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Kitabı oku: «La famiglia Bonifazio; racconto», sayfa 6

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VIII

Così passavano i giorni, i mesi, gli anni, senza avvenimenti, in una vita semplice, e relativamente felice. Maria diventava una bella fanciulla, somigliava sempre più alla sua povera mamma, cresceva sana e rigogliosa come le piante del parco. La nonna diventava sempre più vecchia, nei suoi capelli grigi andavano crescendo i fili d'argento, qualche dente spariva dalla bocca, gli occhi le si offuscavano, e già non poteva più lavorare senza occhiali, le prime rughe increspavano la pelle delle tempie.

Il vecchio Mosè dopo la morte del capitano non stava più bene, era come una marionetta alla quale si fossero rotti dei fili che la fanno muovere, egli che non aveva altra volontà che quella del padrone, pareva istupidito dopo la partenza della sua guida. Aveva perduto in gran parte la vista e la memoria, era divenuto sordo e si accasciava sempre più.

Nella sua ultima malattia venne assistito dalle padrone come da due sorelle o da due figlie. La Maddalena insegnava alla Maria come si devono soccorrere i malati, con affezione, con intelligenza, in silenzio, senza far rumori intorno al letto. La fanciulla aveva imparato a fare un brodo speciale per quello stomaco debole, gli alzava la testa con delicata attenzione, lo aiutava a cibarsi, gli somministrava esattamente i rimedi prescritti dal medico.

Dopo lunghe sofferenze, consolate dalle cure assidue e dall'affetto delle signore, il povero vecchio morì benedicendo la casa nella quale era vissuto tanti anni onesto e laborioso, benedicendo le sue padrone che amava teneramente, e lasciando un addio cordiale al suo Gervasio e a Silvio, che si doleva di non aver veduti prima di morire, ma profetizzava che sarebbero ritornati presto alla loro casa, in seno della madre affettuosa. E pronunziò queste parole poco prima di morire, quantunque in fondo non ci credesse gran fatto, ma per finire la vita con un'ultima consolazione e un augurio alla sua buona padrona. E morì povero, avendo sempre soccorso i parenti col frutto delle sue fatiche, senza aver mai abusato della fiducia illimitata dei padroni.

Fu pianto come un fratello, ed ebbe dalla famiglia, che aveva servita fedelmente per tanti anni, gli onori dei funerali e del sepolcro, come se fosse stato uno stretto parente.

Quando il maestro Zecchini, dopo di averlo accompagnato all'ultima dimora, fu di ritorno in casa Bonifazio, per rendere conto della sua mesta missione, la signora Maddalena asciugandosi gli occhi gli disse:

– Caro maestro, adesso tocca a voi di trovarci chi deve sostituirlo…

– È impossibile!.. le rispose il maestro; quegli uomini non si sostituiscono più. Non ci sono più servitori.

– Ma dunque?!.. che cosa dobbiamo fare?.. ci è impossibile di restare senza un domestico.

– Cercheremo, investigheremo… ma è difficile! difficilissimo, non credo possibile di riuscire, come sarebbe mio desiderio.

– Fra i tanti scolari che avete avuti, in tanti anni di scuola?..

– Tutti asini, signora!.. o birbanti… o ladri… o poltroni… una generazione perversa!..

Tre giorni dopo questo dialogo il maestro Zecchini entrava nella sala di casa Bonifazio, conducendo per un orecchio un giovinotto col naso camuso, coi capelli ricciuti sugli occhi, e lo presentava alla signora:

– Questa bestia fu mio scolaro per parecchi anni. Non ha mai imparato nulla, nemmeno a fare il male. L'ho perduto di vista da qualche tempo, mi disse che ha servito a Treviso, e che adesso è senza padroni. Se vuole provarlo posso assicurarla che è figlio di gente onesta, e deve essere incapace di fare delle cattive azioni, che nè io nè i suoi parenti gli abbiamo insegnate.

Lo scimunito, lasciato libero all'orecchio, ridacchiava, ora guardando il maestro ora la signora, e facendosi girare il cappello fra le mani, attendeva d'essere interrogato.

Dopo poche domande fu accettato a prova. Si chiamava Nicola.

Mostrò un certificato che non lo asseriva nè carne nè pesce.

In pochi giorni si avvidero che era proprio un cretino, e fu rimandato.

Fatte nuove ricerche si presentò un certo Damiano, ciarlone disinvolto che vantava onestà a tutta prova. Raccomandandosi alla padrona che gl'insegnasse ciò che non sapeva, mostrò buona volontà d'imparare. Venne accolto a prova anche lui. Appena entrato in servizio si mostrò svelto e intelligente, ma Argo lo guardava con sospetto, lo fiutava sovente ringhiando, tanto che Maria disse al maestro:

– Argo non è contento di Damiano, se a lui non piace, vuol dire che non può fare per noi…

– Sicuro, le rispose il maestro; gli uomini possono ingannarsi, ma i cani non hanno mai preso un gatto per un lepre. State bene attente, siamo in un tempo che non bisogna fidarsi di nessuno.

E così sorvegliando il nuovo domestico non tardarono ad avvedersi che vendeva l'avena, facendo digiunare il cavallo. Venne congedato. Subentrò Michele, uomo onesto, e abbastanza esperto nel servizio, ma un ubriacone di prima riga. Cesare lo seguì. Non si ubriacava mai, ma era un tal ghiottone che vuotava le casseruole sui fornelli, beveva il brodo e vi sostituiva dell'acqua. Anche questo fu messo alla porta. Ah! povero Mosè come fu rimpianto, come si deplorava la sua perdita ad ogni cambiamento! Finalmente venne Pasquale, un vero macaco, col muso delle scimmie antropomorfe: faccia rugosa, orecchie piatte, narici aperte, labbra sottili e bocca enorme, fronte ristretta, capelli neri ed irti come una spazzola. Aveva i difetti e le buone qualità delle bestie alle quali rassomigliava.

– Galantuomo? – puh! meno ladro degli altri. – intelligente?.. – meno balordo. – Laborioso?.. – meno pigro. Era suscettibile di qualche riconoscenza, non era impertinente, aveva infatti varie qualità negative, e si rendeva tollerabile per la grande necessità di non cadere dalla padella nelle bragie. E così si tirava avanti.

Intanto Gervasio attendeva in Lombardia la ripresa delle armi, mentre che i diplomatici raccolti a Zurigo si studiavano di fabbricare una pace, come i fanciulli, quando innalzano dei castelli colle carte da giuoco.

Dopo la brutta sorpresa di Villafranca, coll'anima lacerata da doppia sventura, la perdita del padre e della patria, stupido e sbalordito corse a rifugiarsi in Brianza col figlio per versare in seno dei vecchi parenti la piena delle amarezze. Trovò il nonno colonnello sdegnato contro Napoleone, lo diceva indegno di portare il nome dello zio, censurava aspramente la sua condotta come generale in capo, e come alleato. Diceva che l'atroce massacro di Solferino provava la sua inettitudine come strategico, perchè si poteva vincere senza quella immensa ecatombe, manovrando con tattica avveduta, risparmiando il sangue dei soldati, non precipitandoli come una valanga davanti i cannoni e le baionette del nemico. Ma dopo di aver vinto fermarsi a mezza via! non raggiungere la meta solennemente annunziata! era tale atto militare che non aveva nome. Il colonnello invidiava la sorte del genero suo commilitone, che era morto all'annunzio della fatale notizia, e oramai non sperava più di veder realizzato il bel sogno della sua vita, l'Italia indipendente dagli stranieri. Il vecchio soldato affranto dall'età avanzata e dai disinganni vedeva tutto nero, e dopo tanti tentativi falliti non aveva più fede nei suoi concittadini.

Ma Gervasio non credeva possibile la assurda confederazione progettata coll'Austria e col Papa, e calmata l'esaltazione del primo momento, partì per Milano per provvedere all'educazione del figlio in attesa degli avvenimenti.

Milano liberata dagli Austriaci si mostrava soddisfatta e si accingeva a trar partito dalla libertà, fidente nell'avvenire; e intanto si facevano le annessioni.

Silvio si trovava in un nuovo mondo nel movimento elegante di Milano; e quando passeggiava pel Corso si rammentava con pietà i semplici costumi della Bretagna, i cappelli a larghe falde sulle lunghe chiome, i panciotti rossi, le giacchette lunghe, le uose fino al ginocchio, e ricordandosi il clima uggioso, le strade deserte piene di fango, i campanili acuminati sul fondo grigio e nebbioso, era tutto lieto e ambizioso della sua vera patria, e contemplava con viva soddisfazione le candide gugliette del duomo che spiccano con tanta leggiadria sul fondo azzurro del cielo lombardo.

Papà Gervasio e il suo Silvio passarono le vacanze d'autunno in Brianza, in casa del nonno, bisnonno, il quale magro istecchito, rugoso, calvo, ma sempre colla pipa in bocca non era più che l'ombra dell'antico colonnello del primo Napoleone e del terribile Carbonaro del 1821. Però di tratto in tratto agitava ancora le sue vecchie ossa, e sprigionava qualche scintilla di quel fuoco che lo aveva riscaldato negli anni vigorosi.

La politica era sempre il suo discorso prediletto, seguiva tutti gli avvenimenti, li giudicava severamente, ma ricominciava a sperare, prediceva al nipote l'avvenire, e diceva al giovinetto Silvio:

– Tu non avrai più da fare nè il soldato nè il cospiratore. La nostra generazione compirà fra breve l'indipendenza, oramai i destini d'Italia sono evidenti.

Fu nella casetta del nonno in Brianza che Gervasio conobbe personalmente il cugino Alessandro, figlio di Aristide fratello del colonnello, che era morto da qualche anno in Piemonte, ufficiale nell'esercito.

Alessandro aveva seguita la carriera del padre e dello zio, ed aveva fatte le sue prime armi alla battaglia di Solferino, col grado di tenente. Era un bravo giovane, col quale il cugino passava piacevolmente qualche ora, ciarlando dei parenti, e delle faccende del giorno, e poi ne scriveva a sua madre gli elogi. Silvio avrebbe potuto imparare dalla conversazione del giovine ufficiale come si deve servire il paese, ma preferiva giocare alle boccie coi birichini del villaggio.

Invece il giovane Alessandro dava retta allo zio, con rispettosa deferenza, e così questi due individui, senza saperlo preludevano entrambi alla futura generazione del regno, che si mostrò seria nell'esercito; frivola, inquieta e malsana altrove.

Quando i suoi tre nipoti, Gervasio, Alessandro e Silvio gli stavano intorno, il vecchio continuava le sue osservazioni, e i consigli, e diceva:

– Per uscire dalla schiavitù, per infrangere le catene, come Spartaco, ci voleva forza di muscoli, e audacia sfrontata, e non faceva male nemmeno un po' di pazzia. Bisognava arrischiare tutto! ma l'avvenire domanda più forze morali che materiali, e la più seria assennatezza per consolidare la conquista, e far uscire dalla libertà la potenza e la prosperità del paese.

Il periodo eroico sarà fra breve finito, e comincierà l'epoca dell'educazione e dell'istruzione, e allora saranno necessari i caratteri probi e onesti. Al nostro tempo ci volevano dei rompicolli, dei cospiratori, dei furbi, dei maneschi, bastava di avere del sangue nelle vene. L'avvenire abbisogna d'uomini onesti e sapienti, di scienza e lealtà. Le conquiste si fanno colle mani, e si consolidano col cervello.

E mentre passavano gli anni nell'aspettativa, i vecchi cominciavano a cedere il posto ai giovani. La nonna di Brianza morì di vecchiaia, il colonnello la seguì da vicino. La povera Maddalena legata al suo posto dalle cure domestiche, dall'affetto alla sua Maria, divisa dai genitori dal governo straniero, non ebbe la consolazione di rivedere per l'ultima volta i suoi cari vecchi, che passavano da questa vita senza malattie, come lampade che si spengono per mancanza d'alimento.

Il testamento del colonnello fu l'equo complemento della sua vita.

Lasciò la casa e pochi campi d'intorno al nipote Alessandro: «colla certezza che conserverà religiosamente le memorie e le tradizioni domestiche, servendo fedelmente il paese in guerra ed in pace, come i suoi padri, non chiedendo mai verun compenso per aver fatto il proprio dovere.»

Tutto il resto della modesta sostanza spettava all'unica sua figlia Maddalena Bonifazio, rappresentata dal figlio Gervasio nella liquidazione ereditaria, che fu condotta a termine prontamente dall'amichevole accordo dei due cugini.

Mentre avevano luogo questi piccoli avvenimenti di famiglia, un avvenimento clamoroso sorprendeva il mondo. Mille Italiani condotti da Garibaldi conquistavano il mezzogiorno d'Italia, e la patria andava rompendo le barriere che la dividevano in varie parti contro natura; e il famoso punto geografico di Metternich si andava allargando, affermava la sua volontà, e proclamava altamente i suoi diritti.

La Massoneria si annetteva tutte le società segrete, riordinava le loggie disperse, ed esercitava la sua potente influenza sul Parlamento, che avendo dichiarato «Roma capitale d'Italia» attendeva il momento opportuno per occuparla. E dopo ceduta Nizza e la Savoja, in compenso dell'assistenza ricevuta dalla Francia, si trasportava anche la capitale da Torino a Firenze fra le minaccie e le adesioni, le aspirazioni, le proteste, e gli eccitamenti dei vari partiti che bollivano confusamente nella gran fornace della rivoluzione nazionale, per fare l'Italia; come si fondono i metalli di varie specie per ottenere il bronzo di Corinto, per una statua immortale. L'Austria chiusa nel quadrilatero, come un cane alla catena, non poteva più minacciare i vicini, e tutti pensavano che il suo dominio era vicino alla fine. I giornali parlavano con sicurezza dei futuri destini d'Italia, e il popolo manifestava i suoi voti scrivendo col carbone sui muri: – Vogliamo Roma e Venezia – viva Vittorio Emanuele – viva Garibaldi.

L'anno 1866 cominciava con preludi d'inalterabile tranquillità. Si parlava di trattati secreti per la cessione del Veneto; Napoleone, aprendo il Parlamento francese, il 22 gennaio, assicurava che tutto prometteva la pace.

A Milano si celebrava ogni giorno qualche lieto avvenimento, e la giovane generazione cresceva fra i piaceri e le feste. Era una vita allegra piena di musiche, di feste, di bandiere e di entusiasmi. Silvio frequentava di preferenza gli studenti più avanzati di lui, erano giovinotti pieni di grilli, che facevano i critici letterari prima di aver compiuti gli studi, e discutevano di politica andando alla scuola.

Il giovane Bonifazio si sentiva elettrizzato dai suoi compagni, sognava avvenimenti felici per la patria e per sè stesso, si vedeva aperto l'adito a tutte le soddisfazioni, e pensava che un giorno avrebbe preso la sua parte nella vita pubblica, e sarebbe diventato senza fatica, deputato, segretario generale e ministro. Prendeva una posa grave come quella dei ritratti dei grandi personaggi, si guardava nello specchio per vedere se l'aspetto corrispondeva alle sue idee, e si doleva grandemente di non vedersi ancora spuntare i mustacchi. Si era scelto un buon sarto, guidato dal consiglio dei colleghi più eleganti, e pensava che un uomo mal vestito non avrebbe mai potuto raggiungere le altezze ambite nelle sue fantasticaggini. Esigeva dal parrucchiere che la scriminatura fosse netta e perfetta, dalla fronte fino al collo, perchè l'acconciatura del capo rivelasse la finezza del cervello. Il bastonello nella tasca del paletot, e il zigaro fra l'indice e il medio, completavano il giovinotto precoce.

Il babbo lo trovava un po' troppo attillato, ma non osava contrariarlo, vedendo che i suoi compagni di scuola gli rassomigliavano quasi tutti, e non volendo che fosse meno degli altri. Ma non lo abbandonava mai; passavano insieme la sera al caffè ed al teatro, col cugino Alessandro; e il giovinotto doveva contentarsi di vedere il mondo alla superficie, perchè l'oculatezza paterna gl'impediva di seguire i compagni nei loro stravizi.

Nelle ore di scuola Gervasio restava solo, e allora egli andava a passeggiare ai giardini, o visitava gli stabilimenti d'orticoltura, pensando alle terre di famiglia, che un giorno sperava di coltivare a suo modo, e faceva progetti di riduzioni, semine e piantagioni, per quando sarebbe tornato a casa sua. E questo felice avvenimento non poteva tardare.

A tutte le proposte di congressi o di cessioni, gli Italiani rispondevano coll'accrescere e perfezionare l'armamento, e desiderosi di compiere l'indipendenza e l'unità della patria, contrariavano continuamente i segreti maneggi della politica, e i vani progetti della diplomazia, diffidavano delle scaltre blandizie, e non trovavano accettabile nessuna proposta, tranne quella della totale emancipazione dagli stranieri.

Furono inutili le proposte d'un disarmo generale, inutili tutte le promesse e le minaccie, perchè la nazione fremente ed ansiosa si agitava per raggiungere il suo scopo finale, che oramai non avrebbe più abbandonato.

Anche Vittorio Emanuele ambiva di terminare ogni agitazione colle armi alla mano, ed apparecchiava l'esercito; Garibaldi invocava armi e volontari; tutta la nazione voleva combattere. L'alleanza colla Prussia rese possibile la guerra, che finalmente venne dichiarata con generale contento il 20 giugno del 1866. In quel giorno tanto desiderato scomparvero tutte le dissenzioni, tutte le discordie, tutti i partiti; la nazione e il Parlamento furono unanimi. Il re annunziò che riprendeva la spada per la libertà del popolo e l'onore del nome italiano, facendo all'Europa questa solenne promessa: «L'Italia indipendente e sicura del suo territorio diventerà un pegno d'ordine e di pace, e ritornerà efficace strumento della civiltà universale.»

Dopo la battaglia di Custoza l'esercito italiano passava il Po, ed occupava le provincie venete.

Il primo drappello giunse a Treviso il 15 luglio, data incancellabile fra i ricordi più memorabili di questa città. La campana del Comune annunziò l'avvicinarsi dei soldati liberatori, la bandiera tricolore sventolava in ogni casa, le bande musicali suonavano l'inno nazionale, la folla immensa acclamava la libertà, l'esercito, il re con tale entusiasmo che pareva frenesia. Forse il capitano Bonifazio e i morti per la patria scossi dall'aria elettrizzata di quel giorno, trasalirono nelle tombe.

IX

Pochi giorni dopo l'arrivo dei primi soldati italiani, si arrestava davanti il cancello della villa Bonifazio una carrozza da viaggio dalla quale scendevano inaspettati Gervasio e Silvio. Il telegrafo e la ferrovia essendo stati riservati all'esercito, non fu possibile agli esuli di annunziare la loro venuta. Le suonate di campanello e i latrati di Argo fecero accorrere Pasquale. Aperti i cancelli entrarono in casa commossi, si gettarono nelle braccia di Maddalena che se li strinse al seno, Maria venne subito dal giardino, e finalmente tutti i superstiti della famiglia si trovarono riuniti.

Il primo effetto del loro incontro furono le lagrime, lagrime di gioia e di tenerezza, sgorgate dal rapido risveglio di tanti ricordi dolci e luttuosi, sereni e strazianti, da tante speranze lungamente nutrite invano, e alfine soddisfatte; lagrime miste ai baci e ai sorrisi. La vecchia madre che abbracciava il solo figlio ancora vivo, ma invecchiato, lontano da' suoi occhi, per diciotto anni di assenza, che vedeva per la prima volta il giovane nipote, il quale finalmente conosceva la nonna; il figlio che leggeva sul volto rugoso e sui capelli bianchi della madre tutte le angoscie sofferte, che trovava un vuoto doloroso prodotto dalla morte del padre, del fratello, della cognata, e d'un vecchio e fedele domestico; i due cugini che si vedevano per la prima volta, tutte queste affezioni, queste gioie, questi dolori, queste sorprese, confusi insieme si fondevano in una tenerezza che non aveva altra espressione che il pianto.

A poco a poco vennero le confidenze, i racconti, le storie. Quante domande, quanto desiderio di espansione dopo sì lunga separazione, così grandi avvenimenti, così atroci dolori!

Quante carezze, quanti dialoghi, che gli stranieri avevano troncati, e che la patria vendicata rendeva sacri e soavi nella intimità del santuario domestico.

L'esule aspirava con sicurezza l'aria della sua casa, sentiva il noto odore di quelle camere, riconosceva quei mobili, quei quadri come antichi amici, amati fino dalla nascita; guardava d'intorno quelle pareti che gli raccontavano coi loro quadri le prime impressioni dell'infanzia, che gli rammentavano le gioie innocenti e le felicità della vita giovanile, gli anniversari, le feste, le ricompense. Tutto ciò era scomparso nell'esilio, si era dileguato nell'età matura, come una nebbia che svanisse quando il sole è già alto sull'orizzonte.

La patria libera restituiva all'esule la sua casa, ma come una bandiera dopo le battaglie, lacerata dalle palle nemiche.

Al di fuori la natura aveva continuato il suo lavoro. Gli alberi del parco erano diventati giganti, avevano sorpassato il tetto della casa, il loro vigore indicava chiaramente i lunghi anni trascorsi; gli arboscelli piantati in gioventù, dolci ricordi di giorni felici, s'erano fatti robusti, e portavano una bella chioma di rami rigogliosi.

Ma quale miscuglio trasandato e confuso di fronde! quale abbandono di piante invadenti, quale arrufìo scapigliato di foglie e di fiori!

– Povera madre! esclamava Gervasio, ecco la storia delle burrasche della tua vita, scritta dalla natura!

Tuttavia qualche angolo era conservato in buon ordine: l'ajuola dei fiori coi quali si facevano i mazzi per gli onomastici e i natalizi era ben coltivata e fiorita. La macchia dei crisantemi dove si tagliavano i fiori autunnali per le ghirlande del giorno dei morti era in ottimo stato; le tuberose predilette che profumavano la casa nel mese d'agosto erano ancora al loro posto. L'olivo odoroso che imbalsamava l'aria era cresciuto rigoglioso. Quel parco era proprio un libro scritto da una potenza superiore, ed era sublime per chi sapeva leggerlo come Gervasio, il quale si proponeva di rispettarlo come stava, in onoranza delle tradizioni domestiche.

– Ecco il sedile sotto la sofora ove il mio povero padre veniva a fumare la sua pipa; e mi pare di vederlo quando girava pei viali colla forbice in mano, visitando le piante come si fa coi soldati in un giorno d'ispezione; e nei tempi dolorosi quando camminava colle mani dietro la schiena, la testa bassa meditabonda. Ogni angolo di questo parco conserva le sue orme, la coltura del giardino era la sua occupazione prediletta, egli amava la sua patria, la sua famiglia, e la bella natura, non si curava del resto, trovava la solitudine migliore della società, e qualche volta anche gli animali migliori degli uomini.

Appena si seppe nel villaggio il ritorno dell'esule, gli amici accorsero ad abbracciarlo. Il più vecchio di tutti era il maestro Zecchini; esso fu il primo a comparire, e stringendosi al seno Gervasio gli pareva di rivedere un figliuolo. Parlava del povero capitano come d'un fratello perduto, egli aveva dimenticato la loro discordia di opinioni, e non si ricordava più che le varie vicende d'una lunga intimità.

Il vecchio precettore provò somma consolazione di riconoscere in Silvio un giovinotto che aveva compiuti gli studi ginnasiali, e che si destinava ad entrare in liceo.

– In natura l'uomo è un asino, egli ripeteva, ma l'educazione lo rende capace di grandi cose.

Anche questa antica teoria del maestro risvegliava le più lontane memorie giovanili nell'animo commosso di Gervasio, il quale ammirava la fermezza del vecchio nel conservare i suoi convincimenti, e gli diceva:

– La lunga esperienza della vita, i grandi avvenimenti trascorsi non hanno ancora modificato le vostre idee filosofiche riguardo all'uomo!..

– Anzi, tutto mi conferma in questo principio, ma so bene che la mia teoria non verrà mai adottata nelle scuole come base filosofica, perchè vi sarà perpetuo ostacolo, l'orgoglio umano.

Gervasio rideva come suo padre, e Silvio pensava: se fosse vero!.. A interrompere la discussione vennero i tre Pigna, il vecchio beone, il babbo insignificante, e il giovane Andrea, l'amico di Maria.

La prima visita di Gervasio e di Silvio fu fatta al Cimitero, ove portarono una ghirlanda sulla tomba del padre e del nonno. E quando Treviso celebrò nella cattedrale solenni esequie ai martiri della patria, tutta la famiglia Bonifazio assistette alla grandiosa cerimonia. Maddalena e Maria presero posto fra le donne vestito a lutto, col capo coperto da un velo nero, che occuparono sei file di banchi disposti ai lati della grande navata per tutta la lunghezza della chiesa. Gervasio e Silvio si collocarono in modo da veder bene le cerimonie e da udire il discorso che venne pronunziato in onore dei morti. La cattedrale era tutta parata di nero con bandiere nazionali e corone d'alloro, avvolte in neri crespi. Un immenso catafalco sorgeva nel centro, con analoghe iscrizioni, fra immenso numero di cerei, in mezzo a quattro grandi piramidi composte di canne di fucili, baionette ed altre armi, dalle quali pendevano degli scudi neri, intrecciati di fronde, coi nomi di tutte le battaglie nazionali dal 1848 al 1866.

La messa funebre fu eseguita a grande orchestra, con degli a soli d'arpa che parevano voci del cielo, e produssero un effetto meraviglioso mentre suonavano le campane di tutte le chiese, si udivano le salve di moschetteria che partivano dalle truppe raccolte in piazza, e i colpi di cannone tirati a lunghi intervalli dalle mura.

All'orazione che rammentava i dolori e le speranze d'Italia, e al suono dell'inno nazionale che chiuse la sacra funzione si sentiva nell'immensa folla raccolta un fremito di commozione.

Dieci giorni dopo la festa funebre di Treviso ebbe luogo la cessione ufficiale di Venezia al governo italiano.

Gervasio volle trovarsi presente anche a questo momento storico memorabile, e partì per Venezia con suo figlio, per fargli vedere per la prima volta la incantevole città, in così solenne occasione.

Quale spettacolo! quei soldati austriaci che partivano erano rientrati dopo l'assedio fra lo squallore dei morti nella città bombardata, che dopo un anno d'eroica difesa, non fu vinta che dal coléra e dalla fame.

Nella folla raccolta in piazza, che attendeva compatta la partenza degli stranieri c'erano ancora dei vecchi che avevano vissuto sotto la gloriosa repubblica, c'era molta gente che aveva veduto i patriotti del 21, salire sulla berlina eretta in piazzetta per condannarli alla morte, c'erano molti cittadini che avevano sofferto nelle carceri e nell'esilio. Quando la bandiera italiana fu issata sulle tre antenne di Cipro, Candia e Morea, si udì un clamore che non era un grido d'entusiasmo, nè un gemito di commozione, nè un urlo selvaggio, nè un applauso di trionfo; era una voce strana, inaudita, unanime, di migliaia di persone, una voce che fondeva in una sola espressione tutte quelle passioni compresse, ed echeggiava ad un tratto nell'aria, come un grido dell'umanità che si espandeva fino alle stelle. Questo grido della liberazione d'un popolo, si poteva udirlo da tutti i pianeti che stanno intorno alla terra.

Uno splendido sole illuminava le cupole moresche di San Marco, brillava sull'oro dei mosaici, e sulle invetriate rotonde della basilica, e rifletteva nella calma laguna l'azzurro del cielo. Si udivano per l'aria le più soavi melodie, non si vedevano che volti ridenti, che espressioni d'anime soddisfatte.

Sono memorie indelebili che valgono cent'anni di vita, rinforzano le membra infiacchite dei vecchi, infondono vigore alla gioventù, fanno obliare le amarezze, le umiliazioni, i dolori del servaggio.

Gervasio dimenticava i lunghi anni d'esilio, e conduceva il suo Silvio a visitare Venezia, colla devozione d'un pellegrino cristiano in Terra Santa. Gli faceva ammirare i monumenti, le opere d'arte, le chiese, i palazzi, i canali, e fino le casupole, e gli spiegava la storia locale. Gli mostrava quel popolo buono, ameno, bizzarro, quei ruvidi pescatori figli del mare, quelle donnette goldoniane, quelle gondole uniformi, quelle voci di venditori ambulanti che cantavano l'annunzio della loro merce, vantando i bei cavoli, le belle frutta, i canestrini del pesce fresco e delle ostriche.

Ogni pietra di Venezia è degna d'osservazione, è una memoria famosa o una pennellata pittoresca; la tinta ardita di una insigne tavolozza.

Ogni monumento, ogni palazzo vi ricorda un'epoca diversa, un'arte stupenda, dei nomi illustri di magistrati, di conquistatori o di artisti. Ogni prospetto presenta un quadro ammirabile e singolare, sia un tempio di marmo e di mosaici, sia un gruppo di case vecchie, scalcinate, o l'angolo d'un canale tortuoso coll'acqua verde nell'ombra, e i camini del tetto illuminati dal sole sul fondo turchino del cielo. Le calli più misere, i rii più sporchi, l'erba sulle screpolature dei marmi, o nelle giunture dei mattoni corrosi, le macchie d'umidità, e i licheni sulle colonne, sembrano tutti capricci fantastici d'un genio strambo, che si divertì a intingere il pennello in tutti i colori della tavolozza.

La bicocca a canto al palazzo, gli stracci e gli sbrendoli che si mettono ad asciugare in fianco ai marmi preziosi, il pergolato di vite intorno alla Madonna dei Traghetti, coi gondolieri devoti che la adornano di fiori, vi accendono il fanaletto, e siedono bestemmiando ai piedi dell'altarino, sono tutte bizzarrie veneziane che armonizzano coi suoi prospetti, coi suoi odori, col lusso dei suoi edifizii e le rovine delle vecchie abitazioni. Tutto è bello a Venezia!.. anche il brutto, ed anzi è preferito dagli artisti nazionali, i quali hanno una vera ripugnanza per le copie dei monumenti più insigni, che abbandonano agli artisti stranieri, riservandosi la riproduzione delle case rotte, delle catapecchie e dei canali tortuosi, che fanno ammirare dal mondo intiero. Chi desidera una copia della facciata o dell'interno di San Marco, una veduta della piazza, o della chiesa della Salute, deve ricorrere agli artisti d'altre nazioni che accettano la commissione lavorando pazientemente dei lunghi mesi davanti il loro modello, colla più minuziosa esattezza. L'artista veneziano non si presta a queste opere monotone, regolari, ed eterne, meravigliose di pazienza e di esattezza; egli vuole le linee interrotte, i colori smaglianti, le pennellate franche, la tavolozza svariata, il prospetto capriccioso e fantastico.

Silvio divenne entusiasta di Venezia, colla guida del padre imparò ad ammirarla fino negli angoli più remoti, ignoti ai volgari, ma adorati da coloro che sanno scorgere le bellezze più misteriose di questa incantevole sirena.

Un giorno s'incontrarono col cugino Alessandro che era divenuto capitano, e passarono insieme alcune ore girando per la città. Il buon lombardo si lamentava delle viottole anguste, deplorava le esalazioni dei canali, e l'incomodo dei ponti. Gervasio meravigliato gli osservò: