Kitabı oku: «La famiglia Bonifazio; racconto», sayfa 8
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Fra queste e altre varie vicende di poco rilievo passarono gli ultimi anni di studio, e finalmente Silvio ebbe la laurea, e si dispose a fare la pratica. Papà Gervasio, secondo la sua promessa, e coll'aiuto degli amici, gli aveva trovato un avvocato di Venezia che consentì di riceverlo come praticante, lo accolse con cortesia, e lo presentò alla sua famiglia, composta della moglie e d'una figlia.
L'avvocato Annibale Ruggeri aveva una buona clientela che faceva prosperare il suo studio. Silvio non tardò a persuadersi della somma utilità della pratica che andava facendo nella trattazione degli affari. Colla sua giovanile ingenuità egli credeva che il merito dell'avvocato dovesse consistere nella rapidità della procedura. Considerando le lungaggini della giurisprudenza italiana, colle infinite pratiche precauzionali per guarentire tutti i diritti, egli la trovava eccessivamente diffusa e prolissa e pensava che la condotta d'ogni causa dovesse studiarsi in modo da correggere il difetto delle leggi, per soddisfare le parti colla massima possibile sollecitudine. Ma era tutt'altro. Gli bastò poco tempo per accorgersi che l'avvedutezza dell'avvocato consiste nell'arte di non precipitare le sentenze, che potrebbero riuscire funeste senza le dovute precauzioni. Bisogna che l'istruttoria sia ponderata e completa, l'esame dei documenti scrupoloso, è necessario di moltiplicare le conferenze, di allargare le informazioni, di pesare gli atti, di prevedere i sotterfugi degli avversari, di cercare le prove, domandando proroghe sopra proroghe, suscitando incidenti, promovendo dilazioni, mettendo in campo tutti gli amminicoli possibili per tirare in lungo, e avere il tempo di complicare le faccende, come una matassa arruffata, che avvolga l'avversario in una rete di abilissimi cavilli, e di argomentazioni imprevedute da rendergli impossibile l'uscita.
E nello studio Ruggeri si lavorava a fondo con tali principii, moltiplicando all'infinito la lista delle spese, per bolli, scritturazioni, consulti, copie, corrispondenze, ma con piena rassegnazione dei clienti che affluivano in gran numero attirati dalla rinomanza dell'avvocato, e dalla speranza che il suo merito e la sua esperienza troverebbero il modo di abbindolare i giudici, facendo trionfare i loro torti come se fossero buone ragioni. E facevano delle lunghe anticamere per attendere il loro turno, alle conferenze. Cosicchè il denaro pioveva in abbondanza ed avrebbe apportata la ricchezza se la casa fosse finita agli ammezzati; ma disgraziatamente aveva un altro piano, e se la scala del piano inferiore faceva salire l'oro alla cassa, la scala del piano superiore lo faceva discendere e sparire. Quella casa era una vera pompa aspirante e premente; gli affari la riempivano, il lusso la vuotava.
L'avvocato impallidiva sulle carte e sui codici, ci perdeva gli occhi e i capelli, l'appetito ed il sonno; e si consumava in quella vita sedentaria e in quella atmosfera morbosa, mentre il frutto delle sue fatiche svaporava con prodigiosa rapidità, per pagare le polizze dei tappezzieri e dei merciai, degli orefici, delle modiste e delle sarte. Quella testa forense dell'avvocato era un vero vulcano che sconvolgendo le viscere del mondo giudiziario ne faceva uscire delle eruzioni di cappellini, di fiori, di pizzi, di abiti, di mantelli, nastri, fiori, svolazzi e gioielli. Il prodotto d'ogni conflitto di diritti, d'ogni contratto di nozze e d'ogni testamento finiva sempre in un capriccio di moda. Infine dei conti, marito e moglie, senza saperlo, lavoravano col medesimo risultato, quello di dar da intendere al mondo lucciole per lanterne. Mentre l'avvocato si scervellava sul codice e sul dizionario onde trovare un articolo favorevole, e un vocabolo opportuno per mascherare una verità pericolosa, la moglie davanti lo specchio cercava di raffusolarsi magistralmente per nascondere le sue rughe, per far passare il fintino per capelli effettivi, e i cuscinetti d'ovata per rotondità naturali.
Silvio cominciò a frequentare la famiglia Ruggeri, e nelle conversazioni serali ebbe campo di studiare l'arte soprafina della signora Emilia, come durante la giornata aveva potuto ammirare l'abilità magistrale del dottore Annibale nel maneggio degli affari.
Nell'ombra prodotta dal cappello della lucerna in un angolo romito del salotto il giovane praticante osservava attentamente quelle due figure caratteristiche; una testa calva piena di pensieri e una testa vuota fornita di ricciolini posticci, che vivevano nel lusso a spese dei litiganti. E pensava fra sè: «le discordie domestiche, l'ignoranza, la mala fede, gl'inganni, le frodi, le rapacità della nostra vita civile forniscono questi tappeti turchi, questi stipi eleganti, questi mobili artistici, scelti nelle sale di Guggenheim e nell'officina di Besarel, questi vetri di Murano, questi ninnoli artistici, e i fiori freschi che profumano il salotto in quel magnifico vaso di Ginori.»
Ma il più bel fiore era Metilde, quella bella bionda, leggiadra, snella ed eterea come un angelo dipinto da Morelli. Con quei capelli d'oro e quegli occhi turchini, quella vita di vespa, quell'incesso leggiero di silfide!.. quando muoveva agilmente sul pianoforte le dita affusolate, Silvio restava estatico a contemplarla, quando in un giro di valzer essa scopriva gli stivalini arcuati che calzavano i suoi piedini eleganti, egli si tirava indietro per paura di toccarla, tanto gli pareva una divinità scesa dal cielo. La prima volta che essa si degnò d'indirizzargli la parola fu tanto confuso che le rispose una sciocchezza che la fece ridere mostrando due file di dentini meravigliosi per la regolarità ed il candore. Ed essa s'avvide subito che quella timidità proveniva da ammirazione, e ne fu soddisfatta. Suo padre aveva detto in famiglia che Silvio Bonifazio, nato in Francia, in esilio, era stato educato a Milano, pareva un giovinotto che accoppiasse le buone qualità francesi e italiane, mostrava spirito e ingegno, ed era audace come suo nonno, un antico soldato del primo Napoleone.
Quell'aureola dell'esilio intorno ai capelli profumati, quei mustacchietti giovanili sulla freschezza del volto, quello spirito ecclissato dal semplice aspetto della bellezza gli guadagnò subito tutte le simpatie della fanciulla, e gli assicurò la più indulgente amicizia.
A poco a poco venne anche il coraggio, e l'abitudine lo rese sempre più facile. Allora Metilde s'accorse che il giovinotto non mancava di brio, e non tardò a trattenersi seco lui con piacere in lunghe e geniali conversazioni, nelle quali essa pure faceva mostra d'eccellenti qualità intellettuali che raddoppiavano l'effetto della bellezza colla grazia d'un dialogo vivace, e dell'accento veneziano, che la rendevano incantevole. E davvero faceva onore al babbo che l'aveva fatta istruire dai migliori professori. Essa aveva corrisposto benissimo, imparando con pronta intelligenza, e continuando a coltivarsi con buone letture. E parlava con esatte cognizioni di storia e di letteratura, giudicando coll'acuto buon senso della donna accoppiato ad un gusto fine, istintivo e personale che rendeva interessanti i suoi giudizi. E faceva onore anche alla mamma che la vestiva a suo modo, come una bambola, ma con supremo buon gusto, e ben inteso, senza risparmio; non contentandosi di scegliere le stoffe e gli artefici migliori a Venezia o a Milano, ma ricorrendo anche a Parigi, mediante le grandi facilitazioni procurate dai Grandi Magazzini del Louvre, che spediscono gratis, disegni, modelli, campioni, e gli oggetti scelti senza domandare un soldo anticipato. A Venezia pagavano i clienti.
La signora Emilia aveva squadrato con un colpo d'occhio il nuovo amico di casa, aveva veduto subito che la sua biancheria era di manifattura francese, che il taglio delle vesti era di Milano, aveva saputo dal marito che il giovinotto dimorava in una villa signorile nei dintorni di Treviso, un piccolo Trianon, un parco all'inglese, cogli alberi più alti del palazzo, con una vasta estensione di bosco, una cascata, un lago, dei frutteti, delle vigne, dei campi come se ne vedono pochi. Dunque non ci potevano essere inconvenienti a quella amicizia, quel giovane apparteneva evidentemente ad una famiglia molto ricca, e quindi era il ben venuto nella sua casa. Qualche interrogazione sagace fatta ai conoscenti e agli amici l'avevano anche perfettamente rassicurata sulla condotta di lui.
Era un giovinotto che non frequentava che da Florian, non fumava che sigari d'avana, era carambolista di prima forza, non c'era pericolo che si rovinasse al giuoco, perchè perdeva di raro. Si poteva dunque ammetterlo nella più stretta intimità, ed invitarlo a pranzo senza riguardi.
Frattanto papà Gervasio scriveva a suo figlio:
«Ti raccomando l'economia. Tu mi assicuri che la biancheria che hai fatto venire da Parigi ti costa meno che se l'avessi acquistata a Venezia, sarà benissimo, ma la tua nonna mi ha fatto delle buone camicie, che mi vanno benissimo e costano meno della metà. In quanto alla polizza del sarto di Milano ti posso assicurare che è esorbitante, e la durata delle stoffe, che tu credi che deva compensarti del prezzo, è una vana illusione. La nonna voleva che Maria ti facesse un paio di guanti di lana, per star caldo, ma tua cugina pretende che tu non vuoi portare che guanti di pelle. Sai che non siamo ricchi, che il povero nonno ci ha lasciati molti debiti che aggravano le campagne, e con questi anni cattivi, colla malattia delle uve, la siccità, le grandini, il prezzo basso dei cereali, la miseria dei contadini, i possidenti si trovano in pessime condizioni. Capisco che la tua condizione esige una tenuta decorosa, e che la moderna società ha molte esigenze; ma procura di non passare i limiti, e pensa alle privazioni che ci siamo imposte per mantenerti a Venezia.
«La mia salute non è perfetta, ho delle sofferenze intestinali, ma col tempo e le cure passeranno anche queste. Tutti gli altri di casa stanno benissimo, e ti mandano i più affettuosi saluti.»
I giorni che gli capitavano di queste lettere Silvio si sentiva invaso da profonda malinconia, alzava gli occhi al soffitto ed esclamava:
– Ah! non essere milionario, è la più gran disgrazia che possa toccare ad un uomo che deve vivere in società!.. Libertà, indipendenza, diritti dell'uomo e del cittadino!.. sono frottole che fanno sbraitare gl'imbecilli, ma infine dei conti non esiste nè libertà, nè indipendenza, nè nulla di buono a questo mondo senza il denaro!.. Mio padre non è mai stato splendido, ma adesso che è vecchio diventa avaro. Se la povera nonna non mi aiutasse colle sue economie, se il bigliardo non mi assicurasse dei vantaggi, colla sola mesata paterna non mi sarebbe possibile di vivere a Venezia nella buona società.
Una domenica mattina se ne andò a passeggiare, solitario, sulle fondamenta nuove, in fondo della città, e in quel deserto fumava un sigaro da un soldo, e meditava sui destini dell'uomo… senza soldi.
L'acqua turchina batteva le rive, s'increspava intorno alle isole, si perdeva in un lontano orizzonte confuso col cielo. A diritta qualche barca peschereccia colla vela riflessa nella laguna filava orzando verso il mare; a sinistra i monti che fanno corona al territorio trivigiano, con una leggiera tinta violetta sfumavano nell'azzurro. L'aria fresca che batteva sul viso era pregna dei profumi iodiati delle alghe, e di sapori salini.
Quella quiete, quella solitudine, quei sentori, quel prospetto che gli ricordava gli sfondi pittoreschi del suo parco, trasportavano il pensiero di Silvio alla casa paterna, alle cure serene, ai piaceri semplici della vita domestica. Si ricordò di Maria con tenerezza e con rimorso, pensò che in quel ritiro suo nonno giuocava la vita per l'emancipazione della patria, lo zio era stato sacrificato allo stesso intento, la zia era morta di dolore, suo padre era partito per la guerra e per l'esilio, la nonna aveva passata l'esistenza nella solitudine fra le ansie delle persecuzioni. Ah quei poveri vecchi non avevano mai pensato alla necessità dei milioni, non aspiravano che all'indipendenza del paese, e vivevano modesti e laboriosi sacrificando tutto a questo santo dovere!..
Colla mente attristata e il cuore malcontento, con una burrasca di pensieri nel cervello, ove i progetti fantastici, lottavano colle idee sane, rivolse i passi verso l'interno della città. Camminava lentamente, col cappello sugli occhi e il sigaro da un soldo fra i denti, senza guardare in faccia la gente che incontrava per via, sempre pensieroso, girando per un labirinto di calli strette, nell'ombra umida fra le case, salendo e scendendo gli scalini verdognoli e smussati dei vecchi ponti, senza guardare nelle gondole che passavano sotto col tonfo monotono dei remi che rompevano il silenzio di quei poveri quartieri, e sparivano nei canali tortuosi.
Dopo lunghi raggiri, giunse finalmente in calle larga San Marco, svoltò per la merceria, e si trovò sotto l'arco della Torre dell'Orologio. Il sole che gli battè sul viso tutto d'un tratto parve che lo destasse da una specie di letargo. Alzò la testa, abbracciò collo sguardo il prospetto della Piazzetta, il Palazzo ducale, le due colonne del leone e di San Teodoro, la laguna, le barche, l'isoletta di San Giorgio, tutto immerso in un lago di luce abbagliante.
Una soave armonia echeggiava sulla piazza, un cantico soave di voci celestiali s'innalzava nell'aria, e dopo gli accenti variati d'un a solo melodioso, prorompeva in un solenne rimbombo di tutti gli istrumenti, che pareva un inno trionfale. Era l'ora della musica.
La piazza presentava l'aspetto d'una sala immensa, percorsa da una fila di signore eleganti che passeggiavano fra un corteggio di ammiratori. Si udiva un fruscio di seriche vesti, si vedevano tutti i colori che brillavano al sole fra gli abiti scuri degli uomini. Si respirava un'atmosfera artificiale mista di esalazioni confuse di tabacco e di muschio.
Un cappellino capriccioso sopra una testa bionda, fece evaporare immediatamente tutta la tristezza dal cervello di Silvio. Addio pensieri malinconici, addio progetti di severa resipiscenza. Alla vista delle signore Ruggeri il giovane praticante dello studio gettò in fretta il mozzicone del sigaro da un soldo, si atteggiò al più grazioso sorriso, abbassò rispettosamente il cappello fino al ginocchio, strinse la mano all'avvocato, presentò i suoi complimenti alla signora Emilia, un sorriso ed un'occhiata alla signorina Metilde, e si unì alla comitiva che passeggiava su e giù dal fondo della piazza alla basilica, andando e ritornando come tutti gli altri.
La viva luce che illuminava la chiesa pareva che trasformasse i vetri rotondi delle grandi arcate in tante medaglie d'argento, e le figure dei mosaici, a colori smaglianti, nuotavano nel fondo d'oro, mentre le onde armoniose della musica passavano sulla folla. Davanti a quei prospetti e fra quelle melodie indistinte e confuse con altre voci, le parole umane acquistano una espressione singolare, specialmente fra la gioventù e la bellezza, fra le seduttrici e i sedotti. I suoni reboanti della musica incoraggiano le audacie del dialogo e talvolta lo interrompono a proposito, l'a solo sentimentale d'un soave istrumento serve a meraviglia per accompagnare una frase gentile, e ne rialza il valore. L'uomo può arrischiare una dimostrazione velata, meglio che in un salotto, perchè la donna può fingere di non udirla, e i mariti, i babbi e le mamme, assordati dalle trombe e dai tamburi, non l'odono di sicuro.
XI
Tutto quell'inverno fu rallegrato dai più deliziosi passatempi. Le noie della pratica curiale venivano lautamente compensate dai passeggi, dalle conversazioni, dalle feste da ballo, dagli spettacoli dei migliori teatri. Durante il giorno, nello studio dell'avvocato, Silvio imparava come si guadagna il denaro a spese dei litiganti, ed ogni sera imparava a spenderlo nella buona società. Il bisogno dei milioni, o almeno almeno di qualche migliaia di lire, si faceva vivamente sentire. S'era fatto degli amici che la pensavano come lui, non erano ricchi, perdevano al giuoco, si divertivano, e tuttavia non mancavano di denaro. Dove diavolo andavano a trovarlo? Si mise a studiarli a fondo, e a interrogarli:
– Avete trovato una miniera?..
– Sicuro, gli rispondevano, la miniera inesauribile delle umane miserie, delle corbellerie, delle dabbenaggini, delle birbonate, e delle geste quotidiane del genere umano!..
– Che cosa volete dire!.. non capisco niente! parlatemi più schietto, dove trovate il denaro per divertirvi?..
– Nella stampa! gli risposero, in questa lupa affamata, che divora ogni giorno tutte le nostre ciarle, che consuma delle montagne di carta manoscritta, ed è sempre insaziabile per quanto inghiotta, e domanda continuamente dei nuovi alimenti, ed è costretta di pagarli. Noi siamo i fornitori della sua cucina.
– Vorrei potervi imitare, ma non sono letterato, non so proprio nulla, non ho mai avuto il tempo di studiare.
– Ma che letterati d'Egitto!.. noi non siamo più sapienti di te. Slamo del numero infinito dei corrispondenti, che mandano della materia brutta… ma molto brutta a tutti i giornali del mondo. Non siamo capaci di scriver bene, con ponderazione e misura, ma per improvvisare siamo eccellenti. Chi scrive bene muore di fame, meno rare eccezioni. La stampa paga sempre in ragione inversa del volume. Un grosso volume in ottavo produce meno d'un modesto in sedicesimo il quale è meno pagato d'un articolo. La letteratura mena direttamente al fallimento, il giornalismo è più promettente, e può condurre alla ricchezza. Noi mandiamo ogni giorno le notizie di Venezia alla capitale ed all'estero, e ne ricaviamo qualche profitto. Il nostro uffizio di redazione è la bottega di caffè, dove gettiamo sulla carta tutte le ciarle del giorno, e senza nemmeno rileggere lo scritto lo portiamo alla posta. Non si guadagnano tesori, ma con tre o quattro giornali quotidiani si vive. Basta scrivere ogni giorno qualche novità…
– E quando non ce ne sono?
– Ce ne sono sempre!.. È impossibile che Venezia non fornisca qualche argomento alle nostre ciarle. Politica, amministrazione, belle arti, teatri, tutto ci serve. Quando non si sa parlare a fondo di niente, si può scrivere di tutto per sommi capi, degli articoletti divisi come le strofe d'un sonetto. È un genere che piace. È poi affatto impossibile che manchi un argomento piacevole alla cronaca del giorno, un assassinio, un fallimento, un furto, un suicidio, è impossibile che una buona ragazza non faccia uno scapuccio, e ci fornisca la materia per un articoletto verista, è impossibile che un camino non prenda fuoco, che la buon'anima d'uno spiantato non si getti in laguna, che un qualche cassiere non fugga, che il diavolo non metta la coda in qualche sito proibito. In caso disperato, anche senza essere letterati non siamo tanto scemi da non saper inventare una storiella spiritosa, che diverta il pubblico per qualche giorno. Diceva bene Balzac: «pour le journaliste, tout ce qui est probable est vrai.» Noi non abbiamo corrispondenze che con Roma e Milano, ma tu che sei nato in Francia, e scrivi il francese meglio dell'italiano, tu potresti guadagnare moltissimo mandando delle corrispondenze a Parigi.
Silvio afferrò subito questa idea luminosa, scrisse un gran numero di lettere promettendo qualche cosa di nuovo e di interessante su Venezia, inesauribile argomento di osservazioni e di studi, che gli venivano in mente, ispirati dall'amore che suo padre gli aveva comunicato per questa città singolare. Portò le sue lettere alla posta pieno di illusioni, ma il giorno seguente dopo maturo esame, perdette ogni speranza di buona riuscita, e perplesso fra questi due estremi aspettò il risultato della sua prova.
In quel tempo giunse alla villa Bonifazio l'annunzio del prossimo matrimonio del cugino Alessandro, che aveva lasciato il servizio nell'esercito per prender moglie, e invitava a nozze i cugini. «L'esempio della vostra vita tranquilla mi ha spinto a questo passo, egli scriveva, e l'esperienza del mondo mi ha persuaso che se vi sono dei giorni felici non si possono raggiungere che nella intimità della vita domestica, e nella pace della campagna. La casetta ereditata dallo zio mi facilita l'intento. La mia Enrichetta sarà come la Maddalena un'ottima moglie, e una brava padrona di casa. Venite dunque ad assistere al mio matrimonio, e la vostra cara presenza sarà il migliore augurio che io possa desiderare per l'avvenire.»
Papà Gervasio soffriva troppo degli intestini per fare quel viaggio, Maddalena, come al solito, non voleva lasciare un solo giorno la sua Maria; scrissero dunque a Silvio di partire per la Brianza per rappresentare la famiglia alle nozze del cugino. Ma Silvio, che non voleva allontanarsi da Matilde in carnovale, prese il pretesto di affari urgentissimi dell'avvocato che non gli permettevano di assentarsi, si scusò col padre e col cugino, e non si mosse da Venezia, aspettando ansiosamente le risposte dei giornali. I primi riscontri gli vennero dalle provincie. Lo ringraziavano della sua ottima idea, accettavano la sua corrispondenza con sommo piacere, dolenti soltanto di non poterlo ricompensare che con una copia del giornale, il quale viveva della carità di qualche benemerito del partito, che però non bastava a salvarlo dai debiti, da cui era minacciata continuamente la sua esistenza.
Un giornale di Parigi domandava un saggio degli scritti proposti, e se fosse riuscita la prova avrebbe accettato un articolo alla settimana, convenientemente retribuito.
Un giornale di Roma accettava la corrispondenza senza prove, e assicurava un assegno mensile. Dagli altri nessuna risposta; le domande di corrispondenza erano state gettate nel cesto.
Questo risultato gli parve inferiore alle prime speranze, ma di gran lunga migliore di quel fiasco completo, minacciatogli da troppa paura.
Si accinse al lavoro, e non gli mancarono gli argomenti. Cominciò a parlare di feste e di spettacoli, intrecciando le relazioni del presente colle memorie del passato. Cercò di scoprire antiche origini d'usi sociali, mise le fabbriche antiche a paragone delle moderne, la basilica di San Marco colla stazione della ferrovia, i marmi antichi col gesso dei nostri giorni, il Ponte di Rialto coi ponti di ferro, che cancellano i palazzi del Canal Grande, come si cancella un conto sbagliato sopra un registro. Osservò nei ritratti dei musei e nelle medaglie le fisonomie degli antichi veneziani, e andò a cercarne le traccie nel popolo, e a forza di studi comparativi giunse a stabilire un sistema inverso di quello di Darwin, per dimostrare la degenerazione della razza veneziana. L'epoca del carnovale si prestava allo scherzo, ed alla scoperta dei discendenti degli antichi. Annunziò che il proprietario d'un caffè della piazza portava tutti i lineamenti d'un doge, che il gobbo che lustrava le scarpe scendeva sicuramente da un inquisitore di Stato, dipinto da Paolo Veronese. Il mercante di caramelli doveva essere un nipote del Cardinal Bembo, una fioraia che correva pei caffè era l'esatta riproduzione della Zulietta dipinta da Rousseau «in vestito di confidenza.»
I famosi navigatori rispettati in tutti i mari del mondo erano tralignati nei gondolieri che non facevano che il giro dei canali, minacciandosi da lontano. I discendenti del maggior Consiglioandavano in maschera da pagliacci, un erede di Marco Polo era vestito da Pantalone, e un pronipote di Gasparo Gozzi indossava l'abito appezzato dell'Arlecchino, i Signori di nottesuonavano nelle orchestre dei teatri, e i Savierano diventati matti.
In ogni relazione introduceva degli aneddoti piccanti, e delle biografie piene di brio. Le sue corrispondenze facevano ridere, e questo fu un vero successo, per la stagione di carnevale. Quando venne la quaresima, volle che i suoi lettori facessero un poco di penitenza, e allora andò a spolverare gli antichi documenti degli archivi, e le pergamene tarlate, e si mise a parlare di storia. I suoi lettori si addormentavano col giornale in mano negli angoli dei caffè. Egli comprese subito che aveva trovato la chiave del vero corrispondente, e che disponeva a suo talento dell'animo dei lettori del giorno.
Venne pregato di mandare anche delle notizie politiche, e fu l'inventore d'un nuovo genere di corrispondenze che ottenne un vero successo nel giornalismo, e fu prontamente imitato da vari periodici. Ecco in che cosa consisteva la sua invenzione.
Egli raccoglieva le notizie di vari giornali francesi, sapeva ornarle d'una veste nuova, e le mandava a Roma, d'accordo col giornale, come corrispondenze di Parigi. E a Parigi mandava corrispondenze da Roma, eseguite sullo stesso stampo, coll'aggiunta di vari fatterelli curiosi raccolti da qualche deputato in vacanza, da persone che ritornavano da Roma, e da un signore che parlava ad alta voce in uno stanzino del caffè Florian, e che era sempre bene informato delle cose pubbliche, meglio del Questore e del Prefetto.
In breve tempo Silvio divenne un vero reporterdi mestiere, curioso indagatore di novità, domandava conferenze e colloqui con personaggi illustri che giungevano a Venezia, commetteva le più audaci indiscrezioni, e le sue lettere acquistavano un credito, che gli veniva largamente retribuito. E così passò il primo anno di pratica, e l'inverno successivo, immerso nel lavoro, leggendo tutto, e studiandosi di perfezionare la forma letteraria per rendere più gradevoli i suoi scritti. Le ore della sera, prima del teatro, erano tutte dedicate alla famiglia dell'avvocato, a conversare con Metilde, ad ascoltare la musica delle sue parole, e del suo pianoforte, ad ammirare la sua grazia e la sua coltura. E non volle mai saperne di lasciare Venezia un solo giorno, giustificandosi colla famiglia col pretesto dei lavori legali che non gli lasciavano un'ora di libertà.
Papà Gervasio, non potendo ottenere che suo figlio andasse a passare qualche giorno in campagna, gli faceva delle sorprese, recandosi a Venezia, ma per poche ore, con un viglietto di andata e ritorno.
Arrivava colla prima corsa, entrava tutto ansante, carico di cestelle e di sporte, nella camera del figlio, che dormiva ancora.
Gli dava un bacio e poi si metteva a sciogliere gl'involti, e sciorinava gli oggetti sul tavolo e sul cassettone, e metteva in mostra le frutta della stagione, e quelle che aveva saputo conservare. In primavera erano fragoloni più grandi delle noci, d'estate ciliege grosse come prugne, prugne grosse come persici, persici grossi come melagrani. D'autunno peri profumati meravigliosi, pomi d'ogni forma e d'ogni colore dal piccolo Appio dolce al rainette grigio del Canadà. Tirando fuori i fragoloni, papà Gervasio diceva:
– Guarda Mac-Mahon, è una delle più grandi varietà! guarda la Regina Vittoria, è delle più saporite.
Mettendo in riga le pera e i pomi li voltava sempre dalla parte più colorita, li puliva colla palma della mano, li lucidava colla manica del vestito e li nominava:
– Gnocco di Milano! – Generale Totleblen – Cardinale – Butirro Napoleone!
Tutti di casa caricavano il povero papà Gervasio per spedire qualche dono al figliuol prodigo. D'inverno Maria gli mandava delle eccellenti conserve di frutta, in primavera le più belle varietà di rose, d'autunno delle uve moscate color d'oro. La nonna prodigava le calze, le mutande, i corpetti di lana, eseguiti colle sue mani, intrecciando infiniti pensieri e qualche lagrima all'eterna catena della maglia.
Silvio si vestiva ammirando e ciarlando, ringraziava e domandava conto di tutti. Allora il papà gli raccontava le sue piccole sofferenze intestinali senza gravità, poi passava a narrargli i grandi avvenimenti della villa. – Mumut era scomparso improvvisamente di casa, Maria disperata lo fece cercare invano per molti giorni; è facile immaginarsi le sue angustie, i suoi sospetti su certa gente alla quale non ripugna il gatto in umido, purchè sia grasso. Non era possibile di ritrovarlo. Finalmente il maestro Zecchini lo vide accovacciato pacificamente in cima al muricciolo dell'orto della vicina masseria. Una passione sfrenata per una gatta dell'affittuale lo teneva schiavo in quel sito, immemore delle cure costanti di tua cugina, con ingratitudine colpevole. Venne portato a casa che non era più riconoscibile, magro consunto dalla passione, spelato per le lotte sostenute coi rivali. Ora si è abbastanza rifatto, ma conserva una morbosa malinconia che gli impedisce di ritornare alla sua naturale pinguedine. Ma adesso viene il più bello, ascolta anche questa. Pasquale incaricato di fare le più minute indagini per rinvenirlo, mancava ogni giorno di casa per lunghe ore, trascurando il servizio, ma abbiamo scoperto che invece di mettersi alla ricerca del gatto, egli andava a dormire sul fieno.
– Non mi sorprendo, disse Silvio, la malafede e la poltroneria sono del numero dei suoi difetti.
Quando Silvio era pronto facevano un giretto per la piazza, andavano a respirare una boccata d'aria salina sul ponte della Paglia, tornavano alle Procuratie, e passavano al Cavalletto, ove Gervasio faceva una colazione di pesce fresco, in compagnia di suo figlio.
Dopo colazione ritornavano all'alloggio di Silvio, facevano una scelta delle cose migliori portate dalla campagna, e andavano a presentarle alla famiglia dell'avvocato.
La signora Emilia riceveva papà Gervasio con cordiali dimostrazioni di amicizia, gradiva moltissimo quelle frutta, ne faceva mille elogi, diceva di non averne mai vedute di eguali; e si riconfermava sempre più nell'idea della ricchezza dei Bonifazio, che potevano vantare simili prodotti.
Papà Gervasio gongolava agli elogi delle sue colture, e rispondeva che, in fatto, quelle frutta non si trovano in commercio, sono cose da dilettanti; e invitava la signora a visitare la sua villa, e a passarvi alcuni giorni colla sua famiglia, senza complimenti.
– Mille grazie del cortese invito; una volta o l'altra ne profitteremo, prometteva la signora.
– Sarà un vero piacere, e un grande onore per la nostra casa.
La bella Metilde ammirava i fiori, li disponeva artisticamente nei vasi del salotto, cacciava i suoi dentini d'avorio nei fragoloni, gustava un po' di tutto, e proclamava con tanta grazia le delizie di quelle frutta, che papà Gervasio le avrebbe dato un bacio assai volontieri, e sentiva il sapore di quei prodotti meglio che se li avesse mangiati.