, erano consumate le forze, nè più si combatteva pei repubblicani con tanto ardore. Accortisi i barbari dell'insperato cessamento, tornavano alla battaglia con grida spaventevoli: l'avidità della preda, la rabbia della vendetta gli stimolavano. Vinse la moltitudine fresca contro pochi e lassi. Chi non fu morto, fu preso, e chi non volle andar preso, a tale salse un coraggio indomabile, si uccise da se stesso con le armi tinte del sangue dei barbari; alcuni cercarono la morte, nell'avaro mare gittandosi. Degli ottanta, solo otto col capitano Tissot restarono superstiti, e questi furono tutti dal truculento vincitore dannati a vita tale, che di lei migliore è la morte. Veduti minacciosamente da Alì, erano mandati a strettissima prigione con quattrocento Prevezani, uomini e donne, presi nell'infelice patria loro. Per addolorargli, e per ispaventargli, conducevangli a riva il golfo, perchè quivi vedessero sul sanguinoso campo, dove avevano combattuto, le miserande reliquie dei loro compagni uccisi: cadaveri laceri, membra tronche, teste difformi, e bruttate di sangue, e di fango. Riconosceva, ciascuno con pianti e con querele chi aveva avuto o per parentela, o per amicizia più caro. Godevano i barbari, insultavano, minacciavano, il dolore stesso prendevano a scherno: peggiore governo di loro, affermavano, doversi fare di quello, che dei morti si era fatto; avere ad essere fra pochi momenti le teste loro vive pari a quelle degli ammazzati. Faceva Alì tormentare ed uccidere non pochi Prevezani in cospetto dei Francesi cattivi, ed ei se ne stava mirando, godendo, e compiacendosi delle miserabili grida dei tormentati e dei morienti. Condotti i vinti sulla piazza di Preveza, così ordinando il tiranno, un Albanese scotennava con rasojo le morte teste, poi le salava; poi comandava ai Francesi, che anch'essi così facessero. Ricusarono dapprima per onore e per orrore; ma battiture dolorosissime gli domavano; davansi a scotennare le teste degli uccisi compagni, spettacolo doloroso ed orribile. Gli atti nefandi a questo non si ristavano. I quattrocento Prevezani, legati, e sanguinosi dalle battiture furono condotti nell'isola Salagora, e quivi tutti senza pietade alcuna, nè con più riguardo verso l'un sesso che verso l'altro, nè verso la canuta che verso la verde età, crudelmente uccisi. Le compassionevoli preghiere per perdono, e per grazia di coloro, di cui si laceravano le membra, vieppiù inviperivano la ferocia di quell'aspra, e selvaggia gente, e chi si taceva, era l'ultimo chiamato a morte. Grondò Salagora di sangue umano a rivi, poi biancheggiò, e forse biancheggia ancora di ossa rotte, e di teschi ammaccati. Menavansi a Lorù, grossa terra poco lontana, i prigioni di Preveza e di Nicopoli; poi si avviavano verso l'Arta per alla via di Ianina. Viaggiando, quella torma di disumanati carnefici gli sforzava a portare a volta a volta le teste ancora stillanti sangue degli uccisi amici, e chi ricusava l'orrendo carico, era barbaramente tormentato. Gli Albanesi, quasi a modo di passatempo, straziavano a coda di cavallo Caravella Prevezano: straziato il lasciavano respirare, perchè raccogliesse nuova lena ad essere ritormentato, poi di nuovo sforzavano a corsa, flagellando, il cavallo, e così fra i tormenti ed i respiri il condussero, alzando essi al cielo festevoli grida, ad acerbissima morte. Arrivarono all'Arta, poi a Ianina; si offersero agli occhi loro le teste dei compagni conficcate sui merli dell'atroce reggia di Alì. Da Ianina per la Grecia, e per la Romanìa s'incamminavano a Constantinopoli. Dov'eran le strade più sassose e più aspre, toglievano loro i barbari per diletto le scarpe: dov'erano più assetati, e dove più scorrevano le acque fresche e chiare gli proibivano dal dissetarsi: chi non poteva o per stracchezza, o per fame, o per sete, o per ferite seguitare, tirato a forza sulla sponda dei fossi, vi era inesorabilmente dai crudeli accompagnatori decapitato; i compagni sforzati a portar le teste sanguinose. Sopportarono i miseri Francesi, dico i superstiti, perchè i più perirono, con inenarrabile costanza tormenti tanto insopportabili, Lasalcette, e Hotte i primi. Quando io penso dall'un de' lati alla natura tanto sensitiva dell'uomo, e con quanto amore, e con quanta difficoltà si allevino i figliuoli per fargli adulti, d'altro allo strazio, che gli uomini fanno degli uomini, spesso per nonnulla, spessissimo per cagioni lievi, qualche volta con allegrezza, sempre senza dolore, sto in dubbio, se animali feroci, o uomini io me gli deggia chiamare; che anzi al tutto mi risolvo, ed in questo pensiero mi fermo, che piuttosto uomini, che animali feroci si debbano chiamare, perchè non vedo, che le tigri facciano delle tigri quello strazio, che gli uomini fanno degli uomini; e peggio, che quando essi non possono con le coltella, si lacerano con le lingue. Bene sto sempre in dubbio, a che cosa servono la ragione e la compassione, che solo sono date agli uomini. I lacerati giunti a Costantinopoli, furono, Lasalcette e Hotte, serrati nelle Sette Torri, gli ufficiali ed i gregarj posti al remo sull'Ottomane galere.
Intanto l'oppugnazione dell'isola di Corfù si continuava gagliardamente dai Russi e dagli Ottomani. Ogni dì più cresceva il numero degli assalitori: mandava Alì i suoi Albanesi, e genti Turche continuamente arrivavano. Per avere gli alleati occupato le eminenze del monte Oliveto e di San Pantaleone, erano gli assediati ristretti nei forti, e niuna via restava loro per allargarsi nell'isola. Il Mandruccio venuto in poter dei Russi, le Castrate spesso infestate dai Turchi e dagli Albanesi, che calavano dal vicino Pantaleone, San Salvatore venuto spesso in contesa, quantunque sempre valorosamente difeso dai repubblicani. L'assalto di Corfù tirava in lungo, l'oppugnazione diveniva assedio, perchè i Francesi difendevano la piazza virilmente, ed ella è molto forte, ed i Turchi, quantunque assai coraggiosi, non sanno condurre con arte le oppugnazioni delle fortezze. In questo l'ammiraglio di Russia Ocsacow, che governava con suprema autorità la guerra, pensava ad una fazione di non difficile esecuzione, e che di certo gli avrebbe dato la piazza in mano, se avesse avuto, come non dubitava, felice fine. Siede sul fianco della città, e della principale fortezza di Corfù verso tramontana una isoletta, o piuttosto scoglio, che gli uomini del paese chiamano di Vido, e che i Francesi chiamavano col nome d'isola della Pace. Era questo scoglio, siccome pieno di alberi verdissimi, quieto recesso a chi volesse ricoverarvisi a respirare dalle cure cittadine, e dolce prospetto a chi dalla città il rimirasse. Quest'amena sede di riposo e d'ombre aveva tosto ad essere turbata, e straziata dalla rabbia degli uomini. Avevano conosciuto i Francesi, che chi fosse padrone di questo scoglio, avrebbe potuto battere da vicino coll'artiglierìe la cortina della fortezza, e farvi presta breccia. Per la qual cosa, tagliati ed atterrati gli alberi, vi avevano fatto spianate a guisa di ridotti, munite d'artiglierìe sui cinque siti più importanti dello scoglio; perchè sporgendosi oltre il circuito dell'isola, facevano le veci di bastioni. Meglio di quattrocento buoni soldati sotto il governo del generale Piveron erano posti a guardia di questo principale propugnacolo di Corfù. Nondimeno, malgrado dei fatti apparecchi non era luogo, che si potesse tenere lungamente; perchè nè vi era ridotto trincerato, dove la guernigione potesse ritirarsi a contendere il possesso dell'isola, ove il nemico vi fosse sbarcato, nè le batterie erano chiuse di terrati, o di steccati; il perchè, quasi del tutto senza parapetti essendo, lasciavano i difensori esposti al bersaglio dei nemico, che da diverse parti si avvicinasse per andar all'assalto. Avevano anche i cannoni carretti da marina, e però più bassi, e più difficili a governarsi. Lo scoglio di Vido era luogo buono a tenersi da chi, come i Veneziani, essendo forte sull'armi di mare, poteva proibire, che il nemico sicuramente vi si avvicinasse: per questa ragione non l'avevano i Veneziani munito di fortificazioni: ma per colui, che come allora erano i Francesi, fosse privo di naviglio sufficiente, era Vido sito di molta debolezza.
Il giorno primo di marzo, datosi il segno dalla nave dell'almirante Russo con due cannonate, tutta l'armata dei confederati si muoveva all'assalto dello scoglio di Vido. Al tempo stesso, per impedire che Chabot mandasse nuove genti a rinforzarne la guernigione, fulminavano contro la piazza con grandissimo fracasso le artiglierìe di San Pantaleone, e del monte Oliveto. Ciò nondimeno venne fatto al generale di Francia di mandare allo scoglio un soccorso di duecento soldati. S'attelavano, sprolungandosi col fianco d'orza da ponente a greco, venticinque navi tra vascelli di fila, caravelle Turche, e fregate contro l'isola, e tutte traevano furiosamente. Era un novero di ottocento bocche da fuoco, il rimbombo delle quali consentendo con quelle dell'isola, della piazza, di San Pantaleone, e del monte Oliveto, partorivano uno strepito tale, che e Corfù tutta ne era intronata, e le vicine coste dell'Epiro orribilmente echeggiavano. Erano i difensori di Vido lacerati dalle palle nemiche, e dalle schegge degli alberi rotti e fracassati. I cannonieri di Francia per essere nudamente esposti al fitto bersaglio del nemico, perchè i parapetti non erano sufficienti, pativano grandemente: i cannoni stessi, rotti i carretti, si trovavano scavalcati. Durò questa fierissima battaglia ben tre ore con danno gravissimo dei repubblicani, con grave degl'imperiali; perchè i primi traevano contro di loro a mira ferma. Finalmente, quando fu giudicato dai confederati, che il guasto fatto dalle artiglierìe nei soldati e nelle armi Francesi, avesse facilmente ad aprir loro l'adito ad un assalto di mano, posti prestamente tutti i palischermi in acqua, e riempitigli di gente, gli mandavano allo sbarco. Approdarono i Russi in numero di quindici centinaja sul destro fianco dello scoglio, che si volge verso la città; i Turchi con Albanesi misti, assai più numerosi dei Russi, sbarcarono sul sinistro, che risguardava verso la bocca settentrionale del porto. Nè così tosto furono sbarcati, che uccisi barbaramente i difensori di due vicine batterìe, se ne impadronirono. I Francesi, visto il nemico dentro, si ripararono ad alcune eminenze, non più per contrastar la vittoria, che già era in mano degli alleati, ma bensì per dar tempo, che quel primo furore degli Albanesi alquanto si calmasse. Gli Albanesi e medesimamente i Turchi, quanti Francesi venivano loro alle mani, a tanti tagliavano la testa, o che si fossero difesi, o che si fossero arresi. Le teste gettavano nei sacchi per portarle a Cadir Bey, vicealmirante delle navi Turche. I Russi per lo contrario si portarono molto umanamente; imperciocchè non solamente non uccisero nissuno fra quelli, che cedendo si erano arresi, ma ancora preservarono molti, che già venuti in mano dei Turchi pochi momenti avevano a restare in vita. Eransi i Russi raccolti, dopo la vittoria, in un grosso battaglione quadrato nel mezzo dell'isola, e quivi quanti Francesi accorsero, tanti salvarono. Furono visti ufficiali Russi, a riscatto di Francesi venuti in mano degli Ottomani, e vicini ad aver il capo tronco, dar denari del proprio ai barbari feroci ed avari. Un vicecolonnello di Russia, di cui la storia con sommo nostro rammarico tace il nome, dato tutto il suo denaro per salvar due Francesi, che i barbari già stavano pronti per decapitare, nè contentandosene essi, cavatosi di tasca l'orologio, il diede loro, e per tal modo scampò da morte inevitabile i due derelitti nemici. Nè in questa pietosa intercessione soli gli ufficiali di Russia si adoperarono, perchè e semplici soldati, e marinari con la generosità medesima ajutarono i Francesi. Videsi in questo fatto una estrema barbarie congiunta con una estrema civiltà, e giacchè guerra era, pensiero consolativo è, che la umanità vi avesse in qualche parte luogo. Piveron preso dai Russi, fu condotto in cospetto di Ocsacow, che molto cortesemente il trattò. Quasi tutto il presidio restò o morto, o preso.
La vittoria di Vido portava con se quella di Corfù. Era impossibile, che la piazza fulminata da due parti potesse resistere più lungamente. Perciò Chabot, il quale, piccolo di corpo, ma grande di animo, aveva in tutto il corso della guerra Corcirese fatto pruova di non ordinario valore, sforzato alla dedizione, stipulava con Ocsacow e con Cadir, che Corfù si desse ai confederati con tutte le armi e munizioni; uscissene il presidio con gli onori di guerra; fosse a spese, e per opera dei confederati trasportato a Tolone; desse fede di non far guerra per diciotto mesi contro i confederati; la nave il Leandro, e la fregata la Bruna ai medesimi si consegnassero; Chabot, ed i suoi ufficiali ad elezione sua potessero essere trasportati o a Tolone, o ad Ancona, purchè fra un mese facessero la elezione. Entrarono i Russi per la porta di San Niccolò, ed in bell'ordine procedendo per la contrada principale, andarono a schierarsi sulla spianata, che sta in mezzo tra la città e la fortezza. Gridavano in questo mentre i Corfiotti viva Paolo primo, e sventolavano all'aura drappelli Moscoviti. Presidiarono i Russi le fortezze, i Turchi la città. Fuvvi qualche sacco di case di giacobini, ma subitamente represso dai confederati. Era a quei tempi un uomo nuovo, e di umore strano a Corfù, che ve ne sono molti di tal fatta in quei paesi, il quale in odore di santità, e quale eremita sucidamente vivendo in una celletta vicina alla chiesa di San Spiridione, protettore veneratissimo dell'isola, aveva più volte, quando le cose di Francia erano più in fiore, pronosticato, che i Francesi non farebbero lunga vita in quelle terre. Riuscito l'evento parve miracolo: il veneravano come profeta.