Kitabı oku: «La famiglia Bonifazio; racconto», sayfa 15
– Intanto per adesso ci vuol pazienza, le rispondeva Metilde, in seguito si vedrà, la campagna farà bene anche a Silvio…
– Che cosa ti sogni? essa riprendeva, l'aria di Venezia non lascia nulla a desiderare; cosa pensi? di sacrificarti per una chimera, di seppellirti in un deserto, in mezzo a quei boschi, fra gente rozza, alla tua età, colla tua educazione?!..
– Bisogna andarci per la disgrazia della nonna, e per la malattia di mio suocero…
– Lascia che ci vada lui, tuo marito, tu già non sei in caso nè di assistere gl'infermi, nè di resuscitare i morti!..
– Oh mamma! Silvio è ancora ammalato, vuoi che lo lasci solo!
– Ma, creatura mia, egli non ha bisogno di nessuno per guarire, il tuo sacrifizio mi pare affatto inutile. Adesso poi che ti sei fatta quel bel vestito di lutto, vuoi andarlo a sfoggiare fra i contadini?.. non valeva la pena di sceglierlo con tanto buon gusto. Che tuo marito vada pure a trovare suo padre, lo trovo giusto, e che ritorni quando vorrà. Se suo padre starà meglio, tu non sei in dovere di andargli a far visita; se per sua disgrazia dovesse morire, io non posso permettere che un nuovo dolore ti riapra una piaga recente, con gravissimo pericolo per la tua salute.
– Ma io gli ho promesso d'accompagnarlo, ed è tanto contento!..
– Gli farai osservare che io non approvo la tua promessa, che la tua salute esige dei riguardi, che in seguito, se starai meglio… si vedrà.
– Ma io sto benissimo…
– Che importa!.. gli dirai che ti senti male… gli uomini credono tutto… oh, non ti fa spavento quella vita noiosa, al letto d'un malato bisbetico, senza una distrazione nè uno svago, in quella perpetua solitudine?!..
Ma nessun argomento poteva persuaderla a rimanere, perchè oltre all'affetto del marito, e al sentimento del dovere, un altro motivo imperioso la spingeva alla partenza. Essa pensava a Maria che le pareva pericolosa, disprezzava Andrea, non ignorava il primo amore di Silvio, e non era disposta di abbandonarlo al pericolo, per non esporsi al rimorso di non averlo preveduto.
Partì dunque insieme al marito, malgrado il malcontento e la disapprovazione della madre, che fino all'ultimo momento la scongiurava a non abbandonarla.
E accompagnando alla stazione il genero e la figlia, mandava i suoi saluti e quelli di suo marito al caro signor Gervasio, e a tutta la famiglia, cogli auguri d'una perfetta guarigione, e le più calde raccomandazioni d'un pronto ritorno.
XVIII
Durante il viaggio in ferrovia Silvio guardava fuori dal finestrino del carrozzone il fumo nero della vaporiera che scendeva sui campi e si disperdeva nell'aria, e aspirava con voluttà i sentori della campagna che gli facevano bene. Era la fine d'agosto, dei nuvoloni bianchi correvano nell'azzurro del cielo. I grappoli d'uva cominciavano a rosseggiare sui tralci, il sole d'estate aveva tinto le foglie di vari colori, il granoturco mostrava le pannocchie colle barbe mature, le quaglie cantavano nella saggina, i pettirossi e le cingallegre nelle siepi, le rane gracidavano nei fossi. Tutte quelle piante, e quelle voci, rammentavano a Silvio la sua prima gioventù, il tempo felice delle vacanze, quando correva pei campi in compagnia della cugina. Come erano cambiate le cose col corso degli anni!..
Metilde pensierosa teneva gli occhi abbassati sul ventaglio chiuso nella destra, e batteva le stecche colle dita della sinistra, come sulla tastiera del pianoforte. La gente che entrava ed usciva dalle diverse stazioni, i giardinetti dei guardiani, le carrozze che attendevano i viaggiatori non giungevano a distrarla dai suoi pensieri; la madre l'aveva tanto impaurita sulla vita che la attendeva, che ne presentiva tutte le tristezze, e rimpiangeva la sua Venezia.
Immersa nelle cupe meditazioni, passò senza avvedersene dalle stazioni di Mestre, Mogliano, Preganziol, ma quando il treno correva in fianco ai laghetti formati dalle curve del Sile, fra le canne palustri, e vide apparire la chiesa di San Nicolò di Treviso, come uno spettro severo e grandioso davanti le casupole che lo circondano, sentì una stretta al cuore che le annunziava l'arrivo. Alla stazione trovarono il legno che li aspettava. Fecero caricare il loro bagaglio, e domandarono subito a Pasquale le notizie del malato.
– Sempre lo stesso! – rispose il cocchiere, e queste parole suonarono all'orecchio della signora, come la condanna d'un lungo martirio.
Silvio accarezzò il collo di Falcone, che mostrò di riconoscerlo, e partirono subito per la villa.
Quando entrarono nel parco, Argo che stava sdraiato sulla porta di casa, balzò in piedi, ed annunziò il loro arrivo coi soliti abbaiamenti.
Comparve subito Maria che si gettò piangendo nelle braccia di Metilde, la quale corrispose colle sue lagrime a quelle della cugina. Scambiarono dolenti condoglianze sulla povera nonna, sulla bimba tanto desiderata, e tutti insieme si recarono direttamente al letto di papà Gervasio.
Parve che un raggio di sole entrasse nella camera alla vista del figlio.
Si abbracciarono teneramente piangendo, a ciascheduno mancava la parola, le strette di mano supplivano alla voce, nell'espansione di quegli affetti domestici.
Dopo tanto tempo che non si erano veduti, tutti avevano sofferto, tutti avevano bisogno di aprire il cuore riboccante di dolori e di lutto. Sedettero intorno al letto, il figlio accarezzava la mano del padre, Maria raccontava singhiozzando gli ultimi momenti della povera nonna, che si era spenta senza sofferenze apparenti, come tutte le anime buone, che dopo una vita laboriosa e faticata, si addormentano dolcemente nel sonno eterno.
Metilde si asciugava le lagrime col fazzoletto listato di nero che esalava un odore soave, e colla coda dell'occhio esaminava i vestiti di Maria, che non le parevano ammodo. Si vedeva che aveva scelto il più oscuro dei suoi abiti, e portava annodato al collo un fazzoletto di seta nera.
La seta nei primi mesi del lutto!.. – pareva una cosa scandalosa agli occhi di Metilde, ligia alla prammatica che non ammette che la lana ed il crespo.
Quando Metilde si trovò sola col marito, gli segnalò subito quella vergogna.
Silvio con faccia da scimunito non capiva niente, non poteva penetrarsi della gravità di quello scandalo, e le rispose in aria sprezzante che la sua osservazione era una vera sciocchezza.
Metilde lo guardò con sorpresa, non insistette; era perfettamente convinta che suo marito avrebbe sempre approvati tutti gli errori della cugina, diventando anche impertinente; quella indulgenza non aveva limiti, e lo rendeva cieco.
Papà Gervasio, passato il primo momento di soddisfazione, che pareva avergli giovato, ricadde subito in profondo abbattimento. Il medico non dissimulava il lento, ma inesorabile progresso del male.
L'inappetenza completa rendeva difficilissima la conservazione delle forze che andavano scemando. Maria si scervellava nella ricerca di tutti gli artifizi possibili per ammannirgli qualche cibo che non ripugnasse al suo stomaco delicato. Faceva dei brodi ristretti dorati, trasparenti, delle gelatine che mettevano appetito al solo vederle.
Anche Silvio dopo la malattia era macilento, aveva il viso smunto, affilato, si sentiva molto debole.
– Mangia della carne, gli diceva Metilde, se vuoi riprender le forze.
Maria non era di questa opinione.
– I convalescenti, essa osservava, digeriscono male, bisogna sostenerli con cibi sostanziosi, ma leggieri, – e gli apparecchiava dei tuorli d'uova sbattuti nel Marsala; gli dava di quelle gelatine e di quei brodi che apparecchiava per papà Gervasio.
Quando Silvio cominciò a sentire appetito, Maria lo teneva a stecchetto, non lo lasciava mai mangiare il suo bisogno. Gli apparecchiava delle cervelline fritte, in agro-dolce, e delle salse piccanti che gli facilitavano la digestione. Lo teneva corto di pane, gli mescea dell'acqua nel vino, malgrado la sua opposizione, portava via il formaggio dalla tavola, ad onta dei suoi spergiuri.
Metilde trovava quelle attenzioni esagerate e ridicole, li canzonava tutti due; diceva ch'egli simulava le smorfie del bambino per farsi medicare dalla dottoressa di cucina.
Una febbriciattola insidiosa continuava a minare la vita del povero papà Gervasio, il suo ventre si gonfiava, aveva la pelle e le mani secche, era angustiato da una sete continua, e la nausea gli rendeva odioso anche il brodo migliore. Maria gli faceva gustare delle conserve di frutta, delle gelatine profumate di ribes e lampone, trasparenti come il cristallo; teneva sempre pronte delle spremute di limone e di arancio, apparecchiava del latte d'amandorle, e di semi di popone.
Silvio mostrava desiderio di aver la sua parte, ma essa lo persuadeva che per lui non erano opportune, e gli faceva bere di preferenza qualche bicchierino di vino vecchio.
Metilde osservava tutto in silenzio, lavorando all'uncinetto. Quel lavoro quasi meccanico permette alla donna di raccogliere i suoi pensieri, di discuterli tacitamente, senza distrazione, rimuginando nel cervello i più minuti particolari della vita.
Quella casa era ben cambiata dal primo tempo del suo matrimonio, quando essa regnava con potere assoluto sull'animo di tutti i parenti che andavano a gara per compiacerla, e nel farle omaggio. I più vaghi fiori, e le migliori frutta del giardino erano per lei. Alla colazione ed al pranzo essa trovava ogni giorno davanti il suo piatto un vasetto snello di vetro opalino di Murano colle più belle rose sbocciate al mattino, di tutte le varietà, d'ogni gradazione di colore dalla porpora al carminio, dal giallo d'oro al candido perfetto. Ce n'erano d'orlate, di variegate, di punteggiate, di vellutate e di lucenti come il raso. Formavano l'orgoglio di papà Gervasio, ed erano la sua offerta giornaliera.
In quel tempo felice Silvio la adorava, le usava le più delicate attenzioni, le procurava ogni distrazione possibile, il passeggio, le gite in carrozza o in ferrovia nei paesi vicini. La povera nonna temeva sempre che le mancasse qualche cosa, le offriva tutto quello che poteva farle piacere, si affaticava per servirle ogni giorno un pranzetto appetitoso. Gli amici di casa venivano a farle visita, tutti i domestici erano occupati per lei, eppure trovava la campagna noiosa. Immaginarsi adesso!..
Adesso tutto era tristezza, l'ombra della morte era passata sulla casa.
Il pianterreno era silenzioso e deserto, il primo piano attristato dalla malattia; alla gaie vesti di sposa era succeduto il bruno del lutto, ai piaceri svariati la vita monotona, alla primavera l'autunno, all'amore ridente il truce fantasma della gelosia.
Il medico veniva due volte al giorno, e partiva colla testa bassa; il parroco si presentava alla porta per vedere se era venuto il momento anche per lui; un'aria di profonda malinconia dominava la casa, tutti portavano sul volto le traccie delle perdite recenti, e l'apprensione dell'avvenire. Perfino i canarini mutavano le penne, e non cantavano più. Il solo indifferente a tutto quel cambiamento di scena era Mumut, il vecchio gatto di casa, il quale continuava impassibile a presentarsi al balcone della cucina all'ora consueta, e nella beata aspettativa del pasto schiacciava un sonnellino, e faceva le fusa. Tutto il resto pareva colpito d'una immobilità spaventosa. La statua in gesso di Napoleone, colle braccia incrociate sul petto, era coperta dalla polvere degli anni e dell'abbandono, e guardava sempre ad un punto fisso.
I ritratti dei generali imitavano il loro imperatore; le battaglie appese ai muri, coi loro morti e i feriti, e i reggimenti all'attacco, aspettavano invano la ritirata o la vittoria.
Metilde passeggiava lentamente, osservando ogni cosa, e passava da una stanza all'altra, mandando dei lunghi sospiri.
Sua madre le scriveva due volte per settimana i pettegolezzi di Venezia, che le davano la nostalgia, i cambiamenti di moda, gli arrivi e le partenze degli amici, e le annunziava gli spettacoli che si promettevano per il prossimo inverno, i teatri e i piaceri del carnevale, e sperava che finito l'autunno Metilde sarebbe alfine ritornata a goderne la sua parte.
Ma la giovane donna subiva gli effetti dell'ambiente malinconico, tutte quelle promesse le parevano vane, cose dell'altro mondo; oramai tutto le sembrava finito, si vedeva sepolta viva chi sa per quanto tempo, forse non avrebbe mai più veduta la sua Venezia, e a questo pensiero una lagrima le sgorgava dal ciglio, e si affrettava a nasconderla per non essere obbligata a render conto a nessuno de' suoi pensieri, e della sua profonda tristezza.
Quando una famiglia attraversa un'epoca nefasta; se vi sono in casa dei bricconi, sanno cavar partito dalle disgrazie a loro vantaggio.
Andrea aveva saputo in paese che Pasquale comperava degli animali bovini, e li dava a mezzadria nelle stalle vicine. Con un modico salario questi risparmi non erano possibili. Maria si era già avveduta dei prezzi esagerati d'ogni cosa che il domestico era incaricato di comperare, ma non aveva il tempo di controllare le sue spese, e poi anche questo genere di furto non poteva bastare ai suoi dispendi.
Ci dovevano essere degli altri abusi, ma non era facile scoprirli.
Andrea lo sorvegliava attentamente, lo seguiva dovunque, teneva le chiavi di tutto. Pasquale che si sentiva sorvegliato, odiava l'intruso, si rifiutava di riconoscerlo per padrone, non si credeva obbligato di eseguire i suoi ordini, lo guardava con occhio sprezzante e sdegnoso, e cercava ogni occasione per denigrarlo.
E per disgrazia queste occasioni non mancavano. Trovandosi in possesso delle chiavi della cantina, Andrea si credette in obbligo di osservare se i vini si guastavano nelle botti o nelle bottiglie. Cominciò con degli assaggi prudenti, ma un poco alla volta prese l'abitudine di fare delle bevute solenni. Egli aveva ereditato dal nonno Pigna la natura propensa al vino, e si sentiva le migliori disposizioni per imitarlo e superarlo, non gli mancava che l'occasione favorevole per sviluppare il suo talento.
Questa occasione gliela aveva apparecchiata bellissima papà Gervasio, il quale, vedendo che i prodotti della vite andavano sempre più declinando pel funesto influsso di molteplici malanni, aveva pensato di mettere in serbo ogni anno una parte del suo vino migliore, per assicurarsi il latte della vecchiaia. Sulle pareti della cantina, dietro alle botti, correvano dei palchi pieni di bottiglie, allineate come i soldati sul campo, colle relative etichette che indicavano gli anni. Era una seduzione irresistibile, un attraente invito agli studi comparativi sulla diversità dei prodotti di varie epoche. Andrea sturava una bottiglia che indicava dalla sua trasparenza la purezza del vino. Era un nèttare delizioso!.. gli anni avevano sviluppati gli aromi che salivano per le narici con esalazioni eccitanti. Quello dell'anno antecedente doveva essere ancora più profumato. Ne faceva la prova, e vedeva di aver ragione. Il più vecchio deve essere il migliore di tutti, e faceva un ultimo assaggio che era un nuovo trionfo!.. Egli usciva dalla cantina colle gambe mal sicure, cogli occhi brillanti, e lo sguardo ardito. Pareva che la vista delle battaglie di Napoleone lo animasse alla lotta, e guai a chi gli compariva davanti in quei momenti fatali.
Pasquale lo sfuggiva, dicendo che il vice-padrone aveva il vino cattivo, andava a rifugiarsi nel fienile; l'altro batteva a tutte le porte, entrava in scuderia, e finiva col cadere sullo strame, ove restava delle ore, immerso nel profondo letargo dell'ubbriachezza. Il cocchiere usciva prudentemente dal suo nascondiglio, andava a chiamare il figlio del padrone, e lo conduceva a vedere lo spettacolo del cugino sdraiato in terra come un maiale.
Silvio ne diede subito avviso a Maria che passata la sbornia fece una ramanzina al marito, il quale si giustificò mettendo in campo il sospetto che un certo vino prendesse lo spunto, egli volle subito assicurarsene e ne aveva assaggiato trovandosi a digiuno.
Un'altra volta il vino gli aveva fatto male, perchè prima di entrare in cantina aveva bevuto della birra. Ma continuando ad ubbriacarsi non seppe trovare altro pretesto che quello che il buon vino gli piaceva, e che non vedeva la ragione di privarsene. Divenne una brutta abitudine. Beveva anche all'osteria, e rientrava in casa barcollando, colla bocca storta dalla quale uscivano delle parolaccie villane, delle espressioni tronche minacciose. Metilde ne aveva paura, ed alla comparsa dell'ubbriaco fuggiva nella sua stanza, e si chiudeva dentro.
Un giorno esso entrò improvvisamente in cucina tutto traballante, e si mise a strepitare senza riguardi davanti ai cugini. Maria lo minacciò di togliergli le chiavi della cantina; egli le rispose con uno schiaffo. Silvio saltò al collo d'Andrea e voleva strozzarlo. Metilde urlava spaventata, dicendo che quelle erano baruffe da mascalzoni, che Silvio non aveva bisogno di farsi paladino di nessuna dama, che egli non doveva ingerirsi negli affari degli altri.
Silvio dichiarò che si stimava in dovere di difendere la cugina, questa singhiozzava convulsamente, e non voleva che Silvio battesse suo marito. Andrea barcollante voleva menare dei pugni, allora la zuffa si riaccese, e Silvio lo mise alla porta a furia di calci nel deretano.
In questo momento giunse il maestro Zecchini, che veniva, come al solito, a far compagnia all'ammalato. Sorpreso dallo spettacolo inaspettato, si gettò fra i combattenti, e giunse a separarli.
Quando tutti furono più calmi, egli disse:
– Non mi sorprendo che gli uomini si prendano a calci; li ho giudicati da un pezzo; questa è una manifestazione spontanea della loro natura asinesca… ma mi meraviglio che simili scene abbiano luogo in questa casa… e in questi momenti!..
Volle sentire le giustificazioni di ciascheduno, prima di pronunziare la sua sentenza, e poi soggiunse:
– Mi toccava vivere tanto lungamente da persuadermi che i nipoti sono simili agli avi, l'eredità del sangue è imprescrittibile. Tu Andrea sei un ubbriacone come tuo nonno; tu Silvio sei battagliero come l'avolo capitano, che ha ornato queste pareti colle battaglie del primo Napoleone; ma tuo nonno si batteva contro la cavalleria dei cosacchi, e tu ti batti con quell'asino vestito e calzato, indegno di questa casa, e di questa donna. Maria, perdonate all'ubbriacone, come Gesù Cristo ha perdonato a chi lo metteva in croce, dicendo: «egli non sa quello che fa!»
Per buona ventura papà Gervasio non aveva udito nulla di quel tafferuglio.
Il maestro Zecchini li scongiurò di vivere in buona armonia, di non tralignare dall'esempio di quella famiglia che era stata sempre un modello di probità e di buoni costumi.
– Almeno, egli aggiunge, state tranquilli fino alla finale catastrofe che vi attende, e che pur troppo non è molto lontana.
E infatti il male si aggravava, e la febbre sempre più forte consumava il malato. Maria era instancabile, gli somministrava esattamente i rimedi nelle ore prescritte, senza sgarare d'un minuto, gli risparmiava le più leggere emozioni, gli evitava il più piccolo rumore, girava intorno al letto in punta di piedi, sorvegliando attentamente i minimi cenni dell'infermo. Gli cambiava l'aria della stanza senza molestarlo con luce troppa abbagliante, gli asciugava il sudore della fronte, gli ravviava i capelli scomposti. Fino che conservò i sentimenti volle vedere ogni giorno gli alberi del parco; Maria gli metteva dei cuscini sotto la testa, ed apriva le finestre. Egli guardava cogli occhi languenti le foglie appassite dell'autunno, aspirava con avidità l'aria esterna che entrava a ondate odorose.
Maria gli portava dei fiori, le rose rifiorite, gli ultimi crisantemi, o le prime viole del pensiero seminate in agosto; egli mostrava piacere, e domandava conto degli animali e delle piante più care, fra le quali aveva passate le ore migliori della vita. Maria pensava a tutto e a tutti, con calma serena, senza confusione fra le molteplici brighe, con quel sorriso degli occhi che indicava la bontà e la pazienza, anche sul volto illanguidito dalle fatiche, anche coi lineamenti resi malinconici dalle amarezze e dai disinganni della vita.
Un giorno l'ammalato perdette la parola, ma parlava ancora cogli occhi, poi anche questi s'intorbidarono, si fecero vitrei, immobili e senza luce, le occhiaie divennero livide, i zigomi prominenti, la bocca pareva più grande, e cominciò il rantolo dell'agonia.
Metilde ne ebbe paura, e fuggì dalla camera per non più rimettervi il piede, Maria rimase ferma fino all'ultimo istante, umettando le labbra inaridite del moribondo, con una penna bagnata nel vino di Marsala, e accompagnando le sue preghiere a quelle del prete.
Silvio teneva nella sua mano quella del padre, e gli asciugava i sudori della morte. Quando spirò, gli chiuse gli occhi con una pezzuola ripiegata, e raccolse fra le braccia la cugina svenuta.
La portarono nella sua camera, ma quando ricuperò i sensi era tanto sfinita che dovette mettersi a letto.
La sua assenza di poche ore fu segnalata a tutti da qualche privazione.
Il fuoco della cucina rimase spento fino a tarda notte. Nessuno si sarebbe occupato del pranzo, se l'appetito non avesse deciso Pasquale ad approntare qualche cosa. C'era un po' di brodo, ma era insufficiente per tutti. Pasquale si bagnò una buona zuppa, poi aggiunse dell'acqua al brodo che avanzava e fece la minestra pei padroni. Si prese la parte migliore di tutto ciò che rinvenne in dispensa, e servì il resto sulla tavola della famiglia. Quel giorno Andrea si astenne dall'abuso del vino, e Pasquale diede fondo alle bottiglie quasi piene che rimasero sulla tavola. Si dimenticò di dare l'avena a Falcone e a Martino; i polli ed i colombi rientrarono al pollaio e in colombaia senza l'ultima porzione di becchime, e i conigli rimasero senza cena.
Argo coricato ai piedi del letto di Maria, la contemplava tristamente, di tratto in tratto alzava una zampa sul materasso richiamando la sua attenzione; essa gli faceva una carezza sulla testa, ed egli mandava un gemito. Andrea apportò in camera qualche cibo per sua moglie, che essa respinse con ripugnanza; il marito lo sporse al cane, che voltò la testa da un'altra parte, rifiutandosi di mangiare. Le fantesche di casa andavano e venivano dalle stanze, sbalordite, dimenticando i soliti uffizi.
Il maestro Zecchini fu pregato di occuparsi dei funerali. Egli spedì subito il triste annunzio mortuario ai parenti ed agli amici, e fece tutti i preparativi necessari. Il giorno delle esequie il parco fu invaso dalla folla, che aspettando il momento del trasporto, girava pei viali, ammirando il sito pittoresco, e ciarlando sotto voce. I reduci delle patrie battaglie erano accorsi colla loro bandiera per onorare il collega del Quarant'otto, l'esule del governo straniero; molte persone, beneficate tacitamente dal defunto, erano accorse spontaneamente al mortorio, per sentimento di gratitudine. Il maestro Zecchini aveva fatto apparecchiare la fossa del defunto presso quella de' suoi genitori. Il padre e il figlio, due valorosi campioni della indipendenza nazionale, riposano tranquillamente nel modesto cimitero del villaggio coll'unico onore che avevano ambito in compenso dei loro servigi, la presenza della bandiera nazionale sul loro sepolcro.
Il notaio si recò alla villa Bonifazio per la lettura del testamento.
Silvio e Maria, figli di due fratelli indivisi, erano gli eredi legittimi di tutta la sostanza, che verrebbe divisa fra loro in due parti eguali, prelevate alcune spese, e qualche piccolo legato di amicizia e beneficenza, fra i quali era ricordato il maestro Zecchini, come l'amico più antico e più devoto alla famiglia, e Andrea Pigna: e seguivano le clausole seguenti:
«Considerando che l'unico mio figlio Silvio, dedicato all'avvocatura non potrebbe dimorare alla villa:
«Considerando che mia nipote Maria ha quasi sempre vissuto nella casa paterna (meno i pochi mesi dopo il suo matrimonio) rendendosi benemerita della famiglia per tutte le sue prestazioni:
«Desiderando che la nostra dimora continui ad essere abitata dalla famiglia, e dai discendenti, e conservata, per quanto sarà possibile, nelle presenti condizioni, così dispongo che la casa e le adiacenze, coi mobili e gli animali, il parco, il giardino, l'orto ed il brolo che costituiscono la villa, sieno compresi nella parte spettante a Maria, alla quale raccomando di continuare nelle tradizioni domestiche.
«Questa parte è libera da ipoteche.
«Siccome poi tutte le ipoteche che gravitano le campagne vennero imposte dai mutui contratti per l'educazione e il mantenimento di mio figlio, così è giusto che tutta la parte passiva, rimanga a solo ed esclusivo suo carico, coll'obbligo di pagare regolarmente tutte le scadenze dei mutui, e di affrancarli alle epoche fissate nei relativi contratti, se non gli sarà possibile di ottenere dagli interessati la necessaria dilazione.»
Il testamento si chiudeva colle solite formule notarili, la data, le firme del testatore e dei quattro testimoni, e quella del notaio col bollo del tabellionato, tutto in perfetta regola, secondo le prescrizioni del codice civile.
Silvio e Maria riconobbero che quel testamento era l'ultimo atto di probità del loro padre e zio. Metilde e Andrea furono malcontenti, ma non osarono esprimere il loro rammarico davanti il notaio, e mostrarono di aderire col silenzio. Ma nei giorni successivi cominciarono i lamenti in famiglia.
Andrea faceva osservare che l'eredità di sua moglie si riduceva ad una abitazione troppo grande, con poche rendite e molti passivi, per le spese di manutenzione delle fabbriche e degli animali. Metilde domandava l'inventario per vedere che cosa restava dopo pagati i debiti che gravavano la parte di suo marito.
Il maestro Zecchini fu pregato di assumere l'incarico delle divisioni; e quantunque si aspettasse un risultato poco soddisfacente, pure non volle rifiutarsi per la fiducia che tutti gli dimostravano, invocando la sua lealtà e l'antica amicizia.
Metilde annunziando alla sua famiglia la morte del suocero, e il testamento, pregava sua madre di pazientare ancora per qualche tempo, non essendo possibile di abbandonare la villa al momento delle divisioni, alle quali attendeva il marito con grande assiduità, perchè dal loro risultato dipendeva l'avvenire, nessuno essendo in caso di giudicare l'importanza dell'eredità prima di conoscere le rendite e le passività, e di aver esaminato i mutui, che restavano tutti a carico di suo marito, il quale aveva avuto la dabbenaggine di accettare l'eredità senza benefizio d'inventario. E su questo punto aveva avuto delle diatribe piccanti con Silvio, che non voleva lasciarla parlare di benefizio d'inventario, dicendosi rassegnato a qualunque pretesa capricciosa della moglie, meno che a far torto alla santa memoria di suo padre, e all'onore intemerato della famiglia.
Maria non intendeva niente alla necessità delle divisioni, e diceva a suo cugino:
– Perchè ci dividiamo? Non possiamo restare uniti come fecero i nostri genitori? Non possiamo abitare la casa in comune come abbiamo fatto fino adesso? Io userò tutte le economie possibili in famiglia, tu amministrerai la sostanza, e in pochi anni potremo pagare i debiti, e ritornare come prima. Se vuoi ritornare a Venezia pei tuoi affari, e per far piacere a Metilde, che sta in campagna per forza, le vostre camere saranno riservate, potrete venire qualche giorno in primavera, un mese d'autunno, noi andremo a visitarvi a Venezia, e così ci vedremo sovente. Non ti fa piacere che ci vediamo?
– Cara Maria, rispondeva Silvio, se dipendesse da me solo non vorrei lasciarti un momento, io non sono felice che in questa casa ove ho passata la mia gioventù in tua compagnia. Ah! quelli furono gli anni felici! e come sono passati!.. ti ricordi le nostre merendine nel nido?..
– Quando tu avevi paura delle bisce…
– Ero un vero imbecille!..
– Eri un galantino!.. sei sempre stato così… ti sono sempre piaciuti i bei vestiti, i goletti e i polsini inamidati…
– Che frivolezze!.. è ben vero!.. sono stato troppo leggiero; la fatuità fu la mia rovina!.. Quanto sarebbe stato meglio se avessi ascoltato mio padre, e fossi tornato a casa dopo gli studi…
– Povero zio!.. Quanto ha sofferto per la tua assenza, vedendo che non poteva persuaderti a tornare in famiglia… ma egli ti nascondeva le sue pene per non affliggere la tua gioventù… non si vive che una volta sola, egli diceva, non posso obbligare mio figlio a sacrificarsi in campagna per farmi piacere!.. Egli ha sempre sperato fino al tuo matrimonio… poi non ha sperato più!..
– Che cosa diceva di mia moglie?..
– Diceva che era bella… assai bene educata… seducente per un giovinotto… e ti compativa.
– Mi compativa?..
– Oh scusa se ti offendo… volevo dire… che egli capiva che ti dovesse piacere… ma diceva che… Infatti adesso a che serve di ritornare al passato, il quale non torna più…
– Ti prego, Maria, non rifiutarti di dirmi ciò che pensava mio padre di Metilde; è tuo dovere di non nascondermi le sue parole…
– Ma non diceva niente di male… anzi ti assicuro che ne faceva moltissimi elogi… solo che…
– Che cosa?..
– Che non era per te… che non poteva renderti felice…
– Aveva ragione!..
– Oh Silvio!.. non dire di queste cose. Nessuno è perfetto, tutti abbiamo qualche pecca, ma Metilde è bella, elegante, graziosa…
– Tu li conosci i difetti di Metilde…
– Io no…
– Sì, li conosci! è un po' egoista, pensa per sè, è di umore incostante, quando la tiri via dalla società e dal pianoforte non sa far altro; in famiglia non è che un impaccio…
– Oh Silvio, non dir cattiverie… una signora non è avvezza a certe cose…
– Che signora!.. le signore ricche si capisce che piglino chi le serva, ma Metilde non mi ha portato in dote che delle idee e delle pretese, senza avere i mezzi di soddisfarle…
La conversazione fu interrotta da Andrea, che spalancò la porta con tale violenza che fece tremare Maria.
– Di che cosa hai avuto paura? le chiese sgarbatamente il marito, guardando il cugino con aria sospetta.
– Non vuoi che tremi, gli rispose bruscamente Silvio, pareva che entrasse una bomba, o che venisse il terremoto.
Metilde seguiva Andrea, questi le gettò un rapido sguardo, adocchiò gli altri due, poi tornò a fissarla con due occhiacci che volevano dire: «vedete che se la intendono; li ho sorpresi in un colloquio clandestino; che cosa ne pensate voi?»