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Kitabı oku: «Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo V», sayfa 6

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Il primo incominciando dalla riva destra del Bisagno in riviera di Levante sotto alle porte Romana, e Pila, s'innalza sul dorso del monte sino al forte dello Sprone, donde volgendosi a ponente, e fasciando la città, dopo di essersi rizzato in un forte, che chiamano la Tanaglia, presso alla Crocetta, se ne va a terminare presso alla Lanterna, ed al molo nuovo. Il secondo partendo da levante gira accosto, e ferma le mura; ma s'interrompe a mezza strada, e non arriva sino al molo nuovo. La parte più difendevole è il forte dello Sprone, ma siccome è sottoposto a più alti gioghi, e da loro dominato, così fu d'uopo piantarvi due forti, uno sul monte dei Due Fratelli, l'altro più in su, a cui per la sua forma fu dato il nome di forte del Diamante. Chi ha in mano questi due forti, si può stimar padrone di Genova, perchè stanno sopra a tutte le altre fortificazioni. La parte più debole del procinto trovandosi al luogo più basso verso la foce del Bisagno, si pensò a munire con forti le eminenze vicine, cioè con quello di Quezzi il monte del Vento, con quello di Richelieu il monte Manego, e finalmente con quello di Santa Tecla la eminenza di questo nome. Nè ciò bastando alla difesa di questa parte, si fecero trincee sui monti vicini dei Ratti, delle Fascie, e di Becco. Tali erano le difese di Genova, quando stava in propria balìa: elle bastavano, perchè con breve assedio non si poteva prendere, i lunghi erano impossibili per le emolazioni delle potenze. Consistevano le difese vive di Massena in diecimila soldati Francesi; aveva con se Soult, Gazan, Clauzel, Miollis, Darnaud. Accostavansi a queste forze circa due mila Italiani di nazione diversa, ordinati da Massena in corpo regolare sotto la condotta di un Rossignoli Piemontese, uomo di natura molto generosa, di gran cuore, ed amantissimo della libertà. Le corroborava la guardia nazionale di Genova, fedele, parte per amore di Francia, parte per odio d'Austria, parte per paura del sacco, se qualche accidente contrario alla quiete sorgesse. Queste genti unite insieme non componevano certamente un presidio sufficiente per un sì vasto circuito. Inoltre vi si viveva in molta apprensione per le vettovaglie, massime di grani.

Gl'Inglesi governati da Keit, impedivano le provvisioni di Corsica e di Marsiglia. Del governo, che era allora in Genova, poche cose dirò. Non era nè più libero, nè più servo dei precedenti, e vi era stata fatta una gran mutazione di forma, poichè, spento il direttorio in Francia, la moda empirica e servile volle che si spegnesse anche in Liguria: creossi, in luogo del direttorio, una commissione di governo. Lodossi il cambiamento, pure secondo la corrente servile. Questo con buona volontà, ma sommessa ed umile, perchè il pericolo e le lunghe disgrazie avevano rotto gli animi, secondava Massena.

La forza che investiva Genova era molto varia. Il principal nervo consisteva in Tedeschi; ma con loro andavano congiunte torme numerose di villani sì Genovesi delle due riviere, che Monferrini, i quali non mossi da alcun desiderio buono, ma dall'odio, dalla vendetta, e dall'amor del sacco, erano accorsi alle voci di Azzeretto, uomo che era stato incomposto e rotto, quando militava coi Francesi, ed ora si mostrava incomposto e rotto, militando coi Tedeschi. Nè piccolo momento recavano alla oppugnazione le navi Inglesi e Napolitane, non solamente con intraprendere i viveri sul mare, ma ancora coll'ajutare, fulminando le spiaggie, gli sforzi degli Austriaci, principalmente verso il Bisagno, dove i luoghi avevano contro il mare minore difesa, che verso la Polcevera. Fece Otto, che soprantendeva all'assedio, il dì ventitre aprile una grossa fazione sulla sinistra della Polcevera. Il reggimento di Nadasti, cacciati prima i Francesi da Rivarolo, s'impadroniva anche di San Pier d'Arena. Ma uscito Massena colla vigesima quinta gli rincacciava. Sapevano gli assalitori, che la parte più debole della piazza era verso levante. Però si deliberarono a darvi un assalto, tentando di occupar le eminenze. Il dì trenta aprile, prima che aggiornasse, givano all'assalto per modo che Hohenzollern e Palfi si lanciavano contro il monte dei Due Fratelli, il colonnello Frimont, scendendo dal monte delle Fascie, si avventava contro il monte dei Ratti, il forte di Quezzi, ed il forte Richelieu, Rosseau si scagliava contro Santa Tecla, Azzeretto tempestava co' suoi villani intorno al Diamante; Gottesheim, passata la Sturla, s'avvicinava a San Martino d'Albaro, ed alle mura della città. Per consuonar con tutti questi moti a levante, Otto attaccava Rivarolo a ponente. Riuscirono a buon fine quasi tutti gli assalti dei Tedeschi: guadagnarono il monte dei Ratti, quello dei Due Fratelli, il forte Santa Tecla; già circondavano i forti di Richelieu e del Diamante; Gottesheim, acquistata la metà di San Martino, instava per acquistar l'altra. Era un gran pericolo pei Francesi, perchè se i Tedeschi avessero conservato i luoghi conquistati, Genova non aveva più rimedio. Massena si metteva al punto di rimettere la fortuna. Mandava Soult al conquisto dei Due Fratelli, Darnaud al rincalzo di Gottesheim, Miollis contro Santa Tecla e Quezzi. Vinsero tutti: gl'Italiani del Rossignoli, i primi, riconquistarono i Due Fratelli. Massena infaticabile, invitto, impaziente, animato dal prospero successo usciva nuovamente alla campagna il dì undici maggio. Il suo fine era di cacciar i Tedeschi dal monte delle Fascie, perchè da quella eminenza potevano calarsi a rovina delle difese più prossime alla piazza. Ordinava l'assalto per modo che Soult girasse a dorso del monte, Miollis lo attaccasse da fronte. Combattè infelicemente il secondo, favorì la fortuna l'impresa del primo recando in sua mano, dopo una battaglia molto feroce, il conteso monte. Nol conservarono lungamente i repubblicani, perchè Hohenzollern e Frimont mandati da Otto il ricuperarono. Massena intanto raccoglieva viveri alla campagna, breve ed insufficiente ristoro. Volle quindi acquistare il monte Creto, come sito dominatore, e passo comune da levante a ponente. Mandava alla fazione due grosse squadre, la destra condotta da Soult, la sinistra da Gazan. I Tedeschi fortificati stavano a diligente guardia. Fu furioso l'assalto, valorosa la resistenza; pure andava superando la fortuna dei Francesi, quando sopravvenne un temporale grossissimo; abbujossi l'aria, straordinariamente piovve; i combattenti sforzati a ristarsi. Rasserenato il cielo, ricominciarono a menar le mani; l'accidente diè tempo a Hohenzollern ad arrivare con genti fresche: ruppe i repubblicani, e gli sforzò a tornar dentro le mura. Combattessi in questa fazione con incredibile rabbia a corpo a corpo: fu Soult, mentre animosamente confortava i suoi alla carica, ferito sconciamente nella gamba destra, e fatto prigione.

Questa infelice spedizione pose fino al sortire di Massena; perchè perduti i suoi migliori soldati, era troppo indebolito per uscire alla campagna. Pure tanto ancora gli restava di forza, che gli alleati nol potessero sforzare; ma quello che l'armi degli avversarj non potevano operava la fama. Stando io per descrivere qual fosse l'aspetto di Genova in questi ultimi giorni dell'assedio, non posso non deplorare il destino di un popolo Italiano ridotto agli estremi casi, non perchè per lui si trattasse di esser libero, o servo, ma perchè si definisse a chi dei due, o d'Austria o di Francia, avesse a servire: città desolata per le rapine, pel sangue, per la fame, per la peste. Keit per mare non lasciava entrar viveri, Otto per terra; le provvisioni fatte scarse, le scarse dissipate.

Fuvvi fame prima che mancassero i viveri: prima si scorciarono i cibi, poi si corruppero, infine si mangiarono i più schifi e sozzi, non solo i cavalli ed i cani, ma ancora i gatti, i sorci, i pipistrelli, i vermi, e beato chi ne aveva. Eransi gli Austriaci impadroniti dei molini di Bisagno, di Voltri e di Pegli, nè si poteva più macinare. Rimediossi per un tempo coi molini a mano, con quei da caffè massimamente, perchè erano presti; l'accademia consultò dei migliori: s'inventarono ingegni, ruote e molini nuovi. Con certi più grossi un uomo solo poteva macinare uno stajo di grano al giorno. In ogni strada, su per ogni bottega si vedevano girar molini. Nelle case private fra le adunanze famigliari, si macinava; le donne il facevano per vezzo. Infine mancò del tutto il grano: cercaronsi altri semi per supplirvi. Quei di lino, di panico, di cacao, di mandorlo furono i primi; riso ed orzo più non se ne trovava. Gli stritolati e strani semi, prima abbrustoliti, poi misti col miele, e cotti parvero delicatura. Rallegravansi i parenti e gli amici con chi avesse potuto sostentare un giorno di più se e la famiglia con lino, o panico, o tre granelli di cacao. La crusca, materia tanto ribelle alla nutrizione, si macinava ancora essa, e cotta con miele serviva di cibo, non per ispegnere, ma per ingannare la fame: le fave stimate preziosissime: felice, non chi viveva, ma chi moriva. Erano i giorni tristi per la fame e per le lamentazioni degli affamati; le notti più tristi ancora per la fame, e per le spaventate fantasìe. Mancati i semi, pensossi all'erbe. I romici, i lapazj, le malve, le bismalve, le cicorie selvatiche, i raperonzoli diligentemente si ricercavano, e cupidamente, come piacevolezze di gola, si mangiavano. Si vedevano lunghe file di gente, uomini di ogni condizione, donne nobili e donne plebee, visitare ogni verde sito, massime i fertili orti di Bisagno, e le amene colline d'Albaro, per cavarne quegli alimenti, cui la natura ha solamente alle ruminanti bestie destinati. Sopperì un tempo il zucchero: zuccheri rosati, zuccheri violati, zuccheri candi, ogni maniera di confetti andavano attorno, rivenditori e rivenditrici pubblicamente gli vendevano, con fiori e con serti gli eleganti loro cestellini adornando: strano spettacolo in mezzo a quei volti pallidi, scarni e moribondi. Tanto possente cosa è l'immaginazione dell'uomo, che si compiace in abbellire eziandio quanto havvi di più lagrimevole e di più terribile; rimedio di provvidenza che non ci vuol disperati. Basta: e' furon viste donne e gentil donne nutritesi con sorci la mattina, mangiarsi tregge delicate la sera. L'aspetto della miseria estrema non ispegne la malvagità in chi è malvagio; del che troppo manifesto e troppo orribile esempio si ebbe in quelle ultime strette di Genova; conciossiachè uomini privi di ogni senso di umanità, per un vile guadagno non abborrirono dal mescolar gessi in luogo di farine nei commestibili che vendevano, per modo che non pochi avventori ne restarono avvelenati, morendosene con dolori mescolati di fame, e di veleno.

Durante l'assedio, ma prima della fine ultima, una libbra di riso si pagava lire sette, una di vitello quattro, una di cavallo soldi trentadue, una di farina lire dieci, o dodici, le uova lire quattordici la serqua, la crusca, soldi trenta ciascuna libbra. Poi venendo maggiore la stretta, una fava si vendeva due soldi, un pane biscotto di once tre dodici franchi, e non se ne trovava. Maggiori agevolezze dei particolari non vollero Massena, nè gli altri generali: apparecchiavano come i plebei; lodevole fatto, e molto efficace a fare star forti gli altri a tanta sventura. Poco cacio, legumi rari erano quanto nutrimento si dava a chi languiva per malattie o per ferite negli ospedali. Uomini e donne tormentate dalle ultime angoscie della fame e della disperazione, empievano l'aria dei loro gemiti e delle loro strida. Talvolta così gridando, e le fameliche viscere con le rabbiose mani di lacerare tentando, morti per le contrade cadevano. Nissuno gli ajutava, perchè ognuno pensava a se: nissuno anche a loro abbadava, perchè la frequenza aveva tolto orrore al fatto. Pure alcuni fra gli spasimi e stridi spaventevoli, e con scosse e contorte membra davano l'ultimo sospiro in mezzo alle popolari folle. Fanciulli abbandonati da parenti morti, o da parenti disperati imploravano con atti, con pianti, e con voci miserabili la pietà di chi passava. Nissuno gli ajutava, ed aveva loro compassione, perchè il dolore proprio aveva spento il compassionare l'altrui. Razzolavano quell'innocenti creature bramosamente nei rivoletti delle contrade, nelle fogne, negli sfoghi de' lavatoj, per vedere se qualche rimasuglio di bestia morta, o qualche avanzo di pasto di bestia vi si trovasse, e trovatone, se gli mangiavano. Spesso chi si corcava vivo la sera, era trovato morto la mattina, i fanciulli più frequentemente degli attempati. Accusavano i padri la tarda morte, ed alcuni con le proprie mani violentemente se la davano. Ciò facevano i cittadini, ciò facevano i soldati. Dei Francesi alcuni, anteponendo la morte alla fame, da per se stessi si ammazzavano, altri le armi a terra sdegnosamente gettavano protestando non più esser abili, per la perduta forza, a portarle. Altri una disperata dimora abbandonando, nel nemico campo se ne andavano, Inglesi ed Austriaci di quella pietà, e di quei cibi richiedendo, che tra Francesi e Genovesi più non ritrovavano. Crudo poi, ed oltre ogni dire orribile spettacolo era quello dei prigionieri di guerra Tedeschi ditenuti su certe barcacce sorte nel porto; perchè la necessità ultima delle cose aveva operato che ad essi nutrimento di sorte alcuna già da alcuni giorni non si compartisse. Mangiarono le scarpe loro, mangiarono le pelli dei soldateschi zaini; già con occhi torvi guardavano, se non avessero a mangiarsi i loro compagni. Si venne a tale che si tolsero loro le guardie Francesi, perchè si temette, che sforzati dal famelico furore non si avventassero contro a loro, e sbranatele, non se le divorassero. Tanta era la disperazion loro, che tentarono di forar le barche per andar a fondo, amando meglio perire affogati dalle acque, che straziati dalla fame. S'aggiunse, come accadde, alla orrenda fame la mortalità pestilenziale. Febbri pessime le genti all'altra vita con morti spessissime si portavano sì negli ospedali del pubblico, sì negli ultimi casolari dei poveri, e sì nei superbi palazzi dei ricchi. Mescolavansi sotto il medesimo tetto i generi delle morti: chi moriva arrabbiato dalla fame, chi stupido dalla febbre, chi pallido per difetto di nutritiva sostanza, chi livido per petecchiali macchie. Niuna cosa esente da dolore, niuna da paura; chi viveva, o aspettava la morte o vedeva morire i suoi. Tal era lo stato della una volta ricca ed allegra Genova, del quale il pensier peggiore era questo, che il soffrir presente non poteva riuscire ad alcun utile suo nè per la libertà, nè per l'independenza.

Era rotta la costanza di tutti: solo Massena non si piegava, perchè aveva la mente fissa nel pensiero di ajutar l'impresa del consolo, e di serbare intatta la fama acquistata di guerriero indomabile. Infine venendogli onorevoli proposte da Keit, e non potendo più bastare quei sozzi e velenosi cibi, che per due giorni tanta era l'estremità del vivere, inclinava l'animo ad un accordo, ma più da vincitore che da vinto. Si accordarono (volle Massena, che l'accordo s'intitolasse convenzione, non capitolazione, e fu forza compiacerlo della sua domanda) che uscisse Massena, che uscissero i suoi uffiziali e soldati in numero circa di ottomila, liberi della fede e delle persone loro; per la via di terra potessero ritornare in Francia, e chi non potesse per terra, fosse trasportato dagl'Inglesi per mare ad Antibo, o nel golfo di Juan; i prigionieri Tedeschi si restituissero; nissuno potesse essere riconosciuto pei fatti passati, e chi se ne volesse andare, fosse in libertà di farlo; dessersi viveri, si avesse cura degl'infermi; Genova a dì quattro giugno si consegnasse alle forze Austriache ed Inglesi. Infatti il nominato giorno le prime occuparono la porta della Lanterna, le seconde la bocca del porto. Poi entravano trionfando con tutto l'esercito Otto, con tutta l'armata Keit, possessione ottenuta per lunga guerra, poi fatta breve per grossa guerra. I democrati più vivi se ne andarono coi Francesi, fra gli altri Morando, l'abate Cuneo, l'avvocato Lombardi, i fratelli Boccardi. Suonaronsi le campane a festa, cantaronsi gl'inni, accesersi i fuochi dei partigiani per amore, più ancora dagli avversi per paura, tutto secondo il solito. Ricomparvero in copia il pane, le carni, gli ortaggi, le grasce, e chi vi si abbandonò senza freno su quel primo fervor della fame, se ne morì: così chi non era morto per lunga inanizione, se ne moriva per improvvisa satolla. Vollero i trecconi e i rivenduglioli starsene sul tirato pei prezzi, a cagione dell'ingordigia del guadagno; ma il popolo infuriato diè loro una tal mano, che presto s'accorsero, che male si stimola la fame. Pruovaronsi i villani dell'Azzeretto a porsi in sul sacco contro i democrati, come dicevano, perchè saccheggiavano anche gli aristocrati; ma Hohenzollern posto a guardia della città da Otto, con militare imperio gli frenava. Creava il capitano Tedesco una reggenza imperiale e reale, a cui chiamava Pietro Paolo Celesia, Carlo Cambiaso, Agostino Spinola, Gian Bernardo Pallavicini, Gerolamo Durazzo, Francesco Spinola di Gian Battista, e Luigi Lambruschini. Frenava la reggenza le vendette prossime a prorompere, comandamento lodevole; veniva sul toccar le borse, comandamento inevitabile, ma crudele nella misera Genova. Del rimanente nissun cenno, nè da parte di Hohenzollern, nè da quella di Melas per l'independenza, nè per la rinstaurazione dell'antico governo; il che dava qualche sospetto. Ciò non ostante gli aristocrati gridavano viva l'imperatore per odio contro i democrati, siccome i democrati avevano gridato viva Francia per odio contro gli aristocrati; servi, ciechi e pazzi gli uni e gli altri, che non vedevano, che dai loro odj privati nasceva la ruina della patria, e la signorìa forestiera.

LIBRO VIGESIMO

SOMMARIO

Il consolo passa con ordine mirabile il gran San Bernardo, vince a Marengo, l'Italia superiore in suo potere. Governi provvisorj del Piemonte, di Genova e di Milano. Conclave in Venezia: assunzione del cardinal Chiaramonti al pontificato, e sua rinstaurazione in Roma. Arti di Buonaparte con lui. Malta presa dagl'Inglesi. Moti di Toscana. Nuova guerra tra Austria e Francia. Battaglia del Mincio tra Bellegarde e Brune, ritirata del primo. Passaggio del monte della Spluga eseguito con mirabile coraggio ed arte da Macdonald. Nuovi successi prosperi dei Francesi. Pace con Napoli, Austria e Spagna. Tutto il mondo, salvo l'Inghilterra, in concordia con Francia.

Buonaparte intanto, cambiatore di sorti, si avvicinava, l'imperio d'Austria in Italia inclinava al suo fine. Aveva il consolo con maravigliosa celerità ed arte adunato il suo esercito di riserva in Digione, donde accennava ugualmente al Reno ed all'Italia. Ma avendo Moreau combattuto prosperamente in Germania contro Kray, gli fu fatto abilità di condursi su quei campi, in cui tuttavia vivevano i segni e le memorie delle sue fresche vittorie; cosa, che gli era cagione di somma incitazione, perchè la gloria lo stimolava, ed era sicuro di trovarvi forti aderenze. Adunque mentre lo sconsigliato Melas se ne stava martirizzandosi contro le sterili rocche dell'estrema Liguria, si avvicinava Buonaparte alle Alpi, tutto intento alle fazioni d'Italia. Varj, molti, e potenti modi aveva di condurre a prospero fine la sua impresa: soldati prontissimi a volere qualunque cosa egli volesse, generali esperti e valorosi, artiglierìe formidabili, cavallerìa sufficiente. Aveva apprestato per pascere i soldati sull'erme solitudini delle Alpi, biscotto in grande abbondanza, e per tirar su e giù secondo i casi le artiglierìe per quei sentieri rotti, stretti, ed ingombri di nevi e di ghiacci, certi carretti a modo dei traini sdrucciolevoli, che si usano in quei paesi per scendere dai nevosi gioghi. Nè questo fu il solo trovato di Buonaparte e di Marmont, che soprantendeva alle artiglierìe, per facilitar loro il passo per luoghi fino allora alle medesime inaccessi, perchè scavarono, a guisa di truogoli, tronchi di alberi grossissimi a fine di potervele posar dentro, come in un letto proprio, e per tal modo trasportarle a dorso di muli a traverso le montagne. Denaro sufficiente aveva rammassato per le necessità de' suoi fin oltre l'Alpi; poi si confidava nell'Italia. Per muovere le opinioni degl'Italiani aveva chiamato a se la legione Italiana capitanata da un Lecchi, la quale fuggendo il furore Tedesco per le rotte di Scherer, si era riparata in Francia, bella e buona gente. Per conoscere poi i luoghi, conduceva con se gl'Italiani, che più ne erano pratichi, e siccome l'intento suo era di varcare il gran San Bernardo, così si consigliava specialmente con un Pavetti di Romano in Canavese, giovane di natura molto generosa, e che camminava con molto affetto in queste bisogne della libertà.

Rammentava quindi il consolo, essendo gran maestro dell'allettare, che tornava in Italia per fondare in Cisalpina una regolata libertà, dar la pace a Napoli ed a Toscana, ristorar la religione, proteggere i preti, rimettere sul debito seggio il pontefice di Roma. A tutti poi parlava di pace, di umanità, di fin di mali, di un secolo che doveva incominciare a salute ed a felicità d'uomini. Passò per Ginevra: mostrovvisi tanto mansueto, e disposto a voler ridur le cose a forme buone e consentanee alle antiche, che gli aristocrati Ginevrini presi alle dolci parole, pigliarono animo a favellar dell'independenza, e della restituzione dell'antico stato, essendo a quel tempo Ginevra unita a Francia, e parte di lei; ma la cosa non allignò; che anzi rispose loro per forma che s'accorsero che se amava prendere, amava anche serbare. Poi tornò sulle mansuetudini, e che sarebbe contento morire, purchè la pace vedesse. Appariva sì mogio, sì pallido e sì macilento, che pareva a tutti, che stracco il corpo e l'animo per tante sue fatiche a pro di Francia e d'Europa, dovesse far tosto pace, se pure la voleva vedere. Poi lusinghevolmente procedendo, domandava di Saussure, di Bonnet, di Senebier; tacque di Rousseau. Disse, voler rimettere in onore le scienze e le lettere calpestate dalla guerra. Maravigliavansi i Ginevrini, vedendo tanto amore di dottrine pacifiche in un soldato, perchè non penetravano l'umore, nè si accorgevano, ch'egli, siccome quegli che voleva far andar il secolo a ritroso, il voleva secondare, finchè ne fosse padrone.

Grande e magnifico era il disegno di Buonaparte per riconquistar l'Italia. Suo proponimento era di varcare col grosso dell'esercito il gran San Bernardo col fine di calarsi per la valle di Aosta nelle pianure Piemontesi. Ma perchè altre genti con questa parte consuonassero, e giunte al piano potessero e muovere i popoli a romore contro l'Austria, e congiungersi con lui a qualche importante fatto, aveva ordinato che il generale Thureau dalla Morienna e dall'alto Delfinato, pei passi dei monti Cenisio e Ginevra, con una squadra di tre in quattromila soldati si calasse a Susa, e più oltre anche, secondo le opportunità, procedesse per dar timore al nemico intorno alla sicurezza di Torino, e per ajutare lo sforzo, ch'egli intendeva di fare sulle sponde della Dora Baltea. Al tempo medesimo comandava al generale Moncey, che pel San Gottardo scendesse a Bellinzona con un'eletta schiera di circa dodicimila soldati, col pensiero di mettere a romore i paesi, che nelle parti superiori al piano di Lombardia si comprendono fra il Ticino e l'Adda. Parendogli altresì, che fosse necessario di turbar le contrade fra il Ticino e la Sesia, imponeva al generale Bethancourt, che facesse opera di varcare il Sempione, e di precipitarsi per Domodossola sulle sponde del lago Maggiore là dove, restringendosi, apre di nuovo l'adito alle acque correnti del Ticino. Siccome poi non ignorava quante e quali difficoltà ostassero al passo di un grosso esercito pel gran San Bernardo, commetteva ad un corpo di circa cinquemila soldati, che passasse il piccolo San Bernardo, ed andasse a raccostarsi col grosso nella valle di Aosta. Tutte le raccontate genti insieme unite sommavano circa a sessantamila combattenti. Così il consolo tutta la regione dell'Alpi abbracciando, che si distende dal San Gottardo al monte Ginevra, minacciava invasione al sottoposto plano del Piemonte e della Lombardia. Dall'altra parte sperava che Massena, tenendo fortemente Genova, e Suchet la riviera, avrebbero trattenuto Melas, finchè egli potesse arrivare a combatterlo sui fianchi ed alle spalle. Magnifica, come abbiamo detto, e maravigliosa opera fu questa del consolo, ma che gli poteva venire rotta con grande precipizio, se Moreau avesse combattuto infelicemente sul Reno, o se Melas più accorto, o più attivo, o meglio informato fosse stato.

Lusingati con discorsi di umanità, di pace, e di civiltà quei Ginevrini tanto ingentiliti, se ne giva il consolo alla stupenda guerra. Erano le genti già adunate tutte a Martigny di Vallese sul Rodano, terra posta alle falde estreme del San Bernardo. Guardavano con maraviglia, e con desiderio quelle alte cime. Diceva loro Berthier, quartiermastro: «Vincono i soldati Renani gloriose battaglie: contrastano gl'Italici con valore estremo ad un nemico sopravanzante di numero. Accendetevi, e riconquistate, emolandogli, oltre l'Alpi, quelle terre già testimonie del Francese valore. Soldati nuovi, ecco che suona il segno delle battaglie: ite, e pareggiate i veterani tante volte vincitori: da essi imparate a sofferire, da essi a superare le fatiche inseparabili della guerra. Vi segga sempre in mente questo pensiero, che solo col valore, solo colla disciplina si vincono le guerre. Soldati, Buonaparte è con voi; vien'egli a vedere i nuovi trionfi vostri: a Buonaparte pruovate, che siete sempre quegli uomini valorosi, che condotti da lui sì famoso nome e sì luminosa gloria acquistaste. La Francia, e la umanità di pace vi richieggono: voi pace alla Francia ed alla umanità con le forti destre date».

Questo parlare infinitamente infiammava quegli animi già da per se stessi tanto incitati e valorosi. Partivano il dì diciasette maggio da Martigny per andarne a conquistar l'Italia. Maraviglioso l'ardore loro, maravigliosa l'allegria, maraviglioso ancora il moto ed il fervore delle opere. Casse, cassoni, truogoli, obici, cannoni, carretti ruotati, carretti sdrucciolevoli, carrette, lettiche, cavalli, muli, bardature, arcioni, basti da bagaglie, basti da artiglierìe, impedimenti di ogni sorte, e fra tutto questo soldati affaticantisi, ed ufficiali affaticantisi al par dei soldati. S'aggiungevano le risa e le canzoni: i motti, gli scherzi, le piacevolezze alla Francese erano quelle poche, e gli Austriaci ne toccavano delle buone. Non a guerra terribile, ma a festa, non a casi dubbi, ma a vittoria certa, pareva che andassero. Il romore si propagava da ogni banda: quei luoghi ermi, solitari e da tanti secoli muti, risuonavano insolitamente e ad un tratto per voci liete e guerriere. L'esercito strano e stranamente provvisto, al malagevole viaggio saliva per l'erta alla volta di San Pietro fin dove giunge la strada carreggiabile. Pure spesso erte ripidissime, forre sassose, capi di valli sdrucciolenti si appresentavano; i carri, i carretti, le carrette pericolavano. Accorrevano presti i soldati a braccia, sostenevano, puntellavano, traevano, e più si affaticavano, e più mettevano fuori motti, facezie e concetti, parte arguti, parte graziosi, parte frizzanti: così passavano il tempo e la fatica. I tardi Vallesani, che erano accorsi in folla dalle case, o piuttosto dai tuguri e dalle tane loro, vedendo gente sì affaticata e sì allegra non sapevano darsi pace; pareva loro cosa dell'altro mondo. Inviolati, e pagati per ajuto, il facevano volentieri. Ma più bisogna faceva un Francese, che tre Vallesani. Le parole e i motti, che i soldati dicevano a quella buona gente per la tardità delle opere e per le fogge del vestire, io non gli voglio dire. Così arrivavano i repubblicani a San Pietro, Lannes colla sua schiera il primo, siccome quello che per l'incredibile ardimento il consolo sempre mandava, lui non solo volente, ma anche domandante, alle imprese più rischievoli e più pericolose. Quivi si era arrivato ad un luogo, in cui pareva che la natura molto più potesse che l'arte od il coraggio; perciocchè da San Pietro alla cima del gran San Bernardo, dove è fondato l'eremo dei religiosi a salute dei viaggiatori in quei luoghi d'eternale inverno, non si apre più strada alcuna battuta. Solo si vedono sentieri stretti e pieghevoli, su per monti scoscesi ed erti. Rifulse la pertinacia del volere e la potenza dell'umano ingegno. Quanto si rotolava, fu posto ad essere tirato, quanto si tirava ad essere portato. Posersi le artiglierìe grosse nei truogoli, i truogoli sugli sdruccioli, e dei soldati, chi tirava, chi puntellava, chi spingeva: le minute sui robusti e pratichi muli si caricarono. Così, se Jan Jacopo Triulzi montò, e calò con grosse funi di roccia in roccia per le barricate nella stagione più rigida dell'anno le artiglierìe di Francesco primo, tirò Buonaparte quelle della repubblica sui carri sdrucciolevoli, e sulle bestie raunate a quest'intento. Seguitavano le salmerie al medesimo modo tirate e portate. Era una tratta immensa: in quelle volte di ripidi sentieri ora apparivano, ora scomparivano le genti: chi era pervenuto all'alto, vedeva i compagni in fondo, e con le rallegratrici voci gl'incoraggiava. Questi rispondevano, ed al difficile cammino s'incitavano. Tutte le valli all'intorno risuonavano. Fra le nevi, fra le nebbie, fra le nubi apparivano le armi risplendenti, apparivano gli abiti coloriti dei soldati; quel miscuglio di natura morta e di natura viva era spettacolo mirabile. Godeva il consolo, che vedeva andar le cose a seconda de' suoi pensieri, e soldatescamente parlando a questo ed a quello, che in ciò aveva un'arte eccellente, gl'induceva a star forti, ed a trovar facile quello, che era giudicato impossibile. Già s'avvicinavano al sommo giogo, ed incominciavano a scorgere l'adito, che in mezzo a due monti altissimi aprendosi, dà il varco verso la più sublime cima. Salutaronlo, qual fine delle fatiche loro, con giojose voci i soldati, e con isforzi maggiori intendevano al salire. Voleva il consolo che riposassero alquanto: Di cotesto non vi caglia, rispondevano, badate a salir voi, e lasciate fare a noi. Stanchi, facevano dar nei tamburi, ed al militare suono si rinfrancavano, e si rianimavano. Infine guadagnarono la cima, dove non così tosto furono giunti, che l'uno con l'altro si rallegrarono, come di compiuta vittoria. Accrebbe l'allegrezza il vedere mense appresso all'eremo rusticamente imbandite per opera dei religiosi, provvidenza del consolo, che aveva loro mandato denari all'uopo. Ebbero vino, pane, cacio; riposaronsi fra cannoni e bagaglie sparse, fra ghiacci e nevi agglomerate. I religiosi s'aggiravano fra i soldati con volti dipinti di sedata allegrezza: bontà con forza su quel supremo monte s'accoppiava. Parlò Buonaparte ai religiosi della pietà loro, di voler dare il seggio al papa, quiete e sostanze ai preti, autorità alla religione: parlò di se e dei re modestamente, della pace bramosamente. I romiti buoni, che non avevano nè cognizione, nè uso, nè modo, nè necessità dell'infingere, gli credevano ogni cosa. Quanto a lui, se tratto da quell'aria, da quella quiete, da quella solitudine, da quella scena insolita, si lasciasse, mutandosi, piegare a voler fare per affezione quello che faceva per disegno, io non lo so, nè m'ardirei giudicare; perchè da un lato efficacissima era certamente l'influenza di quella pietà, e di quei monti, dall'altro tenacissima incredibilmente, e sprezzatrice dell'umane cose la natura di lui. Fermossi a riposare nel benigno ospizio un'ora.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
25 haziran 2017
Hacim:
340 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain

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