Kitabı oku: «La Divina commedia / Божественная комедия. Книга для чтения на итальянском языке», sayfa 3
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Canto X
Ora sen va per un secreto calle,
tra ’l muro de la terra e li martìri,
lo mio maestro, e io dopo le spalle.
4 «O virtù somma, che per li empi giri
mi volvi», cominciai, «com’ a te piace,
parlami, e sodisfammi a’ miei disiri.
7 La gente che per li sepolcri giace
potrebbesi veder? già son levati
tutt’ i coperchi, e nessun guardia face».
10 E quelli a me: «Tutti saran serrati
quando di Iosafàt qui torneranno
coi corpi che là sù hanno lasciati.
13 Suo cimitero da questa parte hanno
con Epicuro tutti suoi seguaci,
che l’anima col corpo morta fanno.
16 Però a la dimanda che mi faci
quinc’ entro satisfatto sarà tosto,
e al disio ancor che tu mi taci».
19 E io: «Buon duca, non tegno riposto
a te mio cuor se non per dicer poco,
e tu m’hai non pur mo a ciò disposto».
22 «O Tosco che per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco.
25 La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patria natio,
a la qual forse fui troppo molesto».
28 Subitamente questo suono uscìo
d’una de l’arche; però m’accostai,
temendo, un poco più al duca mio.
31 Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai?
Vedi là Farinata che s’è dritto:
da la cintola in sù tutto ’l vedrai».
34 Io avea già il mio viso nel suo fitto;
ed el s’ergea col petto e con la fronte
com’ avesse l’inferno a gran dispitto.
37 E l’animose man del duca e pronte
mi pinser tra le sepulture a lui,
dicendo: «Le parole tue sien conte».
40 Com’ io al piè de la sua tomba fui,
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
mi dimandò: «Chi fuor li maggior tui?».
43 Io ch’era d’ubidir disideroso,
non gliel celai, ma tutto gliel’ apersi;
ond’ ei levò le ciglia un poco in suso;
46 poi disse: «Fieramente furo avversi
a me e a miei primi e a mia parte,
sì che per due fiate li dispersi».
49 «S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte»,
rispuos’ io lui, «l’una e l’altra fiata;
ma i vostri non appreser ben quell’ arte».
52 Allor surse a la vista scoperchiata
un’ombra, lungo questa, infino al mento:
credo che s’era in ginocchie levata.
55 Dintorno mi guardò, come talento
avesse di veder s’altri era meco;
e poi che ’l sospecciar fu tutto spento,
58 piangendo disse: «Se per questo cieco
carcere vai per altezza d’ingegno,
mio figlio ov’ è? e perché non è teco?».
61 E io a lui: «Da me stesso non vegno:
colui ch’attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno».
64 Le sue parole e ’l modo de la pena
m’avean di costui già letto il nome;
però fu la risposta così piena.
67 Di subito drizzato gridò: «Come?
dicesti «elli ebbe»? non viv’ elli ancora?
non fiere li occhi suoi lo dolce lume?».
70 Quando s’accorse d’alcuna dimora
ch’io facea dinanzi a la risposta,
supin ricadde e più non parve fora.
73 Ma quell’ altro magnanimo, a cui posta
restato m’era, non mutò aspetto,
né mosse collo, né piegò sua costa;
76 e sé continuando al primo detto,
«S’elli han quell’ arte», disse, «male appresa,
ciò mi tormenta più che questo letto.
79 Ma non cinquanta volte fia raccesa
la faccia de la donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell’ arte pesa.
82 E se tu mai nel dolce mondo regge,
dimmi: perché quel popolo è sì empio
incontr’ a’ miei in ciascuna sua legge?».
85 Ond’ io a lui: «Lo strazio e ’l grande scempio
che fece l’Arbia colorata in rosso,
tal orazion fa far nel nostro tempio».
88 Poi ch’ebbe sospirando il capo mosso,
«A ciò non fu’ io sol», disse, «né certo
sanza cagion con li altri sarei mosso.
91 Ma fu’ io solo, là dove sofferto
fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,
colui che la difesi a viso aperto».
94 «Deh, se riposi mai vostra semenza»,
prega’ io lui, «solvetemi quel nodo
che qui ha ’nviluppata mia sentenza.
97 E par che voi veggiate, se ben odo,
dinanzi quel che ’l tempo seco adduce,
e nel presente tenete altro modo».
100 «Noi veggiam, come quei c’ha mala luce,
le cose», disse, «che ne son lontano;
cotanto ancor ne splende il sommo duce.
103 Quando s’appressano o son, tutto è vano
nostro intelletto; e s’altri non ci apporta,
nulla sapem di vostro stato umano.
106 Però comprender puoi che tutta morta
fia nostra conoscenza da quel punto
che del futuro fia chiusa la porta».
109 Allor, come di mia colpa compunto,
dissi: «Or direte dunque a quel caduto
che ’l suo nato è co’ vivi ancor congiunto;
112 e s’i’ fui, dinanzi, a la risposta muto,
fate i saper che ’l fei perché pensava
già ne l’error che m’avete soluto».
115 E già ’l maestro mio mi richiamava;
per ch’i’ pregai lo spirto più avaccio
che mi dicesse chi con lu’ istava.
118 Dissemi: «Qui con più di mille giaccio:
qua dentro è ’l secondo Federico
e ’l Cardinale; e de li altri mi taccio».
121 Indi s’ascose; e io inver’ l’antico
poeta volsi i passi, ripensando
a quel parlar che mi parea nemico.
124 Elli si mosse; e poi, così andando,
mi disse: «Perché se’ tu sì smarrito?».
E io li sodisfeci al suo dimando.
127 «La mente tua conservi quel ch’udito
hai contra te», mi comandò quel saggio;
«e ora attendi qui», e drizzò ’l dito:
130 «quando sarai dinanzi al dolce raggio
di quella il cui bell’ occhio tutto vede,
da lei saprai di tua vita il viaggio».
133 Appresso mosse a man sinistra il piede:
lasciammo il muro e gimmo inver’ lo mezzo
per un sentier ch’a una valle fiede,
136 che ’nfin là su facea spiacer suo lezzo.
Canto XI
In su l’estremità d’un’alta ripa
che facevan gran pietre rotte in cerchio,
venimmo sopra più crudele stipa;
4 e quivi, per l’orribile soperchio
del puzzo che ’l profondo abisso gitta,
ci raccostammo, in dietro, ad un coperchio
7 d’un grand’ avello, ov’ io vidi una scritta
che dicea: ’Anastasio papa guardo,
lo qual trasse Fotin de la via dritta’.
10 «Lo nostro scender conviene esser tardo,
sì che s’ausi un poco in prima il senso
al tristo fiato; e poi no i fia riguardo».
13 Così ’l maestro; e io «Alcun compenso»,
dissi lui, «trova che ’l tempo non passi
perduto». Ed elli: «Vedi ch’a ciò penso».
16 «Figliuol mio, dentro da cotesti sassi»,
cominciò poi a dir, «son tre cerchietti
di grado in grado, come que’ che lassi.
19 Tutti son pien di spirti maladetti;
ma perché poi ti basti pur la vista,
intendi come e perché son costretti.
22 D’ogne malizia, ch’odio in cielo acquista,
ingiuria è ’l fine, ed ogne fin cotale
o con forza o con frode altrui contrista.
25 Ma perché frode è de l’uom proprio male,
più spiace a Dio; e però stan di sotto
li frodolenti, e più dolor li assale.
28 Di violenti il primo cerchio è tutto;
ma perché si fa forza a tre persone,
in tre gironi è distinto e costrutto.
31 A Dio, a sé, al prossimo si pòne
far forza, dico in loro e in lor cose,
come udirai con aperta ragione.
34 Morte per forza e ferute dogliose
nel prossimo si danno, e nel suo avere
ruine, incendi e tollette dannose;
37 onde omicide e ciascun che mal fiere,
guastatori e predon, tutti tormenta
lo giron primo per diverse schiere.
40 Puote8 omo avere in sé man violenta
e ne’ suoi beni; e però nel secondo
giron convien che sanza pro si penta
43 qualunque priva sé del vostro mondo,
biscazza e fonde la sua facultade,
e piange là dov’ esser de’ giocondo.
46 Puossi far forza ne la deitade,
col cor negando e bestemmiando quella,
e spregiando natura e sua bontade;
49 e però lo minor giron suggella
del segno suo e Soddoma e Caorsa
e chi, spregiando Dio col cor, favella.
52 La frode, ond’ ogne coscienza è morsa,
può l’omo usare in colui che ’n lui fida
e in quel che fidanza non imborsa.
55 Questo modo di retro par ch’incida
pur lo vinco d’amor che fa natura;
onde nel cerchio secondo s’annida
58 ipocresia, lusinghe e chi affattura,
falsità, ladroneccio e simonia,
ruffian, baratti e simile lordura.
61 Per l’altro modo quell’ amor s’oblia
che fa natura, e quel ch’è poi aggiunto,
di che la fede spezial si cria;
64 onde nel cerchio minore, ov’ è ’l punto
de l’universo in su che Dite siede,
qualunque trade in etterno è consunto».
67 E io: «Maestro, assai chiara procede
la tua ragione, e assai ben distingue
questo baràtro e ’l popol ch’e’ possiede.
70 Ma dimmi: quei de la palude pingue,
che mena il vento, e che batte la pioggia,
e che s’incontran con sì aspre lingue,
73 perché non dentro da la città roggia
sono ei puniti, se Dio li ha in ira?
e se non li ha, perché sono a tal foggia?».
76 Ed elli a me «Perché tanto delira»,
disse, «lo ’ngegno tuo da quel che sòle?
o ver la mente dove altrove mira?
79 Non ti rimembra di quelle parole
con le quai la tua Etica pertratta
le tre disposizion che ’l ciel non vole,
82 incontenenza, malizia e la matta
bestialitade? e come incontenenza
men Dio offende e men biasimo accatta?
85 Se tu riguardi ben questa sentenza,
e rechiti a la mente chi son quelli
che sù di fuor sostegnon penitenza,
88 tu vedrai ben perché da questi felli
sien dipartiti, e perché men crucciata
la divina vendetta li martelli».
91 «O sol che sani ogne vista turbata,
tu mi contenti sì quando tu solvi,
che, non men che saver, dubbiar m’aggrata.
94 Ancora in dietro un poco ti rivolvi»,
diss’ io, «là dove di’ ch’usura offende
la divina bontade, e ’l groppo solvi».
97 «Filosofia», mi disse, «a chi la ’ntende,
nota, non pure in una sola parte,
come natura lo suo corso prende
100 dal divino ’ntelletto e da sua arte;
e se tu ben la tua Fisica note,
tu troverai, non dopo molte carte,
103 che l’arte vostra quella, quanto pote,
segue, come ’l maestro fa ’l discente;
sì che vostr’ arte a Dio quasi è nepote.
106 Da queste due, se tu ti rechi a mente
lo Genesì dal principio, convene
prender sua vita e avanzar la gente;
109 e perché l’usuriere altra via tene,
per sé natura e per la sua seguace
dispregia, poi ch’in altro pon la spene.
112 Ma seguimi oramai che ’l gir mi piace;
ché i Pesci guizzan su per l’orizzonta,
e ’l Carro tutto sovra ’l Coro giace,
115 e ’l balzo via là oltra si dismonta».
Canto XII
Era lo loco ov’ a scender la riva
venimmo, alpestro e, per quel che v’er’ anco,
tal, ch’ogne vista ne sarebbe schiva.
4 Qual è quella ruina che nel fianco
di qua da Trento l’Adice percosse,
o per tremoto o per sostegno manco,
7 che da cima del monte, onde si mosse,
al piano è sì la roccia discoscesa,
ch’alcuna via darebbe a chi sù fosse:
10 cotal di quel burrato era la scesa;
e ’n su la punta de la rotta lacca
l’infamia di Creti era distesa
13 che fu concetta ne la falsa vacca;
e quando vide noi, sé stesso morse,
sì come quei cui l’ira dentro fiacca.
16 Lo savio mio inver’ lui gridò: «Forse
tu credi che qui sia ’l duca d’Atene,
che sù nel mondo la morte ti porse?
19 Pàrtiti, bestia, ché questi non vene
ammaestrato da la tua sorella,
ma vassi per veder le vostre pene».
22 Qual è quel toro che si slaccia in quella
c’ha ricevuto già ’l colpo mortale,
che gir non sa, ma qua e là saltella,
25 vid’ io lo Minotauro far cotale;
e quello accorto gridò: «Corri al varco;
mentre ch’e’ ’nfuria, è buon che tu ti cale».
28 Così prendemmo via giù per lo scarco
di quelle pietre, che spesso moviensi
sotto i miei piedi per lo novo carco.
31 Io gia pensando; e quei disse: «Tu pensi
forse a questa ruina, ch’è guardata
da quell’ ira bestial ch’i’ ora spensi.
34 Or vo’ che sappi9 che l’altra fiata
ch’i’ discesi qua giù nel basso inferno,
questa roccia non era ancor cascata.
37 Ma certo poco pria, se ben discerno,
che venisse colui che la gran preda
levò a Dite del cerchio superno,
40 da tutte parti l’alta valle feda
tremò sì, ch’i’ pensai che l’universo
sentisse amor, per lo qual è chi creda
43 più volte il mondo in caòsso converso;
e in quel punto questa vecchia roccia,
qui e altrove, tal fece riverso.
46 Ma ficca li occhi a valle, ché s’approccia
la riviera del sangue in la qual bolle
qual che per violenza in altrui noccia».
49 Oh cieca cupidigia e ira folle,
che sì ci sproni ne la vita corta,
e ne l’etterna poi sì mal c’immolle!
52 Io vidi un’ampia fossa in arco torta,
come quella che tutto ’l piano abbraccia,
secondo ch’avea detto la mia scorta;
55 e tra ’l piè de la ripa ed essa, in traccia
corrien centauri, armati di saette,
come solien nel mondo andare a caccia.
58 Veggendoci calar, ciascun ristette,
e de la schiera tre si dipartiro
con archi e asticciuole prima elette;
61 e l’un gridò da lungi: «A qual martiro
venite voi che scendete la costa?
Ditel costinci; se non, l’arco tiro».
64 Lo mio maestro disse: «La risposta
farem noi a Chirón costà di presso:
mal fu la voglia tua sempre sì tosta».
67 Poi mi tentò, e disse: «Quelli è Nesso,
che morì per la bella Deianira,
e fé di sé la vendetta elli stesso.
70 E quel di mezzo, ch’al petto si mira,
è il gran Chirón, il qual nodrì Achille;
quell’ altro è Folo, che fu sì pien d’ira.
73 Dintorno al fosso vanno a mille a mille,
saettando qual anima si svelle
del sangue più che sua colpa sortille».
76 Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle:
Chirón prese uno strale, e con la cocca
fece la barba in dietro a le mascelle.
79 Quando s’ebbe scoperta la gran bocca,
disse a’ compagni: «Siete voi accorti
che quel di retro move ciò ch’el tocca?
82 Così non soglion far li piè d’i morti».
E ’l mio buon duca, che già li er’ al petto,
dove le due nature son consorti,
85 rispuose: «Ben è vivo, e sì soletto
mostrar li mi convien la valle buia;
necessità ’l ci ’nduce, e non diletto.
88 Tal si partì da cantare alleluia
che mi commise quest’ officio novo:
non è ladron, né io anima fuia.
91 Ma per quella virtù per cu’ io movo
li passi miei per sì selvaggia strada,
danne un de’ tuoi, a cui noi siamo a provo,
94 e che ne mostri là dove si guada,
e che porti costui in su la groppa,
ché non è spirto che per l’aere vada».
97 Chirón si volse in su la destra poppa,
e disse a Nesso: «Torna, e sì li guida,
e fa cansar s’altra schiera v’intoppa».
100 Or ci movemmo con la scorta fida
lungo la proda del bollor vermiglio,
dove i bolliti facieno alte strida.
103 Io vidi gente sotto infino al ciglio;
e ’l gran centauro disse: «E’ son tiranni
che dier nel sangue e ne l’aver di piglio.
106 Quivi si piangon li spietati danni;
quivi è Alessandro, e Dionisio fero
che fé Cicilia aver dolorosi anni.
109 E quella fronte c’ha ’l pel così nero,
è Azzolino; e quell’ altro ch’è biondo,
è Opizzo da Esti, il qual per vero
112 fu spento dal figliastro sù nel mondo».
Allor mi volsi al poeta, e quei disse:
«Questi ti sia or primo, e io secondo».
115 Poco più oltre il centauro s’affisse
sovr’ una gente che ’nfino a la gola
parea che di quel bulicame uscisse.
118 Mostrocci un’ombra da l’un canto sola,
dicendo: «Colui fesse in grembo a Dio
lo cor che ’n su Tamisi ancor si cola».
121 Poi vidi gente che di fuor del rio
tenean la testa e ancor tutto ’l casso;
e di costoro assai riconobb’ io.
124 Così a più a più si facea basso
quel sangue, sì che cocea pur li piedi;
e quindi fu del fosso il nostro passo.
127 «Sì come tu da questa parte vedi
lo bulicame che sempre si scema»,
disse ’l centauro, «voglio che tu credi
130 che da quest’ altra a più a più giù prema
lo fondo suo, infin ch’el si raggiunge
ove la tirannia convien che gema.
133 La divina giustizia di qua punge
quell’ Attila che fu flagello in terra,
e Pirro e Sesto; e in etterno munge
136 le lagrime, che col bollor diserra,
a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo,
che fecero a le strade tanta guerra».
139 Poi si rivolse e ripassossi ’l guazzo.
Canto XIII
Non era ancor di là Nesso arrivato,
quando noi ci mettemmo per un bosco
che da nessun sentiero era segnato.
4 Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti;
non pomi v’eran, ma stecchi con tosco.
7 Non han sì aspri sterpi né sì folti
quelle fiere selvagge che ’n odio hanno
tra Cecina e Corneto i luoghi cólti.
10 Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
che cacciar de le Strofade i Troiani
con tristo annunzio di futuro danno.
13 Ali hanno late, e colli e visi umani,
piè con artigli, e pennuto ’l gran ventre;
fanno lamenti in su li alberi strani.
16 E ’l buon maestro «Prima che più entre,
sappi che se’ nel secondo girone»,
mi cominciò a dire, «e sarai mentre
19 che tu verrai ne l’orribil sabbione.
Però riguarda ben; sì vederai
cose che torrien fede al mio sermone».
22 Io sentia d’ogne parte trarre guai
e non vedea persona che ’l facesse;
per ch’io tutto smarrito m’arrestai.
25 Cred’ io ch’ei credette ch’io credesse
che tante voci uscisser, tra quei bronchi,
da gente che per noi si nascondesse.
28 Però disse ’l maestro: «Se tu tronchi
qualche fraschetta d’una d’este piante,
li pensier c’hai si faran tutti monchi».
31 Allor porsi la mano un poco avante
e colsi un ramicel da un gran pruno;
e ’l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?».
34 Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: «Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno?
37 Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb’ esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi».
40 Come d’un stizzo verde ch’arso sia
da l’un de’ capi, che da l’altro geme
e cigola per vento che va via,
43 sì de la scheggia rotta usciva insieme
parole e sangue; ond’ io lasciai la cima
cadere, e stetti come l’uom che teme.
46 «S’elli avesse potuto creder prima»,
rispuose ’l savio mio, «anima lesa,
ciò c’ha veduto pur con la mia rima,
49 non averebbe in te la man distesa;
ma la cosa incredibile mi fece
indurlo ad ovra ch’a me stesso pesa.
52 Ma dilli chi tu fosti, sì che ’n vece
d’alcun’ ammenda tua fama rinfreschi
nel mondo sù, dove tornar li lece».
55 E ’l tronco: «Sì col dolce dir m’adeschi,
ch’i’ non posso tacere; e voi non gravi
perch’ io un poco a ragionar m’inveschi.
58 Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e diserrando, sì soavi,
61 che dal secreto suo quasi ogn’ uom tolsi;
fede portai al glorioso offizio,
tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e ’ polsi.
64 La meretrice che mai da l’ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio,
67 infiammò contra me li animi tutti;
e li ’nfiammati infiammar sì Augusto,
che ’ lieti onor tornaro in tristi lutti.
70 L’animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.
73 Per le nove radici d’esto legno
vi giuro che già mai non ruppi fede
al mio segnor, che fu d’onor sì degno.
76 E se di voi alcun nel mondo riede,
conforti la memoria mia, che giace
ancor del colpo che ’nvidia le diede».
79 Un poco attese, e poi «Da ch’el si tace»,
disse ’l poeta a me, «non perder l’ora;
ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace».
82 Ond’ io a lui: «Domanda tu ancora
di quel che credi ch’a me satisfaccia;
ch’i’ non potrei, tanta pietà m’accora».
85 Perciò ricominciò: «Se l’om ti faccia
liberamente ciò che ’l tuo dir priega,
spirito incarcerato, ancor ti piaccia
88 di dirne come l’anima si lega
in questi nocchi; e dinne, se tu puoi,
s’alcuna mai di tai membra si spiega».
91 Allor soffiò il tronco forte, e poi
si convertì quel vento in cotal voce:
«Brievemente sarà risposto a voi.
94 Quando si parte l’anima feroce
dal corpo ond’ ella stessa s’è disvelta,
Minòs la manda a la settima foce.
97 Cade in la selva, e non l’è parte scelta;
ma là dove fortuna la balestra,
quivi germoglia come gran di spelta.
100 Surge in vermena e in pianta silvestra:
l’Arpie, pascendo poi de le sue foglie,
fanno dolore, e al dolor fenestra.
103 Come l’altre verrem per nostre spoglie,
ma non però ch’alcuna sen rivesta,
ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie.
106 Qui le strascineremo, e per la mesta
selva saranno i nostri corpi appesi,
ciascuno al prun de l’ombra sua molesta».
109 Noi eravamo ancora al tronco attesi,
credendo ch’altro ne volesse dire,
quando noi fummo d’un romor sorpresi,
112 similemente a colui che venire
sente ’l porco e la caccia a la sua posta,
ch’ode le bestie, e le frasche stormire.
115 Ed ecco due da la sinistra costa,
nudi e graffiati, fuggendo sì forte,
che de la selva rompieno ogne rosta.
118 Quel dinanzi: «Or accorri, accorri, morte!».
E l’altro, cui pareva tardar troppo,
gridava: «Lano, sì non furo accorte
121 le gambe tue a le giostre dal Toppo!».
E poi che forse li fallia la lena,
di sé e d’un cespuglio fece un groppo.
124 Di rietro a loro era la selva piena
di nere cagne, bramose e correnti
come veltri ch’uscisser di catena.
127 In quel che s’appiattò miser li denti,
e quel dilaceraro a brano a brano;
poi sen portar quelle membra dolenti.
130 Presemi allor la mia scorta per mano,
e menommi al cespuglio che piangea
per le rotture sanguinenti in vano.
133 «O Iacopo», dicea, «da Santo Andrea,
che t’è giovato di me fare schermo?
che colpa ho io de la tua vita rea?».
136 Quando ’l maestro fu sovr’ esso fermo,
disse: «Chi fosti, che per tante punte
soffi con sangue doloroso sermo?».
139 Ed elli a noi: «O anime che giunte
siete a veder lo strazio disonesto
c’ha le mie fronde sì da me disgiunte,
142 raccoglietele al piè del tristo cesto.
I’ fui de la città che nel Batista
mutò ’l primo padrone; ond’ ei per questo
145 sempre con l’arte sua la farà trista;
e se non fosse che ’n sul passo d’Arno
rimane ancor di lui alcuna vista,
148 que’ cittadin che poi la rifondarno
sovra ’l cener che d’Attila rimase,
avrebber fatto lavorare indarno.
151 Io fei giubetto a me de le mie case».
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07 ekim 2021Yazıldığı tarih:
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