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Kitabı oku: «Pinocchio», sayfa 5

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XIX. Pinocchio è derubato delle sue monete d’oro e, per gastigo, si busca quattro mesi di prigione.

Il burattino, ritornato in città, cominciò a contare i minuti a uno a uno; e, quando gli parve che fosse l’ora, riprese subito la strada che menava al Campo dei miracoli.

E mentre camminava con passo frettoloso, il cuore gli batteva forte e gli faceva tic, tac, tic, tac, come un orologio da sala, quando corre davvero. E intanto pensava dentro di sé:

– E se invece di mille monete, ne trovassi su i rami dell’albero duemila?.. E se invece di duemila, ne trovassi cinquemila?.. E se invece di cinquemila ne trovassi centomila? Oh che bel signore, allora, che diventerei!.. Vorrei avere un bel palazzo, mille cavallini di legno e mille scuderie, per potermi baloccare, una cantina di rosoli e di alchermes, e una libreria tutta piena di canditi, di torte, di panettoni, di mandorlati e di cialdoni colla panna.

Così fantasticando, giunse in vicinanza del campo, e lì si fermò a guardare se per caso avesse potuto scorgere qualche albero coi rami carichi di monete: ma non vide nulla. Fece altri cento passi in avanti, e nulla: entrò sul campo… andò proprio su quella piccola buca, dove aveva sotterrato i suoi zecchini, e nulla. Allora diventò pensieroso e, dimenticando le regole del Galateo e della buona creanza, tirò fuori una mano di tasca e si dette una lunghissima grattatina di capo.

In quel mentre sentì fischiare negli orecchi una gran risata: e voltatosi in su, vide sopra un albero un grosso pappagallo che si spollinava le poche penne che aveva addosso.

– Perché ridi? – gli domandò Pinocchio con voce di bizza.

– Rido, perché nello spollinarmi mi son fatto il solletico sotto le ali.

Il burattino non rispose. Andò alla gora e riempita d’acqua la solita ciabatta, si pose nuovamente ad annaffiare la terra che ricuopriva le monete d’oro.

Quand’ecco che un’altra risata, anche più impertinente della prima, si fece sentire nella solitudine silenziosa di quel campo.

– Insomma, – gridò Pinocchio, arrabbiandosi, – si può sapere, Pappagallo mal educato, di che cosa ridi?

– Rido di quei barbagianni, che credono a tutte le scioccherie e che si lasciano trappolare da chi è più furbo di loro.

– Parli forse di me?

– Sì, parlo di te, povero Pinocchio, di te che sei così dolce di sale, da credere che i denari si possano seminare e raccogliere nei campi, come si seminano i fagioli e le zucche. Anch’io l’ho creduto una volta, e oggi ne porto le pene. Oggi (ma troppo tardi!) mi son dovuto persuadere che per mettere insieme onestamente pochi soldi, bisogna saperseli guadagnare o col lavoro delle proprie mani o coll’ingegno della propria testa.

– Non ti capisco, – disse il burattino, che già cominciava a tremare dalla paura.

– Pazienza! Mi spiegherò meglio, – soggiunse il Pappagallo. – Sappi dunque che, mentre tu eri in città, la Volpe e il Gatto sono tornati in questo campo: hanno preso le monete d’oro sotterrate, e poi sono fuggiti come il vento. E ora chi li raggiunge, è bravo!

Pinocchio restò a bocca aperta, e non volendo credere alle parole del Pappagallo, cominciò colle mani e colle unghie a scavare il terreno che aveva annaffiato. E scava, scava, scava, fece una buca così profonda, che ci sarebbe entrato per ritto un pagliaio: ma le monete non ci erano più.

Allora, preso dalla disperazione, tornò di corsa in città e andò difilato in tribunale, per denunziare al giudice i due malandrini, che lo avevano derubato.

Il giudice era uno scimmione della razza dei Gorilla: un vecchio scimmione rispettabile per la sua grave età, per la sua barba bianca e specialmente per i suoi occhiali d’oro, senza vetri, che era costretto a portare continuamente, a motivo di una flussione d’occhi, che lo tormentava da parecchi anni.

Pinocchio, alla presenza del giudice, raccontò per filo e per segno l’iniqua frode, di cui era stato vittima; dette il nome, il cognome e i connotati dei malandrini, e finì col chiedere giustizia.

Il giudice lo ascoltò con molta benignità: prese vivissima parte al racconto: s’intenerì, si commosse: e quando il burattino non ebbe più nulla da dire, allungò la mano e suonò il campanello.

A quella scampanellata comparvero subito due can mastini vestiti da giandarmi.

Allora il giudice, accennando Pinocchio ai giandarmi, disse loro:

– Quel povero diavolo è stato derubato di quattro monete d’oro: pigliatelo dunque e mettetelo subito in prigione.

Il burattino, sentendosi dare questa sentenza fra capo e collo, rimase di princisbecco e voleva protestare: ma i giandarmi, a scanso di perditempi inutili, gli tapparono la bocca e lo condussero in gattabuia.

E lì v’ebbe a rimanere quattro mesi: quattro lunghissimi mesi: e vi sarebbe rimasto anche di più, se non si fosse dato un caso fortunatissimo. Perché bisogna sapere che il giovane Imperatore che regnava nella città di Acchiappa-citrulli, avendo riportato una gran vittoria contro i suoi nemici, ordinò grandi feste pubbliche, luminarie, fuochi artificiali, corse di barberi e velocipedi, e in segno di maggiore esultanza, volle che fossero aperte le carceri e mandati fuori tutti i malandrini.

– Se escono di prigione gli altri, voglio uscire anch’io, – disse Pinocchio al carceriere.

– Voi no, – rispose il carceriere, – perché voi non siete del bel numero…

– Domando scusa, – replicò Pinocchio, – sono un malandrino anch’io.

– In questo caso avete mille ragioni, – disse il carceriere; e levandosi il berretto rispettosamente e salutandolo, gli aprì le porte della prigione e lo lasciò scappare.

XX. Liberato dalla prigione, si avvia per tornare a casa della Fata; ma lungo la strada trova un serpente orribile, e poi rimane preso alla tagliuola.

Figuratevi l’allegrezza di Pinocchio, quando si sentì libero. Senza stare a dire che è e che non è, uscì subito fuori della città e riprese la strada che doveva ricondurlo alla Casina della Fata.

A motivo del tempo piovigginoso, la strada era diventata tutta un pantano e ci si andava fino a mezza gamba.

Ma il burattino non se ne dava per inteso.

Tormentato dalla passione di rivedere il suo babbo e la sua sorellina dai capelli turchini, correva a salti come un cane levriero, e nel correre le pillacchere gli schizzavano fin sopra il berretto. Intanto andava dicendo fra sé e sé:

– Quante disgrazie mi sono accadute… E me le merito! perché io sono un burattino testardo e piccoso… e voglio far sempre tutte le cose a modo mio, senza dar retta a quelli che mi voglion bene e che hanno mille volte più giudizio di me!.. Ma da questa volta in là, faccio proponimento di cambiar vita e di diventare un ragazzo ammodo e ubbidiente… Tanto ormai ho bell’e visto che i ragazzi, a essere disubbidienti, ci scapitano sempre e non ne infilano mai una per il su’ verso. E il mio babbo mi avrà aspettato?.. Ce lo troverò a casa della Fata? è tanto tempo, pover’uomo, che non lo vedo più, che mi struggo di fargli mille carezze e di finirlo dai baci! E la Fata mi perdonerà la brutta azione che le ho fatto?.. E pensare che ho ricevuto da lei tante attenzioni e tante cure amorose… e pensare che se oggi son sempre vivo, lo debbo a lei! Ma si può dare un ragazzo più ingrato e più senza cuore di me?..

Nel tempo che diceva così, si fermò tutt’a un tratto spaventato e fece quattro passi indietro.

Che cosa aveva veduto?..

Aveva veduto un grosso Serpente, disteso attraverso alla strada, che aveva la pelle verde, gli occhi di fuoco e la coda appuntuta, che gli fumava come una cappa di camino.

Impossibile immaginarsi la paura del burattino: il quale, allontanatosi più di mezzo chilometro, si mise a sedere sopra un monticello di sassi, aspettando che il Serpente se ne andasse una buona volta per i fatti suoi e lasciasse libero il passo della strada.

Aspettò un’ora; due ore; tre ore; ma il Serpente era sempre là, e, anche di lontano, si vedeva il rosseggiare de’ suoi occhi di fuoco e la colonna di fumo che gli usciva dalla punta della coda.

Allora Pinocchio, figurandosi di aver coraggio, si avvicinò a pochi passi di distanza, e facendo una vocina dolce, insinuante e sottile, disse al Serpente:

– Scusi, signor Serpente, che mi farebbe il piacere di tirarsi un pochino da una parte, tanto da lasciarmi passare?

Fu lo stesso che dire al muro. Nessuno si mosse.

Allora riprese colla solita vocina:

– Deve sapere, signor Serpente, che io vado a casa, dove c’è il mio babbo che mi aspetta e che è tanto tempo che non lo vedo più!.. Si contenta dunque che io seguiti per la mia strada?

Aspettò un segno di risposta a quella dimanda: ma la risposta non venne: anzi il Serpente, che fin allora pareva arzillo e pieno di vita, diventò immobile e quasi irrigidito. Gli occhi gli si chiusero e la coda gli smesse di fumare.

– Che sia morto davvero?.. – disse Pinocchio, dandosi una fregatina di mani dalla gran contentezza: e senza mettere tempo in mezzo, fece l’atto di scavalcarlo, per passare dall’altra parte della strada. Ma non aveva ancora finito di alzare la gamba, che il Serpente si rizzò all’improvviso, come una molla scattata: e il burattino, nel tirarsi indietro, spaventato, inciampò e cadde per terra.

E per l’appunto cadde così male, che restò col capo conficcato nel fango della strada e con le gambe ritte su in aria.

Alla vista di quel burattino, che sgambettava a capofitto con una velocità incredibile il Serpente fu preso da una tal convulsione di risa, che ridi, ridi, ridi, alla fine, dallo sforzo del troppo ridere, gli si strappò una vena sul petto: e quella volta morì davvero.

Allora Pinocchio ricominciò a correre per arrivare a casa della Fata prima che si facesse buio. Ma lungo la strada non potendo più reggere ai morsi terribili della fame, saltò in un campo coll’intenzione di cogliere poche ciocche d’uva moscadella. Non l’avesse mai fatto!

Appena giunto sotto la vite, crac… sentì stringersi le gambe da due ferri taglienti, che gli fecero vedere quante stelle c’erano in cielo.

Il povero burattino era rimasto preso da una tagliuola appostata là da alcuni contadini per beccarvi alcune grosse faine, che erano il flagello di tutti i pollai del vicinato.

XXI. Pinocchio è preso da un contadino, il quale lo costringe a far da can da guardia a un pollaio.

Pinocchio, come potete figurarvelo, si dette a piangere, a strillare, a raccomandarsi: ma erano pianti e grida inutili, perché lì all’intorno non si vedevano case, e dalla strada non passava anima viva.

Intanto si fece notte.

Un po’ per lo spasimo della tagliuola, che gli segava gli stinchi, e un po’ per la paura di trovarsi solo e al buio in mezzo a quei campi, il burattino principiava quasi a svenirsi; quando a un tratto vedendosi passare una Lucciola di sul capo, la chiamò e le disse:

– O Lucciolina, mi faresti la carità di liberarmi da questo supplizio?..

– Povero figliuolo! – replicò la Lucciola, fermandosi impietosita a guardarlo. – Come mai sei rimasto colle gambe attanagliate fra codesti ferri arrotati?

– Sono entrato nel campo per cogliere due grappoli di quest’uva moscadella, e…

– Ma l’uva era tua?

– No…

– E allora chi t’ha insegnato a portar via la roba degli altri?..

– Avevo fame…

– La fame, ragazzo mio, non è una buona ragione per potere appropriarsi la roba che non è nostra…

– È vero, è vero! – gridò Pinocchio piangendo, – ma un’altra volta non lo farò più.

A questo punto il dialogo fu interrotto da un piccolissimo rumore di passi, che si avvicinavano.

Era il padrone del campo che veniva in punta di piedi a vedere se qualcuna di quelle faine, che mangiavano di nottetempo i polli, fosse rimasta al trabocchetto della tagliuola.

E la sua maraviglia fu grandissima quando, tirata fuori la lanterna di sotto il pastrano, s’accorse che, invece di una faina, c’era rimasto preso un ragazzo.

– Ah, ladracchiòlo! – disse il contadino incollerito, – dunque sei tu che mi porti via le galline?

– Io no, io no! – gridò Pinocchio, singhiozzando. – Io sono entrato nel campo per prendere soltanto due grappoli d’uva!..

– Chi ruba l’uva è capacissimo di rubare anche i polli. Lascia fare a me, che ti darò una lezione da ricordartene per un pezzo.

E aperta la tagliuola, afferrò il burattino per la collottola e lo portò di peso fino a casa, come si porterebbe un agnellino di latte.

Arrivato che fu sull’aia dinanzi alla casa, lo scaraventò in terra: e tenendogli un piede sul collo, gli disse:

– Oramai è tardi e voglio andare a letto. I nostri conti li aggiusteremo domani. Intanto, siccome oggi mi è morto il cane che mi faceva la guardia di notte, tu prenderai subito il suo posto. Tu mi farai da cane di guardia.

Detto fatto, gl’infilò al collo un grosso collare tutto coperto di spunzoni di ottone, e glielo strinse in modo da non poterselo levare passandoci la testa dentro. Al collare c’era attaccata una lunga catenella di ferro: e la catenella era fissata nel muro.

– Se questa notte, – disse il contadino, – cominciasse a piovere, tu puoi andare a cuccia in quel casotto di legno, dove c’è sempre la paglia che ha servito di letto per quattr’anni al mio povero cane. E se per disgrazia venissero i ladri, ricordati di stare a orecchi ritti e di abbaiare.

Dopo quest’ultimo avvertimento, il contadino entrò in casa chiudendo la porta con tanto di catenaccio: e il povero Pinocchio rimase accovacciato sull’aia, più morto che vivo, a motivo del freddo, della fame e della paura. E di tanto in tanto, cacciandosi rabbiosamente le mani dentro al collare, che gli serrava la gola, diceva piangendo:

– Mi sta bene!.. Pur troppo mi sta bene! Ho voluto fare lo svogliato, il vagabondo… ho voluto dar retta ai cattivi compagni, e per questo la sfortuna mi perseguita sempre. Se fossi stato un ragazzino per bene, come ce n’è tanti, se avessi avuto voglia di studiare e di lavorare, se fossi rimasto in casa col mio povero babbo, a quest’ora non mi troverei qui, in mezzo ai campi, a fare il cane di guardia alla casa d’un contadino. Oh, se potessi rinascere un’altra volta!.. Ma oramai è tardi, e ci vuol pazienza!

Fatto questo piccolo sfogo, che gli venne proprio dal cuore, entrò dentro il casotto e si addormentò.

XXII. Pinocchio scuopre i ladri e, in ricompensa di essere stato fedele, vien posto in libertà.

Ed era già più di due ore che dormiva saporitamente; quando verso la mezzanotte fu svegliato da un bisbiglio e da un pissi-pissi di vocine strane, che gli parve di sentire nell’aia. Messa fuori la punta del naso dalla buca del casotto, vide riunite a consiglio quattro bestiuole di pelame scuro, che parevano gatti. Ma non erano gatti: erano faine, animaletti carnivori, ghiottissimi specialmente di uova e di pollastrine giovani. Una di queste faine, staccandosi dalle sue compagne, andò alla buca del casotto e disse sottovoce:

– Buona sera, Melampo.

– Io non mi chiamo Melampo, – rispose il burattino.

– O dunque chi sei?

– Io sono Pinocchio.

– E che cosa fai costì?

– Faccio il cane di guardia.

– O Melampo dov’è? dov’è il vecchio cane, che stava in questo casotto?

– È morto questa mattina.

– Morto? Povera bestia! Era tanto buono!.. Ma giudicandoti alla fisonomia, anche te mi sembri un cane di garbo.

– Domando scusa, io non sono un cane!..

– O chi sei?

– Io sono un burattino.

– E fai da cane di guardia?

– Purtroppo: per mia punizione!..

– Ebbene, io ti propongo gli stessi patti, che avevo col defunto Melampo: e sarai contento.

– E questi patti sarebbero?

– Noi verremo una volta la settimana, come per il passato, a visitare di notte questo pollaio, e porteremo via otto galline. Di queste galline, sette le mangeremo noi, e una la daremo a te, a condizione, s’intende bene, che tu faccia finta di dormire e non ti venga mai l’estro di abbaiare e di svegliare il contadino.

– E Melampo faceva proprio così? – domandò Pinocchio.

– Faceva così, e fra noi e lui siamo andati sempre d’accordo. Dormi dunque tranquillamente, e stai sicuro che prima di partire di qui, ti lasceremo sul casotto una gallina bell’e pelata, per la colazione di domani. Ci siamo intesi bene?

– Anche troppo bene!.. – rispose Pinocchio: e tentennò il capo in un certo modo minaccioso, come se avesse voluto dire: «Fra poco ci riparleremo!».

Quando le quattro faine si credettero sicure del fatto loro, andarono difilato al pollaio, che rimaneva appunto vicinissimo al casotto del cane, e aperta a furia di denti e di unghioli la porticina di legno, che ne chiudeva l’entratina, vi sgusciarono dentro, una dopo l’altra. Ma non erano ancora finite d’entrare, che sentirono la porticina richiudersi con grandissima violenza.

Quello che l’aveva richiusa era Pinocchio; il quale, non contento di averla richiusa, vi posò davanti per maggior sicurezza una grossa pietra, a guisa di puntello.

E poi cominciò ad abbaiare: e, abbaiando proprio come se fosse un cane di guardia, faceva colla voce bu-bu-bu-bu.

A quell’abbaiata, il contadino saltò dal letto e, preso il fucile e affacciatosi alla finestra, domandò:

– Che c’è di nuovo?

– Ci sono i ladri! – rispose Pinocchio.

– Dove sono?

– Nel pollaio.

– Ora scendo subito.

E infatti, in men che non si dice amen, il contadino scese: entrò di corsa nel pollaio e, dopo avere acchiappate e rinchiuse in un sacco le quattro faine, disse loro con accento di vera contentezza:

– Alla fine siete cascate nelle mie mani! Potrei punirvi, ma sì vil non sono! Mi contenterò, invece, di portarvi domani all’oste del vicino paese, il quale vi spellerà e vi cucinerà a uso lepre dolce e forte. È un onore che non vi meritate, ma gli uomini generosi come me non badano a queste piccolezze!..

Quindi, avvicinatosi a Pinocchio, cominciò a fargli molte carezze, e, fra le altre cose, gli domandò:

– Com’hai fatto a scuoprire il complotto di queste quattro ladroncelle? E dire che Melampo, il mio fido Melampo, non s’era mai accorto di nulla…

Il burattino, allora, avrebbe potuto raccontare quel che sapeva: avrebbe potuto, cioè, raccontare i patti vergognosi che passavano fra il cane e le faine: ma ricordatosi che il cane era morto, pensò subito dentro di sé: – A che serve accusare i morti?.. I morti son morti, e la miglior cosa che si possa fare è quella di lasciarli in pace!..

– All’arrivo delle faine sull’aia, eri sveglio o dormivi? – continuò a chiedergli il contadino.

– Dormivo, – rispose Pinocchio, – ma le faine mi hanno svegliato coi loro chiacchiericci, e una è venuta fin qui al casotto per dirmi: «Se prometti di non abbaiare e di non svegliare il padrone, noi ti regaleremo una pollastra bell’e pelata!..». Capite, eh? Avere la sfacciataggine di fare a me una simile proposta! Perché bisogna sapere che io sono un burattino, che avrò tutti i difetti di questo mondo: ma non avrò mai quello di star di balla e di reggere il sacco alla gente disonesta!

– Bravo ragazzo! – gridò il contadino, battendogli sur una spalla. – Cotesti sentimenti ti fanno onore: e per provarti la mia grande soddisfazione, ti lascio libero fin d’ora di tornare a casa.

E gli levò il collare da cane.

XXIII. Pinocchio piange la morte della bella Bambina dai capelli turchini: poi trova un Colombo che lo porta sulla riva del mare, e lì si getta nell’acqua per andare in aiuto del suo babbo Geppetto.

Appena Pinocchio non sentì più il peso durissimo e umiliante di quel collare intorno al collo, si pose a scappare attraverso i campi, e non si fermò un solo minuto, finché non ebbe raggiunta la strada maestra, che doveva ricondurlo alla Casina della Fata.

Arrivato sulla strada maestra, si voltò in giù a guardare nella sottoposta pianura, e vide benissimo a occhio nudo il bosco, dove disgraziatamente aveva incontrato la Volpe e il Gatto: vide, fra mezzo agli alberi, inalzarsi la cima di quella Quercia grande, alla quale era stato appeso ciondoloni per il collo: ma guarda di qua, guarda di là, non gli fu possibile di vedere la piccola casa della bella Bambina dai capelli turchini.

Allora ebbe una specie di tristo presentimento e datosi a correre con quanta forza gli rimaneva nelle gambe, si trovò in pochi minuti sul prato, dove sorgeva una volta la Casina bianca. Ma la Casina bianca non c’era più. C’era, invece, una piccola pietra di marmo sulla quale si leggevano in carattere stampatello queste dolorose parole:

QUI GIACE

LA BAMBINA DAI CAPELLI TURCHINI

MORTA DI DOLORE PER ESSERE STATA ABBANDONATA DAL SUO FRATELLINO PINOCCHIO

Come rimanesse il burattino, quand’ebbe compitate alla peggio quelle parole, lo lascio pensare a voi. Cadde bocconi a terra e coprendo di mille baci quel marmo mortuario, dette in un grande scoppio di pianto. Pianse tutta la notte, e la mattina dopo, sul far del giorno, piangeva sempre, sebbene negli occhi non avesse più lacrime: e le sue grida e i suoi lamenti erano così strazianti e acuti, che tutte le colline all’intorno ne ripetevano l’eco.

E piangendo diceva:

– O Fatina mia, perché sei morta?.. perché, invece di te, non sono morto io, che sono tanto cattivo, mentre tu eri tanto buona?.. E il mio babbo, dove sarà? O Fatina mia, dimmi dove posso trovarlo, che voglio stare sempre con lui, e non lasciarlo più! più! più!.. O Fatina mia, dimmi che non è vero che sei morta!.. Se davvero mi vuoi bene… se vuoi bene al tuo fratellino, rivivisci… ritorna viva come prima!.. Non ti dispiace a vedermi solo e abbandonato da tutti? Se arrivano gli assassini. mi attaccheranno daccapo al ramo dell’albero… e allora morirò per sempre. Che vuoi che faccia qui, solo in questo mondo? Ora che ho perduto te e il mio babbo, chi mi darà da mangiare? Dove anderò a dormire la notte? Chi mi farà la giacchettina nuova? Oh! sarebbe meglio, cento volte meglio, che morissi anch’io! Sì, voglio morire!.. ih! ih! ih!..

E mentre si disperava a questo modo, fece l’atto di volersi strappare i capelli: ma i suoi capelli, essendo di legno, non poté nemmeno levarsi il gusto di ficcarci dentro le dita.

Intanto passò su per aria un grosso Colombo, il quale soffermatosi, a ali distese, gli gridò da una grande altezza:

– Dimmi, bambino, che cosa fai costaggiù?

– Non lo vedi? piango! – disse Pinocchio alzando il capo verso quella voce e strofinandosi gli occhi colla manica della giacchetta.

– Dimmi, – soggiunse allora il Colombo – non conosci per caso fra i tuoi compagni, un burattino, che ha nome Pinocchio?

– Pinocchio?.. Hai detto Pinocchio? – ripeté il burattino saltando subito in piedi. – Pinocchio sono io!

Il Colombo, a questa risposta, si calò velocemente e venne a posarsi a terra. Era più grosso di un tacchino.

– Conoscerai dunque anche Geppetto? – domandò al burattino.

– Se lo conosco? È il mio povero babbo! Ti ha forse parlato di me? Mi conduci da lui? Ma è sempre vivo? Rispondimi per carità: è sempre vivo?

– L’ho lasciato tre giorni fa sulla spiaggia del mare.

– Che cosa faceva?

– Si fabbricava da sé una piccola barchetta per traversare l’Oceano. Quel pover’uomo sono più di quattro mesi che gira per il mondo in cerca di te: e non avendoti potuto trovare, ora si è messo in capo di cercarti nei paesi lontani del nuovo mondo.

– Quanto c’è di qui alla spiaggia? – domandò Pinocchio con ansia affannosa.

– Più di mille chilometri.

– Mille chilometri? O Colombo mio, che bella cosa potessi avere le tue ali!..

– Se vuoi venire, ti ci porto io.

– Come?

– A cavallo sulla mia groppa. Sei peso di molto?..

– Peso? tutt’altro! Son leggiero come una foglia.

E lì, senza stare a dir altro, Pinocchio saltò sulla groppa al Colombo e messa una gamba di qua e l’altra di là, come fanno i cavallerizzi, gridò tutto contento: – Galoppa, galoppa, cavallino, ché mi preme di arrivar presto!..

Il Colombo prese l’aire e in pochi minuti arrivò col volo tanto in alto, che toccava quasi le nuvole. Giunto a quell’altezza straordinaria, il burattino ebbe la curiosità di voltarsi in giù a guardare: e fu preso da tanta paura e da tali giracapi che, per evitare il pericolo di venir disotto, si avviticchiò colle braccia, stretto stretto, al collo della sua piumata cavalcatura.

Volarono tutto il giorno. Sul far della sera, il Colombo disse:

– Ho una gran sete!

– E io una gran fame! – soggiunse Pinocchio.

– Fermiamoci a questa colombaia pochi minuti; e dopo ci rimetteremo in viaggio, per essere domattina all’alba sulla spiaggia del mare.

Entrarono in una colombaia deserta, dove c’era soltanto una catinella piena d’acqua e un cestino ricolmo di veccie.

Il burattino, in tempo di vita sua, non aveva mai potuto patire le veccie: a sentir lui, gli facevano nausea, gli rivoltavano lo stomaco: ma quella sera ne mangiò a strippapelle, e quando l’ebbe quasi finite, si voltò al Colombo e gli disse:

– Non avrei mai creduto che le veccie fossero così buone!

– Bisogna persuadersi, ragazzo mio, – replicò il Colombo, – che quando la fame dice davvero e non c’è altro da mangiare, anche le veccie diventano squisite! La fame non ha capricci né ghiottonerie!

Fatto alla svelta un piccolo spuntino, si riposero in viaggio, e via! La mattina dopo arrivarono sulla spiaggia del mare.

Il Colombo posò a terra Pinocchio, e non volendo nemmeno la seccatura di sentirsi ringraziare per aver fatto una buona azione, riprese subito il volo e sparì.

La spiaggia era piena di gente che urlava e gesticolava guardando il mare.

– Che cos’è accaduto? – domandò Pinocchio a una vecchina.

– Gli è accaduto che un povero babbo, avendo perduto il figliolo, gli è voluto entrare in una barchetta per andare a cercarlo di là dal mare; e il mare oggi è molto cattivo e la barchetta sta per andare sott’acqua…

– Dov’è la barchetta?

– Eccola laggiù, diritta al mio dito, – disse la vecchia, accennando una piccola barca che, veduta in quella distanza, pareva un guscio di noce con dentro un omino piccino piccino.

Pinocchio appuntò gli occhi da quella parte, e dopo aver guardato attentamente, cacciò un urlo acutissimo gridando:

– Gli è il mi’ babbo! gli è il mi’ babbo!

Intanto la barchetta, sbattuta dall’infuriare dell’onde, ora spariva fra i grossi cavalloni, ora tornava a galleggiare: e Pinocchio ritto sulla punta di un alto scoglio non finiva più dal chiamare il suo babbo per nome e dal fargli molti segnali colle mani e col moccichino da naso e perfino col berretto che aveva in capo.

E parve che Geppetto, sebbene fosse molto lontano dalla spiaggia, riconoscesse il figliuolo, perché si levò il berretto anche lui e lo salutò e, a furia di gesti, gli fece capire che sarebbe tornato volentieri indietro, ma il mare era tanto grosso, che gl’impediva di lavorare col remo e di potersi avvicinare alla terra.

Tutt’a un tratto, venne una terribile ondata, e la barca sparì.

Aspettarono che la barca tornasse a galla: ma la barca non si vide più tornare.

– Pover’omo! – dissero allora i pescatori, che erano raccolti sulla spiaggia: e brontolando sottovoce una preghiera si mossero per tornarsene alle loro case.

Quand’ecco che udirono un urlo disperato, e, voltandosi indietro, videro un ragazzetto che, di vetta a uno scoglio, si gettava in mare gridando:

– Voglio salvare il mio babbo!

Pinocchio, essendo tutto di legno, galleggiava facilmente e nuotava come un pesce. Ora si vedeva sparire sott’acqua, portato dall’impeto dei flutti, ora riappariva fuori con una gamba o con un braccio, a grandissima distanza dalla terra. Alla fine lo persero d’occhio e non lo videro più.

– Povero ragazzo! – dissero allora i pescatori, che erano raccolti sulla spiaggia: e brontolando sottovoce una preghiera tornarono alle loro case.

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Litres'teki yayın tarihi:
30 ağustos 2016
Hacim:
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